Le ragazze dagli ovuli d’oro

Di Caterina Giojelli
12 Dicembre 2024
Banche e agenzie promettono soldi facili per procedure rapide e indolori. Ma nascondono a migliaia di universitarie rischi e conseguenze dell’ovodonazione. L’inchiesta di Tfp sul “Wild, Wild West” di un’industria milionaria
Foto Depositphotos

Kaylene Breeding aveva 20 anni e scoppiava di salute quando decise di essere troppo giovane per avere figli ma abbastanza grande per aiutare altre donne ad averli. E così donò i suoi ovuli sei volte: due con la formula “altruistica” (a fronte di un rimborso di viaggi e spese mediche), le altre ricevendo un compenso tra 7.500 e i 9 mila dollari. Solo una “donazione” – il termine corretto è vendita, commercio, ma tant’è – si concretizzò in una nascita: due gemelli di una coppia gay israeliana.

Oggi Kaylene Breeding ha 36 anni, soffre di dolore cronico durante l’attività fisica, l’ovulazione e i rapporti sessuali: a causa di una grave endometriosi e adenomiosi probabilmente dovrà sottoporsi a una un’isterectomia. I suoi medici ritengono che tutto questo sia una conseguenza dei bombardamenti di estrogeni a cui è stata sottoposta.

«“Ritengono” è la parola chiave, perché non possono confermarlo con certezza. Ci sono poche ricerche sulle conseguenze mediche a lungo termine della donazione di ovuli». Inizia così la lunga inchiesta di The Free Press (qui tradotta dal Feministpost) sul “Wild, Wild West” dell’industria dell’ovodonazione in America, un mercato da 400 milioni di dollari e in costante crescita. E dove nessuno ha mai parlato con Breeding di effetti collaterali e rischi.

Per un “esito positivo” ci vogliono 73 mila dollari

Funziona così: ci sono le banche degli ovuli e le agenzie di donazione. Le ragazze possono inviare a entrambe le proprie candidature allegando foto, cv, descrizione fisica, anamnesi medica, note personali. Banche e agenzie possono dal canto loro offrire ai committenti servizi di foto-matching per individuare la “donatrice” più simile ai genitori intenzionali. Le prime forniscono un ovulo congelato, le seconde avviano trattamenti sincronizzati tra “donatrice” e ricevente per consentire un trasferimento di ovuli “freschi”.

«Il costo medio di un singolo ciclo di fecondazione artificiale con ovuli di una donatrice si aggira intorno ai 38.000 dollari, mentre un esito positivo costa circa 73.000 dollari», scrive Tfp. Le più richieste sono le “donatrici” anonime, ragazze che firmano un documento di rinuncia a tutti i diritti sugli ovuli estratti, compreso quello di avere informazioni sul bambino che ne nascerà. Come Breeding.

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Vendono ovuli per pagare l’università. «È un’industria predatoria»

Gli Stati Uniti sono oggi il principale fornitore mondiale di ovuli. “Merito” delle altissime tasse universitarie che spingono le ragazze di vent’anni verso il mercato: secondo Diane Tober, PhD, medico, antropologa e ricercatrice nel campo, la maggior parte delle giovani “dona” per pagare le bollette e i debiti (37%), le tasse universitarie (19%) o il debito studentesco (16%).

Non solo, alle donatrici viene costantemente ricordato quanto siano desiderabili: un incentivo a donare il proprio patrimonio genetico, proprio quello che i committenti sognavano. «È un’industria predatoria», dice Tober, «sfrutta giovani donne che cercano una conferma del loro “valore”». La domanda è altissima, molti medici hanno confermato alla ricercatrice di non avere abbastanza tempo «per analizzare i potenziali rischi a lungo termine. Si crea un modello in cui l’assistenza non è più personalizzata, qualcosa che viene prodotto in serie su una linea di trasporto».

Rischiare la pelle per l’ovodonazione promossa su Tik Tok

Anni fa le cliniche pescavano donatrici comprando spazi sui giornali universitari. Oggi l’ovodonazione viene promossa su Tik Tok attraverso immagini di giovani ragazze che agitano le chiavi di nuovi appartamenti o banconote da cento dollari, attraverso slogan quali «Potresti guadagnare fino a 48.000 dollari!». Pubblicità ingannevole, il compenso di una singola donazione va dai 5 ai 10 mila dollari, a meno che la candidata offra un background “impressionante”. E qui si apre un’altra falla del sistema: la verifica delle credenziali della Ivy League piuttosto che delle analisi mediche o delle abilità denunciate dalla ragazza è scarsissima. «La dottoressa Aimee Eyvazzadeh, esperta di fecondazione artificiale con sede a San Francisco, ha visto donatrici chiedere 75.000 dollari con un falso diploma di Harvard, mentre altre nascondono di assumere farmaci psichiatrici».

False anche le promesse delle cliniche: “donare” ovuli non è affatto un’operazione rapida, facile e redditizia, ma una procedura faticosa, lunga e invasiva. Uno studio condotto da Tober su 300 “donatrici” ha rilevato che circa il 15 per cento di loro ha avuto complicazioni mediche immediate e dolorose – come la sindrome da iperstimolazione ovarica (Ohss) o la torsione delle ovaie – o ancora infezioni pelviche, emorragie interne e incidenti chirurgici. E ancora: endometriosi così gravi da portare alla sterilità, malattie autoimmuni e problemi in premenopausa.

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Da donatrici a pazienti. Ma le cartelle cliniche restano top secret

Le testimonianze raccolte da Tober fra le tiktoker sono impressionanti: c’è chi ha riportato un taglio della vescica durante l’intervento di estrazione, chi ha perso mesi di università per il vomito cronico, chi ha rischiato di morire a causa dell’Ohss. Colpa di stimolazioni aggressive per estrarre più ovuli possibili: la donatrice è «solo un mezzo per raggiungere lo scopo».

Come Lauren H., attirata da una pubblicità affissa alla Columbia: 28 ovuli estratti (la media è 18), sviluppo dell’Ohss e impossibilità ad avere accesso alla sua cartella clinica. «Alcuni contratti delle banche di ovuli stabiliscono che le donatrici non possono accedere alle loro cartelle cliniche perché sono “di proprietà” dell’azienda». I follow-up a lungo termine sono scarsissimi. Non c’è un tetto ai compensi né limite al numero di “donazioni”. L’American Society for Reproductive Medicine ha emesso solo linee guida volontarie che raccomandano un massimo di sei procedure per ragazza.

Le lacrime per quei figli biologici di cui non si può sapere nulla

C’è poi il tema dell’anonimato. Ovvero quello del dolore di Ariel, che ha donato ovuli 11 volte, ha sviluppato 3 volte l’Ohss, ha permesso la nascita di 23 bambini nati vivi. Uno è riuscita a prenderlo in braccio, ma ha dovuto fingere di non sapere fosse suo figlio biologico: «Sono andata a casa e ho pianto». E di Angela, 4 donazioni, una diagnosi di malformazione vascolare nel cervello potenzialmente ereditaria e una lunga battaglia per riuscire a far sapere la cosa alle famiglie dei suoi figli “genetici” della cui esistenza si sente «responsabile».

E c’è il tema degli embrioni congelati. Dodici anni fa, Tonya Calilung, 52 anni, infermiera diplomata di Louisville, Kentucky, ha donato gratuitamente i suoi ovuli a un’amica che lottava contro l’infertilità. L’amica ha avuto tre figli e si è ritrovata con 16 embrioni avanzati. Conservarli può arrivare a costare anche mille dollari l’anno e così, dopo 4 anni, non volendo distruggerli per motivi religiosi, la donna ha deciso di donarli: «Calilung ha protestato, ma ha saputo di non avere alcun diritto legale in materia. [… ] “Ho perso il controllo. Ma in realtà non ne ho mai avuto uno sui miei ovuli”», racconta l’infermiera che ha saputo dall’amica che c’erano state diverse gravidanze grazie ai “suoi” embrioni.

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Il limbo degli embrioni congelati

Tempi ha affrontato più volte il tema delle decine di migliaia di embrioni intrappolati nei congelatori delle cliniche per la fertilità, avanzi di gravidanze e sogni infranti di genitorialità. Nessuno sa con esattezza quanti siano attualmente quelli stoccati negli Stati Uniti, i centri per la fertilità non sono tenuti a fornire un numero. Sappiamo, dopo gli incidenti al Fertility Center di Cleveland di cinque anni fa, che una parte delle migliaia di embrioni distrutti era stata depositata fin dagli anni Ottanta, quando iniziarono le prime fecondazioni in vitro.

Ma sappiamo anche che con lo sviluppo delle tecniche di procreazione medicalmente assistita il numero ha subito un’impennata: sono sempre di più le coppie che congelano embrioni in grandi quantità, così da selezionare e trasferire in utero solo il più o i più vitali, uno alla volta, per impedire gravidanze gemellari. Questo significa che il numero di embrioni “avanzati” rispetto a quelli destinati alla gravidanza è altissimo. Uno studio citato dall’Ap nel 2019 stimava 1,4 milioni di bambini, il 5-7 per cento abbandonati a tutti gli effetti da persone che non ne pagano più il deposito, con punte che arrivano al 18 per cento in alcune cliniche.

L’embrione intelligente e quello artificiale

Di chi è ma soprattutto cos’è diventato l’embrione in questo mezzo secolo di esperimenti di fecondazione assistita, surrogazioni di maternità e applicazioni tecniche simili lo abbiamo affrontato su Tempi di novembre e non c’è termine che sintetizzi tutto questo meglio della parola “cavia”. Dicono “la posta in gioco è alta”: lo tornano a spiegare medici ed esperti ogni volta si tratti di far girare il business della produzione artificiale e vagamente eugenetica di figli “di qualità”, raccontare la favola delle donatrici e scartare embrioni per arrivare a quello perfetto.

Oggi, come raccontato qui, siamo agli embrioni selezionati in base al QI, figli nati da padri morti, donne che partoriscono le proprie sorelle. E quando un anno fa è stato annunciato l’arrivo tra noi dei primi embrioni umani artificiali «completi» (coltivati “oltre uno stadio leggermente superiore ai 14 giorni” riprogrammando cellule staminali senza impiego di ovuli e spermatozoi), la premessa era una: nessuno sta creando bambini in laboratorio. Eppure gli embrioni sintetici erano lì a dimostrare che proprio come quasi mezzo secolo fa, con la nascita della prima bimba in provetta, la strada per decifrare i segreti delle prime fasi dello sviluppo embrionale umano e quelle cruciali che seguono al suo impianto nell’utero, era aperta e percorribile. Il resto sarebbe stato solo questione di procedura.

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Oltre la regola dei “14 giorni”

Nulla rispetto a fare di questi embrioni gli strumenti fondamentali per lo studio delle cause d’infertilità, di patologie genetiche e di aborti ricorrenti. Il fatto che la loro esistenza comportasse la distruzione di embrioni umani all’inizio e degli embrioni ibridi stessi alla fine non era un tema. Topi con cervello da ratti, embrioni misti di cellule umane e di maiale (il loro sviluppo è stato arrestato a 28 settimane per timore che potessero dare origini a «cervelli simili a quelli umani») allo scopo di «utilizzare i maiali come incubatrici per la crescita e la coltivazione di organi umani».

Oggi la Gran Bretagna vuole ridisegnare la linea per la ricerca: l’Autorità per la fecondazione umana e l’embriologia (Hfea) ha infatti raccomandato che la legge venga modificata per estendere il limite da 14 a 28 giorni. Oggi tutto è possibile in fatto di riproduzione. Eterologa, gestazione con donazione di ovociti, utero in affitto, nessun medico ti dirà che avere un figlio è impossibile. E presto non lo sarà nemmeno produrne i pezzi di ricambio. Ogni cosa (vedi i bambini con il dna di tre genitori) è un “passo avanti” verso i designer baby a qualunque età e tutto ha inizio grazie al materiale fornito in primis da ragazze come Ariel, Tonya e Kaylene Breeding.

Improvvisamente quell’ovocito divenne «una persona che evidentemente non ero io»

La posta in gioco è alta: tradotto, ne avremo un guadagno importante. A questo pensano le ragazze mentre rinunciano a qualunque diritto sul loro materiale genetico facendosi crivellare dagli estrogeni per “donare il sogno di un bambino” a chi non può averne. Ma è solo rischio e perdita ciò cui vanno incontro senza alcuna consapevolezza. Lo aveva capito (e questa è un’altra grande storia) la giornalista Simona Siri insieme al marito quando

«l’ospedale ci mostrò il questionario compilato dalla donatrice e io notai la sua scrittura, una di quelle grafie rotonde, infantili, con i puntini sulle i che sono quasi pallini e le vocali ciccione. Improvvisamente una cosa astratta come un ovocito divenne una cosa terribilmente concreta, una persona che evidentemente non ero io, così come quel bambino non sarebbe mai stato biologicamente mio, neanche se lo avessi partorito. Chiamai il Dott Schattman e cancellai tutto: “Non è per me”, gli dissi. Non è quello che voglio».

(Mai «no fu più azzeccato», scrive Siri, che a luglio 2020 ha adottato Ella Mae, «la scelta più consapevole che abbia mai fatto in vita mia»).

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