

Quando Naomi Campbell, 50 anni, ha pubblicato la foto dei piedini della sua neonata senza parlare di utero in affitto qualcuno, al netto delle congratulazioni di circostanza, ha dovuto sottolineare l’ovvio. «Le gravidanze di celebrità in età avanzata danno alle donne false speranze su ciò che è effettivamente possibile. La realtà è che è molto, molto improbabile che una donna resti incinta naturalmente a 50 anni. E, inoltre, è altrettanto improbabile che possa farlo usando la fecondazione in vitro».
Lo ha fatto il Guardian con la dottoressa Joyce Harper, scienziata della riproduzione e autrice del libro Your Fertile Years: What You Need to Know to Make Informed Choices. Molte donne attempate pensano che le tecnologie di riproduzione assistita possano fornire una soluzione miracolosa per aiutarle a concepire ovviando a problemi di età e infertilità, «non è così».
I dati sbandierati dalla Human Fertilization and Embryology Authority (Hfea) del Regno Unito le danno ragione. In media solo il 23 per cento degli embrioni trasferiti si traduce in una nascita, e se le possibilità sotto i 35 anni sono del 31 per cento, per le donne tra i 40 e i 42 anni scendono all’11 per cento e precipitano al di sotto del 5 per cento dopo i 43 anni. Il che significa che per questa fascia di età «solo un ciclo di fecondazione in vitro su 20 termina con un “bambino da portare a casa”».
Le probabilità possono aumentare del 25 per cento in caso si “utilizzi” per la procedura un ovulo donato da una donna più giovane o un ovulo congelato anzitempo. Una mezza fake news dell’Hfea, dato che il tasso di successo della gravidanza è in realtà dello 0,7 per cento. Altra faccenda è invece ricorrere al paradiso dell’utero in affitto. E se Naomi Campbell non ne parla le gallery sui “vip genitori grazie alla surrogata”, o gestazione per altri (guai a chiamarlo utero in affitto), si sprecano.
Quello della riproduzione assistita del resto è il tema più spacciato per ovviare alla denatalità. Secondo l’epidemiologa Shanna Swan, autrice del controverso e recente libro Count Down, nel 2045 vivremo in un mondo sterile, con gli spermatozoi azzerati dall’esposizione permanente ai prodotti chimici che alterano la fertilità, lo sviluppo sessuale, influenzano la fluidità di genere e la salute della specie umana. Swan prende le mosse da studi che attestano che i livelli di sperma tra gli uomini occidentali sono diminuiti del 50 per cento negli ultimi quattro decenni. E approda alla conclusione che senza scienza e tecnologie artificiali mettere al mondo bambini diventerà una chimera.
Le tesi del libro vengono discusse su Specchio del 30 maggio, un numero dedicato allo “Spermageddon 2045”. È qui che ci siamo imbattuti in un sincero controcanto proveniente da una donna che appartiene a quel 33 per cento di americani che si è affidato alla tecnologia riproduttiva o conosce qualcuno che l’ha fatto: «In quel 33 per cento ci siamo anche io e mio marito».
Simona Siri, giornalista e scrittrice, firma storica di Stampa e Vanity Fair, che ha pubblicato per Washington Post e molti altri giornali italiani e americani, autrice di Mai Stati così Uniti (Tea Libri), scritto a quattro mani con il marito Dan Gerstein, è la mamma di Ella Mae. Una donna che nell’America «dove le puoi provare davvero tutte» ha scelto l’adozione di una bimba afroamericana. Una bimba che «amo già immensamente e che sento mia al mille per mille, ma neanche per un istante mi sfugge la grandezza della tragedia che sia nata da un’altra donna, e la profondità del privilegio che tra tutte lei abbia scelto me, abbia fatto madre me» (dal Foglio).
Siri è italiana, vive a New York, in un paese dove tutto è possibile in fatto di riproduzione. Eterologa, gestazione con donazione di ovociti, utero in affitto, «non importa la tua età e il tuo stato di salute, nessun medico ti dirà che per te avere un figlio è impossibile». Magari, come il celebre dottor John Zhang, della New Hope Fertility Clinic, ti dirà che le probabilità sono basse, ma «nessuno ti dirà mai di no».
Per capirci, Zhang è il demiurgo del bambini con tre genitori e triplo dna realizzati grazie al “gene editing” con cui «si può fare realmente tutto quello che si vuole. Ogni cosa che noi facciamo è un passo avanti verso i designer baby (bambini disegnati su misura)» (un servizio da centomila dollari bloccato dalla Fda). Il medico che nel 2009 ha reso madre una donna di 49 anni preconizzando un’era in cui le 60enni potranno avere figli (a Cosenza, nel giorno in cui Naomi Campbell annunciava di essere diventata madre, una donna ha partorito a 63 anni con eterologa e ovodonazione). L’uomo che Nature ha ribattezzato “il ribelle della fertilità”.
Zhang è stato anche il medico a cui si sono rivolti Siri e il marito per una “natural Ivf procedure” (utilizzando gli ovociti della donna), da effettuarsi in una clinica in cui «centinaia donne di ogni colore ed età» aspettavano il proprio turno per il prelievo «e dove la sensazione di non essere più una persona, figurarsi una paziente, ma una statistica è fortissima». Tre tentativi falliti dopo, la coppia si rivolge alla Weill Cornell Medicine del dottor Glenn Schattman che la inserisce nel programma per la donazione di ovociti. «In attesa che fosse disponibile una donatrice con le caratteristiche che avevamo richiesto (nel nostro caso chiedemmo solo diploma, assenza di malattie mentali in famiglia e nessun uso di droghe o alcool, ma volendo si può richiedere anche colore di capelli e occhi e anzi, loro stessi chiedono una tua foto da bambina per selezionare una donatrice fisicamente simile a te)».
Trovata la ragazza, era tutto pronto, l’appuntamento fissato. Fino a quando
«l’ospedale ci mostrò il questionario compilato dalla donatrice e io notai la sua scrittura, una di quelle grafie rotonde, infantili, con i puntini sulle i che sono quasi pallini e le vocali ciccione. Improvvisamente una cosa astratta come un ovocito divenne una cosa terribilmente concreta, una persona che evidentemente non ero io, così come quel bambino non sarebbe mai stato biologicamente mio, neanche se lo avessi partorito. Chiamai il Dott Schattman e cancellai tutto: “Non è per me”, gli dissi. Non è quello che voglio».
Mai «no fu più azzeccato», scrive Siri, che a luglio 2020 ha adottato Ella Mae, «la scelta più consapevole che abbia mai fatto in vita mia». Nel paese in cui se non mancano i soldi tutto è sulla carta possibile, anche diventare madri a mezzo firma su un contratto, la donna si dice grata di aver potuto scegliere e che nessuno, dallo Stato ai medici alla sua età, lo avesse fatto per lei.
È un pezzo personale, nessun giudizio su chi compie scelte diverse. Ma il sussulto onesto davanti a chi guarda il futuro e ci vede figli prêt-à-porter autorizzati dallo Stato, realizzati in laboratorio con la promessa, spesso tradita, di poterli “portare a casa” a qualunque costo ed età, con un utero in affitto o servendosi al mercato dei gameti, resta. E nel mondo reale dove sottolineare l’ovvio, che realizzabile non significa possibile – lo dice la natura, lo attesta la scienza, mica la Chiesa cattolica e gli anticatastrofisti -, o che adottare non è un palliativo ma un figlio “per te”, accolto nel suo dramma e col commosso privilegio di amarlo, non è affatto scontato.
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