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Lavoro, la svoltina di Renzi. Quanto deve pedalare ancora il premier per lasciarsi alle spalle il vecchio sindacalismo Pd

Il decreto lavoro al vaglio degli esperti: parlano Alberto Mingardi (Ibl), Paolo Preti (Bocconi) e Michele Tiraboschi (Centro studi Marco Biagi - Adapt)

Caterina Giojelli
03/05/2014 - 3:30
Interni
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Da 66 anni un fantasma si aggira per l’Italia: una Repubblica fondata sul lavoro. È l’alfa e l’omega di ogni discorso, decreto o comizio che veda radunarsi intorno a un leader una folla di potenziali elettori. Per arrivarci ci sono voluti più di 1.000 anni, quando il “professionista” ancora non esisteva e gli uomini si distinguevano in chierici, guerrieri e servi della gleba. Furono questi ultimi a dar vita – marxianamente parlando – alla rivoluzione tecnologica e a quella classe borghese che sapeva maneggiare le arti e che si fuse in corporazioni per rivendicare diritti e poteri contrattuali. E se il lavoro era intellettuale non era un problema: Dante lo risolse iscrivendosi agli Speziali, sostanzialmente un farmacista. Ora tutto è cambiato ma il punto resta lo stesso. Come garantire lavoro, dignità, paga adeguata. E insieme soddisfazione e coscienza che il lavoro non è una dannazione.

Da quando esiste la Repubblica superiamo le corporazioni, e da quando quella frase della Costituzione fu posta a basamento della nostra civile convivenza, tutti si sono ingegnati a far sì che il lavoro non fosse un punto di scontro tra classi sociali, ma il modo in cui l’uomo potesse liberamente realizzare se stesso. Il problema è quello che Pierre Carniti, storico leader del sindacalismo cattolico, sollevò dopo l’approvazione dello Statuto dei Lavoratori (1970), che sanciva più diritti che doveri, più garanzie che obblighi. Oggi in Italia, disse Carniti, la scelta è tra lavoro sicuro e magari malpagato e rischio di impresa, tra lavoro dipendente e lavoro autonomo, che dà più soldi e minori garanzie. C’era, e c’è, anzi è cresciuta, una terza possibilità: si chiama lavoro nero, vero terziario della globalizzazione. Tre facce che finora nessuno ha saputo conciliare, né i governi, né le imprese, né i sindacati; qualcosa hanno fatto i giudici, ma se si considera la montagna di cause pendenti appare chiaro che “la Repubblica fondata sul lavoro” il lavoro lo dà soprattutto ad avvocati e sindacati – chi difende, o rivendica i diritti. I veri autonomi, cooperative, commercianti e pmi svampano al ritmo di 54 al giorno (2 ogni ora, quasi 60 mila imprese perse in 5 anni).

Un antipasto del Jobs Act
Ora Renzi lancia il Jobs Act, per garantire l’ingresso nel mondo del lavoro ai giovani e alle fasce più deboli del mercato, sottrarli al ricatto malavitoso del lavoro nero, e, perché no?, garantire il futuro dei pensionati perché da qualche parte la previdenza dovrà pur attingere. Allora vediamolo, un assaggio di questo grande piano, perché da qualche tempo siamo abituati a veder cambiare i disegni di legge come gli abiti delle modelle ad una sfilata, anche se quello che c’è sotto non è sempre ugualmente attraente. Facendoci aiutare da Alberto Mingardi, direttore dell’Istituto Bruno Leoni, Paolo Preti, docente di organizzazione aziendale alla Bocconi di Milano, e Michele Tiraboschi, direttore del Centro studi internazionali e comparati Marco Biagi.

La riforma annunciata dal premier poggia su un pilastro: il decreto lavoro che lo scorso 23 aprile ha incassato la fiducia della Camera. Si occupa di servizi per il lavoro, maternità, di durc e contratti di solidarietà, ma soprattutto di semplificare alcune forme di contratti a termine e di apprendistato. In una manciata di tweet: estende da 1 a 3 anni il contratto a tempo determinato senza causale, ammettendo fino a un massimo di 5 proroghe e fissando un tetto del 20 per cento superato il quale il lavoratore deve essere stabilizzato. Riduce l’obbligo di assunzione degli apprendisti al 20 per cento (la legge Fornero aveva un tetto del 50) per le aziende con più di 30 dipendenti; in materia di apprendistato prevede inoltre la redazione di un piano formativo individuale scritto semplificato rispetto al passato e ripristina la competenza del pubblico in materia di formazione attraverso le Regioni.

Meno precari, più disoccupati
In altre parole, non si occupa di fare una «“rivoluzione”, ma di andare incontro a un problema: l’irrigidimento nella disciplina dei contratti a termine realizzatosi con la riforma Fornero», sintetizza Mingardi. In pratica i provvedimenti sono pensati per «una percentuale minoritaria del mondo del lavoro, dove l’86,8 per cento di chi porta a casa uno stipendio lo fa a titolo di un contratto a tempo indeterminato. Hanno però un destinatario privilegiato: il giovane sprovvisto di competenze specialistiche», spiega Paolo Preti. «Non esiste alcuna legislazione del lavoro, infatti, che favorisca chi è portatore di know-how: da questa, come da qualunque legislazione, ricava chi ha poco da dare e non ha vantaggi chi invece ha molto da dare». D’accordo Tiraboschi: «Si tratta di riforme parziali e circoscritte, rivolte soprattutto agli attori più deboli del mercato, soggetti a disoccupazione, precarietà, bassi salari: giovani, lavoratori a bassa qualifica, nonché una larga fetta di popolazione femminile».

Novità? Poche ma importanti sul piano tecnico, continua Tiraboschi. Come l’allungamento da 12 a 36 mesi della “acausalità” («un arco temporale efficace per maturare fiducia ed esperienza sia da parte del datore di lavoro che del lavoratore», plaude Preti): «Fino ad oggi per assumere su base temporanea, senza cioè ricorrere ai contratti normati dall’articolo 18, occorreva precisare l’esistenza di specifiche ragioni aziendali. Estendendo l’acausalità la riforma elimina un elemento strutturale del nostro mercato, operando una liberalizzazione molto forte del contratto a tempo determinato».

Il testo del ministro del Lavoro Giuliano Poletti ammetteva nei 36 mesi fino a un massimo di 8 proroghe che la Commissione Lavoro della Camera presieduta da Cesare Damiano (ex Cgil, dell’ala sinistra del Pd contraria a Renzi) ha poi portato a 5. Sui numeri della Commissione, così come sulle altre modifiche specie in materia di formazione, è scoppiata la bagarre: di fatto, spiega Mingardi, «in Commissione, è stata versata molta acqua nel vino. Ed è emerso chiaramente che la cultura del Pd, quando si parla di mercato del lavoro, resta favorevole a fare passi indietro, piuttosto che avanti».

La battaglia ora passa al Senato dove il decreto – a cui Ncd e Sc hanno detto sì «solo per senso di responsabilità» – dovrà essere convertito in legge entro il 20 maggio. Schermaglie elettorali o dettagli, comunque la si metta il testo rischia di fare a cazzotti con le direttive Ue (in particolare per quanto riguarda le disposizioni sull’apprendistato) o con i Ccnl nazionali: le materie del decreto sono già tutte «regolamentate da circa 400 contratti collettivi nazionali – spiega Tiraboschi –, è aumentato così il rischio di contenzioso sindacale».

In altre parole, aggiunge Preti, «se la legislazione non sarà il più possibile chiara e flessibile le aziende non assumeranno per evitare di comparire davanti al giudice del lavoro». Il rischio è quindi quello di avere una legge scritta per i lavoratori e lavoratori che non lavorano. Quanto alla querelle sulla formazione pubblica o privata, «quello che dovremmo fare è semplicemente copiare il modello di apprendistato tedesco che presto bloccherà l’ingresso in ateneo di chi non ha prima trascorso almeno 6 mesi in ambito professionale».

Il totem del posto fisso
Insomma, ad oggi il decreto non spiace ma non convince. Certo, «Renzi e Poletti – commenta Mingardi – non stanno facendo il pacchetto Treu o la legge Biagi, ma hanno comunque preso di mira una dannosa controriforma e devono fronteggiare un grave problema di cultura politica nel partito».

Tuttavia non è insistendo sulla sacralità del posto fisso che spianeremo la strada alla modernità. Non a caso, spiega Tiraboschi, il provvedimento non si occupa del lavoro autonomo, delle partite Iva, del lavoro a progetto, dei tirocini, anzi, «legge tutti questi fenomeni in chiave fraudolenta e non come un tentativo della realtà di adeguarsi a un cambiamento di cui il legislatore non ha ancora coscienza. La vecchia concezione del lavoro subordinato, che funzionava per una fabbrica statica come quella fordista taylorista, non funziona più. Stiamo vivendo una trasformazione globale, non governabile dalle leggi tanto meno quelle sulle tipologie contrattuali su cui insiste da decenni l’Italia», sottolinea Tiraboschi.

A fronte di una norma astratta la crisi e la globalizzazione hanno infatti portato al fiorire imprevisto di logiche sussidiarie, cooperative, addirittura patti individuali tra lavoratori e imprese: «E forse la modernità del lavoro non sarà più in un unico modello costruito con la mediazione sindacale, ma in tanti modelli concordati a seconda del potere contrattuale dei singoli lavoratori». Accordi tra persone, insomma. Che vivaddio, ricorda Preti, sono ancora alla base del nostro sistema imprenditoriale: «Le norme disciplinano inizio e fine del rapporto, ma quello che sta in mezzo, la vita, è ancora in mano alle parti. Che in questi anni di crisi hanno saputo trovare accordi per continuare a realizzare e realizzarsi nel lavoro».

«Grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente», diceva Mao.  San Tommaso d’Aquino, più saggio e concreto, ricordava che «contra factum non valet argumentum», meglio i fatti che le parole. E allora, grazie a Dio, possiamo ricordare che i fatti hanno preceduto le teorie, le leggi, i decreti e sono molti gli esempi di chi, senza discutere a vuoto, si è messo a lavorare. Pagando le tasse e togliendosi la soddisfazione di dimostrare che non siamo nati nel paese sbagliato.

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