
La crisi delle imprese italiane tra fisco, tasse e burocrazia
Non è una semplice corsa a ostacoli quella che un imprenditore affronta quotidianamente. Sembra più una gincana in un campo minato, dove ogni distrazione si paga profumatamente. Tra crisi, recessione, tasse e burocrazia, ogni giorno l’azienda rischia di chiudere la saracinesca la sera e non riaprirla più.
Gli indicatori economici del 2012 sono da brivido. Secondo la Cgia di Mestre, rispetto al 2011 si è registrato un «-6,2 per cento per la produzione industriale; -4,3 il fatturato; -9,8 gli ordinativi nell’industria; -14 la produzione nelle costruzioni; -32,7 miliardi di euro di prestiti bancari alle aziende; +14,4 miliardi di euro di sofferenze bancarie in capo alle imprese». La situazione è destinata a peggiorare se non si troverà un’intesa sulla nascita del nuovo governo: «In campagna elettorale – spiega il segretario Giuseppe Bortolussi – tutti i principali leader politici erano d’accordo nell’evitare l’aumento dell’Iva, nel rivedere la nuova tassa sui rifiuti, nello sbloccare una parte dei pagamenti dello Stato verso le imprese, nel tagliare l’Irap e il costo del lavoro e nell’abolire o ridurre l’Imu sulla prima casa. Se non si troverà un’intesa che permetta la nascita di un nuovo esecutivo in grado di cambiare completamente rotta rispetto alle politiche dell’ultimo anno e mezzo, il danno economico che graverà su famiglie e imprese sarà di almeno 23 miliardi di euro». Intanto il saldo di natalità-mortalità delle imprese diffuso da Confcommercio è negativo: tra gennaio e settembre ci sono state 115.703 iscrizioni e 168.937 cessazioni, per un saldo negativo di 53.234 unità rispetto al -41.347 del 2011.
«Si ha la sensazione di vivere nelle sabbie mobili», esordisce Giovanni Brambilla, amministratore delegato di Nuova Pasticceria, impresa del settore dolciario nata trent’anni fa in provincia di Milano. «Siamo sommersi da pratiche con un costo indiretto spaventoso. Spesso non sappiamo a cosa servono e soprattutto c’è sempre il timore di sbagliare». E l’errore porta sanzioni, spesso salate. «Le faccio un esempio: poco tempo fa ho dovuto compilare un documento per le rappresentanze sindacali unitarie (Rsu). Mi sono informato presso i consulenti del lavoro per capire come doveva essere fatto e nessuno è stato in grado di darmi indicazioni precise. Le dirò di più: il rappresentante delle Rsu non sapeva cosa farsene. Ne vuole un altro? La nuova norma sui contratti d’appalto. Quando firmo il contratto, che nel mio caso è con un’azienda di trasporto merci, devo essere certo che abbia versato i contributi e pagato l’Iva. Se così non fosse sarei considerato suo corresponsabile e rischierei pesanti sanzioni. E la legge italiana, per farmi dormire sonni tranquilli, cosa chiede? Una semplice autocertificazione in cui il trasportatore dichiara di essere in regola con i pagamenti» (In alto, Getty Images).
TOGLIERE, RIVEDERE, ANZI RIDARE. Nell’ultima campagna elettorale si è parlato in continuazione della tassa sulla prima casa. Berlusconi e Grillo hanno promesso di toglierla, Monti e Bersani di rivederla, il solito Cav di rimborsare la rata 2012. Ma nessuno ha parlato dell’Imu sull’invenduto che i costruttori sono stati costretti a pagare. Nel 2012 gli immobili hanno reso allo Stato 44 miliardi di euro, il 36,8 per cento in più rispetto al 2011 (circa 12 miliardi di euro). E a sbarrare la strada delle imprese edili c’è ance il patto di stabilità europeo firmato dai Comuni, cioè tutti quei vincoli di spesa imposti agli enti locali che come effetto hanno quello di bloccare nuovi cantieri e ritardare i pagamenti. Un freno che rende la vita difficile tanto agli imprenditori quanto ai primi cittadini. A questo vanno aggiunti i Piani di governo del territorio (Pgt) che non sono stati approvati e che provocano un blocco di tutti i permessi edilizi per nuove costruzioni o ristrutturazioni, uno stop al recupero dei sottotetti come al Piano Casa. Solo in Lombardia i comuni interessati sono 509 su un totale di 1.544: praticamente uno su tre. Risultato: il settore edilizio è in ginocchio. Il 13 febbraio le principali associazioni dei costruttori si sono date appuntamento per la “Giornata della collera” denunciando la crisi di settore. Piazza Affari a Milano è stata pavimentata con diecimila elmetti gialli a rappresentare, uno per uno, gli altrettanti muratori che, solo nella Bergamasca, hanno perso il lavoro dal 2008 a oggi. (A destra, Ansa)
Ai licenziamenti del settore edile vanno sommati quelli relativi all’indotto. Un esempio è la Cementeria Holcin di Merone (Como) che qualche settimana fa ha deciso di spegnere i forni. Centottanta gli esuberi in Italia, centotrenta nel solo impianto comasco, dove rischia di rimanere a casa un lavoratore su tre. E a questi vanno aggiunti circa 250 lavoratori occupati grazie all’indotto generato dall’azienda sul territorio. Alla crisi del settore si è aggiunta poi la “battaglia” di Legambiente contro l’apertura di una nuova cava nella val Brembana che ha ulteriormente incrinato gli affari della Holcin. L’Associazione nazionale costruttori edili (Ance) lancia il grido dall’arme: «A livello nazionale il settore ha perso, dall’inizio della crisi, 360 mila posti di lavoro, pari a 72 Ilva Taranto. Se si considerano gli 80 settori collegati dell’indotto arriviamo a 550 mila unità. Si tratta di un autentico processo di deindustrializzazione di un settore che prima della crisi rappresentava l’11 per cento del Pil con 3 milioni di addetti complessivi». Le imprese che sono riuscite ad aggiudicarsi appalti pubblici non stanno meglio perché «Il debito della pubblica amministrazione nei confronti delle imprese di costruzione è stimato intorno ai 19 miliardi di euro sui circa 70 complessivi. Il ritardo medio è ormai di 8 mesi, con punte di oltre tre anni. Le imprese non riescono più ad aspettare e chiudono a centinaia». E il credito non manca solo alle imprese: la liquidità per le famiglie è ai minimi storici. Così nel 2012 i mutui per l’acquisto della casa si sono dimezzati e le compravendite di abitazioni sono crollate del 24 per cento.
UN PRELIEVO OCCULTO. Altra piaga è la burocrazia, una delle tasse occulte più alte pagate dalle imprese. Secondo la classifica Doing Business 2013 della Banca Mondiale sui contesti più favorevoli agli affari, su 185 paesi analizzati l’Italia si colloca al 73esimo posto, al penultimo tra gli Stati europei (solo la Grecia è sotto di noi). Anche in questo caso gli esempi non mancano. Per aprire un’officina meccanica occorrono circa 80 permessi che vengono rilasciati da 30 autorità diverse. Il che significa avere pazienza e aspettare. Eppure le direttive sui tempi di risposta delle pubbliche amministrazioni esistono. Allora perché se non li rispetta non succede nulla, mentre l’imprenditore paga caro ogni errore?
Il salumificio Beretta, nella Brianza lecchese, possiede da decenni un’area di 100 mila metri quadrati sulla quale fino all’89 ha gestito un allevamento di suini, poi trasferito nel Mantovano. Il gruppo dei salumi, 586 milioni di fatturato nel 2011 e tre stabilimenti nel raggio di 30 chilometri intorno a Rovagnate, ha presentato un progetto per la realizzazione di un insediamento produttivo con un investimento di 120 milioni di euro in dieci anni che avrebbe garantito 400 posti di lavoro. Ma il Comune non ha mai rilasciato i permessi e nel frattempo Beretta ha continuato a investire all’estero, conquistando il mercato cinese e consolidando quello americano.
Molto simile la storia del polo agro-industriale di Barcon (Treviso), dove due colossi (il gruppo Rotocart e un macello della ditta Colomberotto) disposti a edificare 90 ettari di capannoni con un investimento di circa 310 milioni di euro per 600 posti di lavoro, sono stati sconfitti da un comitato di duecento anime combattive sostenute da ambientalisti e animalisti. Sempre in provincia di Treviso, Ikea, multinazionale svedese specializzata nella vendita di mobili, dopo avere chiesto i permessi per aprire un nuovo store, e dopo averli attesi per troppo tempo, ha deciso di andarsene a Verona e con lei sono sfumate nuove opportunità di lavoro e business.
Producono, investono, danno lavoro. Ma la burocrazia li blocca. È la storia che si ripete. Walter Fontana, titolare dell’omonima azienda in provincia di Lecco, produce stampi e carrozzerie per Audi, Bmw, Mercedes, Ferrari, Jaguar ed è leader mondiale con il 33 per cento del mercato. Tempi.it ha raccontato la sua storia, ricca di paradossi. Dodici anni fa «individuammo un terreno disponibile per la costruzione di un’unica realtà produttiva per rendere più efficiente e meno costosa la produzione. In Comune ritenevano positiva la nostra decisione e dicevano che in 7-8 mesi avremmo potuto avere una fabbrica. Così abbiamo comprato il terreno e da allora siamo in attesa dei permessi. Oltre ai soldi per l’acquisto, ogni anno buttiamo circa 1,5 milioni di euro per spostamenti e affitti di altri immobili presi per far fronte alla nostra produzione che, nel tempo, è cresciuta».
LA NUOVA TARES. E se parliamo di follia, non possiamo dimenticare il nuovo tributo Res che va a sostituire le vecchie Tarsu e Tia e comprende, oltre alla quota ambientale per lo smaltimento dei rifiuti, anche una quota “servizi” per la sicurezza, l’illuminazione e la gestione delle strade. Secondo i dati di Confcommercio, con il 2013 le tariffe aumenteranno in media del 290 per cento, con incrementi superiori al 400 per cento e addirittura al 600 per cento per alcune attività. Qualche esempio: pescherie, fioristi o pizzerie al taglio, con un locale di 100 metri quadrati, andranno a pagare 3.038 euro a fronte dei 401 del 2012; campeggi, benzinai, impianti sportivi sopra i 3.000 metri quadrati passano da 5.461 euro a 11.229; bar, caffè e pasticcerie di 100 metri quadrati da 401 a 1.691 euro; supermercati e macellerie (300 metri quadrati) da 1.204 euro a 3.567; ristoranti, trattorie da 200 metri quadrati da 802 a 4.734 euro. Il nuovo tributo, l’ennesimo, che grava sulle imprese, è calcolato anche in base alle dimensioni dell’azienda. Succede così che i distributori di benzina avranno conti salatissimi anche se per i loro piazzali pagano già per la raccolta e lo smaltimento di rifiuti speciali. Stesso discorso per i saloni delle auto (ma i veicoli esposti che immondizia producono?). Il paradosso si raggiunge con gli hotel che da sempre pagano il “vuoto per pieno”: se anche le camere sono libere e quindi non producono rifiuti, l’albergatore paga come se la struttura fosse al completo.
Questo sistema allontana investitori stranieri e scoraggia quelli italiani. Gli imprenditori chiudono e riaprono oltre confine. I dati dell’ufficio Sviluppo economico del Cantone Ticino lo confermano: col programma Copernico, dal 1997 a oggi, si sono trasferite in Ticino 241 aziende e di queste 113 sono italiane.
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1 commento
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il popolo sa solo che la bce aiuta solo le banche …mi domando se essa è una banca statale o privata…penso la seconda ipotesi altrimenti non si capisce come mai gli stati sovrani chiedono ogni anno prestiti su prestiti .una vergogna