I quarant’anni del Concordato e i problemi di oggi
Pubblichiamo l’intervento del Sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, al convegno “Stato e Chiesa a 40 anni dalla firma del Concordato Repubblicano”, svoltosi a Roma giovedì 8 febbraio. L’evento, organizzato dalla Fondazione Bettino Craxi e dall’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede, ha visto partecipare diversi studiosi e politici. L’intervento di Mantovano è stato pronunciato durante la sessione intitolata “Tavola istituzionale ‘oltre il concordato'” in cui sono intervenuti anche il segretario di Stato Vaticano Pietro Parolin, il ministro degli Esteri Antonio Tajani, la presidente della Commissione Esteri del Senato Stefania Craxi e la giudice della Corte Costituzionale Antonella Sciarrone Alibrandi, il politologo della Luiss Guido Carli Giovanni Orsina.
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1. Il titolo di quest’ultima sessione del convegno invita a guardare al futuro, tenendo conto dell’Accordo di revisione sottoscritto 40 anni fa, ma tenendo conto anche – non potrebbe esse diversamente – di ciò che è cambiato nei quattro decenni trascorsi. È cambiato tanto: i mutamenti avvenuti giustificherebbero un secondo convegno, ricco e articolato come quello che stiamo concludendo. Mi limito, per stare nei tempi, ad accennare a qualche importante modifica di ordine strutturale, che influisce nella dinamica delle relazioni fra Chiesa cattolica e Repubblica italiana, e che fa chiedere quali nuove declinazioni debbano conoscere queste relazioni, nella cornice concordataria.
Quaranta anni fa per un verso la normazione di fonte europea non aveva l’incidenza e la cogenza che ha adesso; per altro verso, la giurisdizione – sia quella comunitaria, sia quella nazionale – non aveva acquisito un’autonomia, che talora diventa ontonomia; per altro verso ancora, non erano operative convenzioni internazionali, che in anni successivi avrebbero avuto importanti ricadute. Si tratta – l’UE, le corti, le autorità chiamate ad applicare le convenzioni – di soggetti terzi rispetto alle parti che il 18 febbraio 1984 hanno firmato il Concordato, ma le decisioni di questi terzi condizionano pesantemente il sistema dei rapporti fra i contraenti.
2. Per non restare nel generico, mi spiego con qualche esempio concreto. È noto che la Commissione Europea, e poi la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, hanno statuito che le rette pagate per la frequenza delle scuole paritarie, o per l’accoglienza in foresterie ecclesiastiche, sarebbero in molti casi assimilabili a corrispettivi, che renderebbero commerciali le attività svolte.
Il caso classico è quello dell’ICI, prima, e dell’IMU, oggi. Le autorità europee hanno ritenuto che, se le attività di scuole e foresterie che percepiscono rette “non simboliche” devono considerarsi commerciali, esse devono soggiacere alle regole del mercato, inclusa quella che vieta allo Stato di avvantaggiare determinati operatori economici rispetto ad altri. È il c.d. divieto di aiuto di Stato, previsto dall’art. 107 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea.
Per questa via, le esenzioni da ICI e IMU accordate dalla legislazione italiana alle scuole paritarie e alle foresterie ecclesiastiche sono state ritenute aiuti di Stato, e quindi vietati dal diritto dell’Unione Europea. È il caso deciso dalla sentenza Montessori (Corte di giustizia, Grande Sezione, 6 novembre 2018, cause riunite da C 622/16 P a C 624/16 P). Rispetto a tali decisioni – che, lo ripeto, sono di organi dell’Unione Europea – il governo Stato Italiano, come i governi degli altri Stati membri, una volta che ha partecipato ai procedimenti, assiste come spettatore, in una posizione di soggezione, per il solo fatto di appartenere all’Unione Europea.
E anzi, l’Italia è chiamata a dare attuazione alla sentenza, per effetto di un ordine emesso dalla Commissione per il recupero di importi corrispondenti alle esenzioni ICI accordate agli enti non commerciali dal 2006 al 2011 (dec. 2023/2103 del 6 ottobre 2023). Dovrà farlo a pena di pesanti sanzioni da parte dell’Ue.
Ora, il governo sta lavorando con la Commissione per esentare quanto meno i soggetti ricadenti al di sotto della soglia degli aiuti de minimis, ma qualche attività dovrà obbligatoriamente esser svolta, seppure ingiusta nella sostanza e nella forma: in alcuni casi sono passati quasi vent’anni dalle esenzioni che si vogliono far recuperare, e qualche diocesi sta ponendo in vendita propri immobili, anche di pregio, per pagare gli arretrati ICI.
Cade sotto la voce “ce lo chiede l’Europa”.
3. È sufficiente? No, perché ci si è messa pure la Corte di Cassazione italiana. Un punto fermo della sentenza della Corte di Giustizia prima ricordata era che, per il regime IMU successivo al 2012, l’esenzione IMU per gli enti non commerciali non costituiva aiuto di Stato.
Si era consolidata l’interpretazione che per le scuole paritarie l’esenzione spettasse tutte le volte in cui la retta percepita fosse inferiore al costo medio per studente, cioè all’importo medio che l’istruzione di uno studente in un certo ciclo scolastico costa allo Stato quando il ragazzo frequenta la scuola statale. Era un criterio razionale e conforme al principio di sussidiarietà: poiché le scuole paritarie svolgono nella sostanza una funzione pubblica, permettono un risparmio di spesa pubblica, poiché sollevano il sistema dell’istruzione statale da un impegno economico che altrimenti grava sulla finanza pubblica; correlativamente, del contributo in natura delle scuole paritarie si deve tener conto quando si richiedono le imposte, riducendole o azzerandole a seconda dei casi.
La Corte di Cassazione (ord. n. 35123/2022) ha ritenuto questo criterio non sufficiente ad assicurare il carattere non commerciale della scuola paritaria, e con esso la spettanza dell’esenzione IMU. Dunque, un intervento giurisprudenziale, non governabile dall’autorità politica, rimette in discussione l’equilibrio raggiunto. Naturalmente siamo al lavoro, ma la questione è particolarmente complessa. La voce “i giudici hanno sempre ragione”, pure nelle materie che a loro non competono, ha da tempo scarso appeal in Italia (spero qualche appeal non residui in segmenti ecclesiali).
4. Se non sono sufficienti l’Ue e le Corti, ci sono le convenzioni internazionali. Si era all’inizio di gennaio 2013; la Banca d’Italia, a seguito di una segnalazione della Procura della Repubblica di Roma, bloccò i pagamenti elettronici in Vaticano attraverso i Pos e attraverso il circuito mondiale delle carte di credito. Per oltre un mese i turisti in visita ai Musei Vaticani, o chi acquistava i medicinali alla farmacia interna, dovettero usare il contante. La questione ruotava attorno a Deutsche Bank Italia, che gestiva il sistema dei bancomat e delle carte di credito dentro la Città del Vaticano, e a presunte carenze di autorizzazione, ma alla fonte vi era stata il mancato – all’epoca – adeguamento alla normativa antiriciclaggio del Vaticano, inserito nella categoria dei Paesi extracomunitari “non equivalenti”.
Il filo conduttore di queste vicende – ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi – è che emergono nodi controversi che riguardano la vita quotidiana, e materiale, della Santa Sede, e della Chiesa in Italia, il cui governo non è nella disponibilità dell’autorità politica. Non lo è certamente nel momento in cui problemi di questo tipo sorgono. Talora l’autorità politica viene interpellata dalla controparte ecclesiale – quasi fosse ancora il soggetto risolutore – quando la questione specifica è già compromessa: ciò ha una oggettiva ricaduta sulle reciproche relazioni.
La proposta che mi permetto di avanzare è di condividere questa complessità, cresciuta nei 40 anni che abbiamo alle spalle: il che vuol dire anzitutto promuovere una comune riflessione su come nasce, e su come si sviluppa questa tipologia di controversie, e quindi su come affrontarle fin dal loro sorgere.
Vanno compiuti comuni passi culturali, prima ancora che giuridici: per esempio, guardando alle decisioni che maturano in sede europea in un’ottica non già di acquiescenza, quasi fossero ineluttabili e indiscutibili, bensì di positiva dialettica. Questo governo lo sta facendo fin dal proprio insediamento, come conferma la modifica degli ordini del giorno dei consigli europei, spesso chiesta e ottenuta dall’Italia, con l’inserimento di materie che parevano affidate alla trattazione esclusiva da parte delle burocrazie. Lo possiamo fare insieme per le voci di comune interesse.
5. Lo stesso vale per le decisioni che si formano nelle varie sedi giurisdizionali: non vanno considerate variabili indipendenti, ma qualcosa che si può concorrere a formare. In che modo? Preparandone le basi culturali, se possibile sperimentando modalità di partecipazione ai vari giudizi, quando essi incidono direttamente sulle iniziative ecclesiali. La nuova declinazione delle nostre reciproche relazioni può conoscere su questi terreni una costruttiva collaborazione.
Ovviamente non vale soltanto per le materie economiche, o finanziarie, o monetarie; la considerazione della non ineluttabilità delle scelte delle burocrazie comunitarie e giudiziarie vale – anche e soprattutto – per le opzioni eticamente sensibili. Perché mai sul fine vita l’ultima frontiera su cui attestarsi dovrebbe essere la trasposizione in legge della sentenza della Corte costituzionale del 2019? Perché non sottoporre il percorso argomentativo di quella sentenza a necessario vaglio critico, per cogliere le anomalie che non pochi commentatori vi hanno rilevato?
Da conservatore, sono interessato a quanto il passato ci regala solo se ha una proiezione positiva nel futuro: il conservatore non è il gestore di un museo, e non sotterra i talenti ricevuti per timore di perderli. Per questo sono convinto che il modello concordatario italiano abbia un futuro, e possa continuare a ispirare altri ordinamenti, se il dialogo istituzionale che lo ha animato in questi quattro decenni viene declinato in concreto riferendosi alla complessità nel frattempo maturata.
Senza trascurare, ovviamente, la felice singolarità di un accordo che, più che un trattato fra due Stati, è la descrizione di un modus (cum)vivendi fra lo Stato italiano e una confessione religiosa. Non una confessione qualsiasi, ma una fede senza la quale l’Italia non sarebbe come è. Un modus vivendi non fra cittadini di Stati differenti, o fra comunità distinte sul medesimo territorio, ma fra persone che condividono l’appartenenza alla Nazione italiana e la professione della fede in Cristo.
Mi sono limitato a nodi di ordine strutturale e giuridico. Ci sarebbero poi questioni di enorme rilievo sociale – penso per tutte all’approccio verso le migrazioni e al crollo demografico -, che pure esigono riflessioni comuni e di prospettiva. Ma di questo magari parleremo in un altro convegno.
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