La Corte costituzionale pretende il suicidio assistito della democrazia
Com’è noto, la Corte costituzionale ha deciso di rinviare di un anno il pronunciamento sulla costituzionalità della norma del codice penale che punisce l’aiuto e l’istigazione al suicidio, un intervento sollecitato dalla procura di Milano in merito al caso di Dj Fabo (Fabiano Antoniani), accompagnato a togliersi la vita in Svizzera dal radicale Marco Cappato. La Consulta ha anche specificato che la scelta del rinvio è finalizzata a «consentire in primo luogo al Parlamento di intervenire con un’appropriata disciplina» sul fine vita, dal momento che «l’attuale assetto normativo lascia prive di adeguata tutela determinate situazioni costituzionalmente meritevoli di protezione e da bilanciare con altri beni costituzionalmente rilevanti». Dunque, i giudici pretendono una legge, altrimenti ci penseranno loro e la “colpa” sarà del Parlamento. Chiaro?
Chiarissimo. Che cosa dice il famoso articolo 580 del codice penale sfidato da Cappato? Recita così:
«Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da uno a cinque anni sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima.
Le pene sono aumentate se la persona istigata o eccitata o aiutata si trova in una delle condizioni indicate nei numeri 1 e 2 dell’articolo precedente. Nondimeno, se la persona suddetta è minore degli anni quattordici o comunque è priva della capacità d’intendere o di volere, si applicano le disposizioni relative all’omicidio».
Che cosa può esserci di incostituzionale in tutto ciò? Difficile dirlo. Tanto è vero che la Corte costituzionale non ci è riuscita, ed è per questo che di fatto ha deciso di non decidere. Per ora.
La direttiva della Consulta comunque lascia pochi spazi ai dubbi. Pur non trovando l’accordo necessario a cassare l’articolo incriminato, spinge perché il legislatore “apra” al suicidio assistito e all’eutanasia. E perché? Il tema ovviamente è l’autodeterminazione, che è un diritto per modo di dire, e che è una materia sempre scivolosa, soprattutto quando riguarda la morte. La Consulta deve attenersi al giuridichese ma, come sempre, la sostanza di questi “strappi” alle norme (e delle norme) a cui ormai siamo abituati, la troviamo su Repubblica. Ha scritto il filosofo Roberto Esposito in un commento pubblicato ieri dal quotidiano romano:
«Aldilà del conflitto di competenza sollevato da questo caso, ciò che colpisce è l’incapacità della classe politica di stabilire a chi appartengano le chiavi della nostra vita. Se il suo inizio non è nella disponibilità di chi viene al mondo, non può esserci sottratta anche la decisione ultima sulla sua fine. Chi altri, se non colui che soffre, può stabilire la soglia di sopportazione di tale sofferenza? O si aspetta che sia lo Stato a definire quali sono le vite “non degne di essere vissute”, come nella Germania nazista? L’atto estremo del suicidio, quando il male abbia raggiunto il punto di non ritorno, non appartiene alla morte, ma ancora alla vita. Ne costituisce anzi l’ultima, decisiva, manifestazione. Chi può arrogarsi il potere di strappargliela?».
Il rovesciamento della realtà è pazzesco. Proprio per evitare di arrivare a un momento in cui «sia lo Stato a definire quali sono le vite “non degne di essere vissute”, come nella Germania nazista», su temi come il fine vita occorrerebbe legiferare il meno possibile. Per capire perché, basta osservare quello che sta succedendo nei paesi dove sul fine vita invece si legifera in scioltezza. Il Canada insegna, per esempio, ma l’Olanda non ha nulla da imparare.
Del resto – sia detto col dovuto rispetto per Dj Fabo e per le sue sofferenze – i suicidi ci sono sempre stati, e proprio come dice Repubblica, hanno a che fare con la vita, non con la legge. Perciò la legge farebbe bene a starne fuori il più possibile. Su queste colonne lo abbiamo scritto mille volte: tutta questa fregola di normare la morte non può avere alcun altro esito che complicare e raffreddare il rapporto tra il malato e il suo medico, e i suoi familiari, e il mondo intero. E questo nel migliore dei casi, perché nei casi peggiori, e cioè nei paesi più “all’avanguardia” (si fa sempre per dire), di solito finisce che «sia lo Stato a definire quali sono le vite “non degne di essere vissute”, come nella Germania nazista».
Quanto al presunto diritto a morire con dignità, beh, anche questo è stato scritto mille volte: nel rapporto tra medico e paziente – o almeno quando questo rapporto è ancora sano e non irrigidito da leggi e testamenti – succede già oggi, moltissime volte, che tutto si risolva in un dignitosissimo “accompagnamento al fine vita”. Quanti di questi casi finiscono in tribunale? E aggiungere nuove regole creerebbe più o meno libertà da entrambe le parti?
Usare la vita e la morte di un uomo per una battaglia ideologica allo scopo di cambiare la legge: questa è la vera vergogna. Si può capire che i giudici non abbiano il fegato di arrivare alla condanna di Cappato. Dopo il morto, in questa tragedia manca solo il martire (il quale, è bene ricordarlo, si è autodenunciato: altro che atto di compassione). Il vuoto normativo comunque non c’è. E che la Consulta tenti di giustificare le proprie intenzioni con l’inerzia del Parlamento è una scelta un po’ furbetta.
Ha scritto il Foglio:
«In attesa dell’ordinanza, è difficile non leggere nelle poche righe di comunicato della Consulta un invito alla politica a fare una legge che tuteli situazioni come quella di Cappato e Dj Fabo. Se avessero deciso ieri [l’altroieri per chi legge, ndr], avrebbero dovuto dire che l’articolo 580 era costituzionale. Il collegio era però molto spaccato sul tema, e dopo due giorni di discussioni, ha optato per una decisione che appare pilatesca».
La verità è che la Corte non ha avuto la forza di dare ragione a Cappato e a Tiziana Siciliano, «la pm che aveva pianto in aula davanti al video delle Iene che raccontava la storia dolorosa di Fabiano Antoniani», come ricorda il Fatto, e che aveva detto all’epoca: «Io mi rifiuto di essere la parte dell’accusa. Io rappresento lo Stato. E lo Stato è anche Cappato». Del resto non si può assumersi alla leggera la responsabilità di dare allo Stato il potere di ammettere che esistano «vite “non degne di essere vissute”». Molto più comodo passare la palla alla politica, ma dopo averla bucata.
Dal blog di Assuntina Morresi:
«Chiunque conosca realmente queste tematiche sa bene che non è possibile fermarle semplicemente dicendo che c’è la “pace bioetica” e quindi il governo non se ne occuperà. E la sentenza della Consulta sul caso Cappato è l’ennesima conferma: il Parlamento ha un anno di tempo per legiferare sul suicidio assistito, fine vita, etc. Dopodiché, fra un anno, comunque la Consulta si pronuncerà. I 5 stelle già sono pronti, mentre la Lega tenta di tergiversare dicendo che nel contratto di governo non c’è scritto niente su questo.
Il rischio ora è che, per paura della patata bollente, si perda l’anno e si eviti di legiferare, con la comoda prospettiva di dare poi la colpa alla Corte costituzionale, e lasciare fare a lei. Invece una legge andrebbe fatta per evitare di lasciare mano libera fra un anno alla Consulta che, a quel punto, avrebbe ragione di intervenire anche pesantemente, vista l’inerzia del Parlamento».
A dirla tutta, non ci sarebbe bisogno di una legge, perché il vuoto normativo non c’è. E quello che c’è, è bene che ci sia. Non dovrebbero esserci, invece, questi giochetti poco coraggiosi della Corte costituzionale, i quali – per usare la terminologia della Corte stessa – mal si bilanciano con altri beni costituzionalmente rilevanti come la democrazia. Ma per questo problemino non si autodenuncerà nessuno.
Foto Ansa
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