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Iraq, 2.800 donne e bambini yazidi ancora scomparsi

A sette anni dalla strage dell'Isis, che uccise 5 mila persone e ne rapì 6.500, tanti mancano ancora all'appello. Mentre la regione del Sinjar è contesa e instabile

Rodolfo Casadei
05/08/2021 - 2:00
Esteri
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Funerale di un capo dei yazidi nel nord dell'Iraq

Si sono svolte il 3 agosto, settimo anniversario dell’occupazione della città di Sinjar da parte dell’Isis, le celebrazioni per commemorare il genocidio degli yazidi iracheni: in poche settimane i jihadisti uccisero 5 mila persone e ne rapirono 6.500, per lo più donne ridotte in stato di schiavitù e bambini, e causarono la fuga dall’omonimo distretto di 300 mila residenti. Sette anni dopo, 2.800 donne e bambini rapiti mancano ancora all’appello, e 200 mila yazidi vivono ancora in campi profughi in tutto il nord dell’Iraq.

L’invasione della Turchia sventata

La legge irachena per indennizzare i sopravvissuti della pulizia etnica e del genocidio è stata approvata solo nel marzo scorso, e non è stata ancora implementata. La principale ragione dello spettacolare insuccesso risiede nella mancata stabilizzazione del distretto, il controllo del cui territorio è frammentato fra quattro entità politico-militari: l’esercito federale di Baghdad, le Forze di mobilitazione popolare (Fmp) filo-iraniane, i curdi turchi del Pkk e i curdi iracheni del Pdk (peshmerga). L’amministrazione civile del distretto è paralizzata dallo stallo politico-militare, e gli aiuti internazionali si concentrano forzatamente sulla popolazione dei campi profughi. All’inizio di quest’anno la Turchia è stata sul punto di lanciare una vasta offensiva militare in questa regione dell’Iraq settentrionale; ciò non è avvenuto ma la situazione resta molto tesa.

Fino al 2014 il distretto di Sinjar, abitato in grande maggioranza da yazidi, era sotto il controllo del Krg (il governo autonomo del Kurdistan iracheno) e dei suoi peshmerga affiliati al Pdk. Espulsi dall’offensiva dell’Isis, i peshmerga riuscirono a riconquistare metà del distretto (e la città di Sinjar) nel novembre 2015 solo grazie al supporto dei bombardamenti americani e a una complicata alleanza con i miliziani del Pkk curdo-turco. Il Pkk da sempre ha le sue basi sulle montagne curdo-irachene di Qandil, al confine fra Iraq e Turchia, e nei campi profughi di Makmour, a sud-ovest di Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno, ma è considerato una forza ostile dai curdi iracheni.

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Il cambio di strategia del Pkk

Da decenni il governo di Erbil (egemonizzato dal Pdk e dalla famiglia Barzani) ha accordi con la Turchia i quali permettono all’aviazione e alle forze armate di Erdogan di intervenire nel territorio curdo-iracheno per attaccare gli insediamenti del Pkk (interventi che negli anni hanno causato esodi di popolazione da 500 villaggi curdi). Partecipare alla riconquista del distretto di Sinjar significava per il Pkk creare un corridoio coi territori dell’adiacente Siria controllati dalle Ypg, le forze curde siriane gemelle del Pkk. Il resto del distretto di Sinjar fu riconquistato nella prima metà del 2017 da un’offensiva condotta dalle Fmp (che hanno creato brigate di yazidi accanto a quelle di sciiti del sud del paese) e dall’esercito federale.

Nel settembre dello stesso anno, dopo il fallito referendum per l’indipendenza del Kurdistan voluto da Masud Barzani, Fmp ed esercito iracheno hanno messo in fuga i peshmerga e hanno preso il controllo di tutto il Sinjar. A quel punto le forze del Pkk hanno cambiato politica: si sono alleate alle Fmp in funzione anti-Pdk e anti-turca. Le milizie filo-iraniane condividono col Pkk l’obiettivo di indebolire la presenza militare turca nel Kurdistan iracheno, e sono a loro volte interessate al corridoio con la Siria per garantire il flusso di armi e approvvigionamenti alle milizie filoiraniane che in Siria sostengono il governo di Bashir al-Assad.

Kurdistan iracheno e Baghdad si riavvicinano

Sotto il governo del premier Haider al Alabadi l’alleanza ha prosperato; le cose sono cambiate quando è diventato capo del governo nazionale Mustafa al Qadimi nel maggio 2020: il nuovo premier è intenzionato a indebolire l’influenza dell’Iran in Iraq, e a tal fine ha firmato nell’ottobre 2020 col presidente del Krg Nechirvan Barzani un accordo sul futuro del distretto di Sinjar che prevede che tutte le milizie attualmente presenti (leggi: Fmp e Pkk) saranno disarmate o espulse e la sicurezza sarà affidata a una nuova forza di sicurezza reclutata fra gli abitanti della regione ma dipendente direttamente dal governo centrale di Baghdad. Ankara ha salutato con soddisfazione l’accordo, ma quando dopo tre mesi i fatti non hanno dato seguito alle parole, Erdogan ha preso a minacciare un intervento militare turco.

L’iniziativa però gli si è ritorta contro: su probabile ispirazione dell’Iran le Fmp anziché ritirarsi hanno rafforzato la loro presenza nel Sinjar, trasferendo là altre tre brigate. Le principali milizie irachene filo-iraniane (Asaib Ahl al-Haq nota come Aah, Harakat Hezbollah al-Nujaba e l’Organizzazione Badr) hanno minacciato rappresaglie contro la Turchia se le forze armate di quel paese avessero lanciato un attacco. Qais al Khazali, leader di Aah, ha approfittato dell’occasione per montare una campagna di propaganda diretta a convincere l’opinione pubblica irachena che la Turchia rappresenta ormai una minaccia all’indipendenza dell’Iraq superiore a quella posta dalla presenza militare americana. Al Khazali ha successivamente affermato che avrebbe personalmente preso le armi contro la Turchia se Ankara avesse dato seguito alle sue «aspirazioni neo-ottomane» di occupare e annettere parti dell’Iraq.

Il 14 aprile la base militare turca di Bashiqa, che si trova 25 km a nord-est di Mosul, è stata attaccata con lanci di missili e un soldato turco è rimasto ucciso. Gli indizi che portavano alle Fmp erano palesi, ma Ankara ha preferito non reagire, concentrando i suoi attacchi contro obiettivi del Pkk sui monti Qandil e nei dintorni di Makmour. È evidente che l’Aah e le altre milizie filoiraniane vogliono trascinare la Turchia in un conflitto su suolo iracheno: questo giustificherebbe a livello nazionale e internazionale la loro progressiva espansione nel nord dell’Iraq, motivata con la difesa del territorio nazionale.

Ad Erdogan per ora non resta altro da fare che denunciare le malefatte del Pkk nel Sinjar, come si è premurata di fare l’agenzia di stampa ufficiale turca Anadolu nell’anniversario del genocidio yazida: «L’organizzazione terroristica Pkk continua le sue attività politiche e militari nel distretto di Sinjar, dove ha insediato suoi miliziani portati dalla Siria e dai monti Qandil col pretesto di contrattaccare l’Isis. (…) Nonostante le forze peshmerga avessero ripreso il controllo della città di Sinjar, molti yazidi non poterono tornare alle loro case perché impediti dal Pkk. Gli yazidi, che periodicamente organizzano proteste per il rilascio dei loro figli rapiti dal Pkk, affermano che l’organizzazione rappresenta un ostacolo per la ricostruzione del Sinjar, e chiede il suo ritiro ad ogni occasione. D’altra parte i dirigenti del Krg esprimono le loro critiche per la presenza del Pkk nella regione. Gli yazidi non possono tornare alle loro case e la ricostruzione della regione è ritardata».

Commemorazione del genocidio dei yazidi

L’unico aspetto positivo di tutta la situazione è il sorprendente riavvicinamento politico del governo autonomo del Kurdistan iracheno col governo nazionale iracheno presieduto da Al Qadimi. Riavvicinamento che però finora non ha dato frutti sul piano concreto, e che potrebbe essere logorato dalla richiesta del premier curdo Barzani, formulata nel suo discorso di commemorazione del genocidio yazida, di trasformare il Sinjar, che attualmente è un distretto del governatorato di Ninive (cioè di Mosul), in un governatorato autonomo.

@RodolfoCasadei

Foto Ansa

 

Tags: IraqIsisrecep erdoganTurchiayazidi
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