La svolta liberale della Lega, la crisi del Pd, il vuoto M5s. Intervista a Marcello Pera

Di Emanuele Boffi
17 Marzo 2021
La svolta liberale della Lega è reale e credibile, Meloni ha sbagliato a non sostenere Draghi, il Pd è in crisi d’identità, il M5s è il vuoto. Parla il filosofo ed ex presidente del Senato che dice: «Palamara andrebbe preso molto sul serio, a partire dal presidente Mattarella»
Marcello Pera

Marcello Pera, filosofo, ex presidente del Senato, è l’interlocutore adatto per comprendere meglio i grandi cambiamenti che stanno avvenendo nella politica italiana negli ultimi mesi. Si era ancora ai tempi del Conte due, quando Pera rilasciò qualche intervista in cui consigliava al leghista Matteo Salvini di “cambiare passo” e di far evolvere il suo partito da mera forza di protesta a partito con velleità di governo. Poi è arrivato lo sconquasso provocato da Matteo Renzi, la caduta dell’esecutivo guidato dall’avvocato del popolo e il governo Draghi.

Presidente Pera, che giudizio dà dell’operazione? Hanno fatto bene Forza Italia e Lega a votare il governo Draghi?

Certamente, è stata la scelta giusta, soprattutto da parte della Lega. A mio modo di vedere si può parlare di un “effetto Draghi” sulla ridefinizione dell’identità leghista sia in politica interna sia in politica estera. Su quest’ultimo punto, in particolare, Draghi ha dimostrato che si può stare in Europa pur conservando tutte le proprie perplessità, cioè in maniera critica e non supina. Senza Draghi, questo ripensamento non sarebbe stato possibile e lo dico a prescindere dal fatto che la Lega, poi, finisca nel Partito popolare europeo o meno.

Lei crede davvero che Salvini abbia compiuto il passo che gli consigliava? O si tratta solo di tattica?

No, guardi, Salvini ne è convinto. Non è questione di tattica né si tratta di una svolta passeggera. Anche perché so che si tratta di una scelta meditata e non estemporanea. Certo, ora ha davanti a sé due problemi: il primo è quello di portarsi dietro tutto il partito, e questo mi pare che stia avvenendo. Rispetto alla situazione di tanti altri, la Lega non ha vissuto scossoni, è riuscita a cambiare senza perdere la propria identità. 

E il secondo problema?

Fatta questa svolta, deve conquistare voti nuovi.

Mi permetta di insistere. Dobbiamo proprio credere a un Salvini, diciamo così per semplificare, moderato, liberale e riformista? Sui giornali si gioca alla contrapposizione tra il Salvini che mantiene la sua figura di arrembante populista e il più riflessivo Giancarlo Giorgetti.

Quello è un escamotage dei quotidiani perché sanno quale è la forza del leader leghista, ma non esiste nessun giochino del “poliziotto buono e poliziotto cattivo”.

È cosa nota che tra lei e Salvini, ancora ai tempi del Conte due, sia avvenuto un incontro privato.

Sì e le posso dire cosa gli ho consigliato. Gli ho detto che lui aveva davanti a sé un portafoglio di voti considerevole, quelli di Forza Italia, ma che per conquistarlo doveva iniziare a rivolgersi a quegli elettori in maniera più convincente.

Lei a ottobre in un’intervista alla Verità disse che il centrodestra doveva iniziare a ragionare su un’offerta politica basata su quattro pilastri: economia, Europa, riforma della Costituzione e giustizia. Sono questi i quattro temi su cui si dovrebbe “impegnare” Salvini?

Sì perché ancora oggi esiste un elettorato borghese e produttivo che aspetta la rivoluzione liberale promessa. È un elettorato che ha bisogno di sentire certe parole d’ordine e che si aspetta decisioni politiche che incidano davvero su quei quattro temi. Io credo che siano esigenze molto diffuse e non estranee alla base leghista, specialmente al Nord, come infatti si vede da certe prese di posizione dei governatori di quelle regioni. Perché, certo, esiste il problema degli sbarchi dei clandestini e la questione della sicurezza, ma esistono anche altri temi: l’economia, la riforma della pubblica amministrazione, la giustizia.

Ora presidente del Consiglio è Mario Draghi. Che ne pensa? C’è una innegabile discontinuità rispetto al governo Conte, ma su certe decisioni – penso soprattutto nell’affronto della pandemia – non sembra essere cambiato molto.

Sulle misure di contenimento del virus non ci si può aspettare molto di diverso. Però la discontinuità c’è, ed è grande rispetto al passato. C’è soprattutto perché Draghi non è Conte, ha un peso specifico diverso sullo scenario internazionale che non è paragonabile. E poi Draghi è uno che comanda, che decide. 

Conte che faceva? 

Mediava. E poi rinunciava ad agire.

Resta la sensazione, però, che sia sempre lo Stato a dover fare tutto.

Lo statalismo era la filosofia di Conte e del Pd, ma non è quella di Draghi. Sì, certo, è un liberal democratico, ma la sua visione non è quella, è un uomo molto attento alle esigenze del mondo imprenditoriale, sa che non bisogna soffocarlo.

Si capisce che in un momento di difficoltà come l’attuale tutti si rivolgano allo Stato per un sostegno, ma non è comunque impressionante che si pensi allo Stato come all’unica e sola soluzione che può aiutare il paese a uscire dalle secche in cui si trova?

Questa è la malattia endemica e storica degli italiani. C’è poca cultura liberale diffusa, si preferisce lamentarsi e affidarsi allo Stato, visto come una mamma buona e premurosa che interviene sempre in caso di necessità.

La rivoluzione liberale è un’utopia?

In Italia è difficile. Siamo un paese in cui questa rivoluzione è stata tradotta in un solo slogan: fateci pagare meno tasse. 

Perché il pensiero liberale non attecchisce?

Perché è contrastato da due grandi culture, maggioritarie nel paese: quella marxista comunista e quella, mi duole dirlo, cattolica, che ha sempre identificato il “bene comune” con l’intervento dello Stato. 

Tuttavia c’è stata una stagione in cui un certo pensiero liberale e un cattolicesimo non di sinistra e aperto più all’intervento della società che non a quello dello Stato, hanno trovato un terreno comune. La stessa area che era rappresentata da Forza Italia, grossomodo, era espressione di questo incontro.

Sì, e proprio da quella esperienza si possono trarre indicazioni utili per capire cosa non ha funzionato. Alla base delle intenzioni di Silvio Berlusconi c’era proprio l’idea di dare corpo a quell’area, solo che poi, tutte le mattine, doveva mediare con Fini, Follini e Casini. Eppure a quell’epoca anche i ceti produttivi del paese s’erano convinti che una rivoluzione liberale fosse possibile. Solo che, poi, sono riemersi gli antichi vizi che hanno ripreso il sopravvento. Si è persa una grande occasione, soprattutto perché la stessa Forza Italia non capì che, con l’avvento al soglio pontificio di Benedetto XVI, si aprivano prospettive di lavoro impensabili fino ad allora.

E ora qual è il destino e ruolo di Forza Italia?

Forza Italia è per la gran parte identificabile con Berlusconi, è un marchio, è quel nome, rimane poco altro di specifico. Certo, può rivendicare il merito di aver fondato il centrodestra in Italia, ma ora la Lega si sta appropriando di quelle posizioni cui il partito di Berlusconi ha per tanti anni dato rappresentanza.

Giorgia Meloni è rimasta all’opposizione. Lo ha fatto rivendicando la propria coerenza con quanto da lei sempre affermato. Ha fatto bene?

Penso di no, hanno prevalso in lei i richiami di una cultura antica e, soprattutto, un certo calcolo politico. Ma, se l’avrà, sarà un risultato di breve respiro, una convenienza di poco conto. È vero che all’opposizione si cresce di più in termini di consensi, ma poi si fa fatica a spenderli. Ce li hai, ma non puoi utilizzarli. Quindi la sua scelta non è stata lungimirante. Inoltre, aderendo anche lei all’esecutivo guidato da Draghi, avrebbe spostato decisamente il baricentro del governo verso il centrodestra.

Parliamo del Movimento 5 stelle. C’è qualcosa che non quadra nella narrazione sui grillini che viene fatta sui media. Ovviamente tutti si accorgono delle grandi capriole che sono state fatte da Beppe Grillo e compagni, ma quel che ci pare sfuggire ai commentatori di casa nostra è che, già al principio, al fondo del M5s ci fosse poco o nulla. Insomma, risentimento con vuoto intorno.

Il M5s non ha mai avuto una dottrina o, se preferisce, un’ideologia di riferimento. C’era il “vaffa” e poco più. Questo spiega certi ondeggiamenti senza freni, altrimenti incomprensibili, dai gilet gialli fino alla svolta «liberale e moderata» proclamata recentemente da Luigi Di Maio. Non c’è alcun cemento, non c’è alcun ideale politico: è facile che il consenso finora raccolto si disperda. Per di più, non c’è classe politica. È arrivata in parlamento gente che sapeva solo protestare, senza alcuna idea su cosa volesse fare una volta raggiunto il potere. Nel caso del M5s non si può parlare nemmeno di forza pragmatica, capace di ideare soluzioni concrete di fronte alle problematiche cui si trova davanti. È proprio e solo opportunismo, svendita di sé. Dietro Grillo c’è il nulla.

E il Pd? Mentre parliamo è uscita la notizia delle dimissioni del suo segretario, Nicola Zingaretti.

Al di là di quest’ultimo fatto, il Pd è un partito in grave crisi e non da oggi. È da anni alla ricerca di un’identità che non trova. Che cos’è? Un partito socialista riformista o un partito che vuole tornare alle care vecchie parole d’ordine di sinistra? È in questa condizione da anni perché non sa cosa scegliere. Anche nell’ultima crisi politica questa indecisione è affiorata in tutta la sua drammaticità. Sono andati avanti per giorni a ripetere “o Conte o morte” e poi hanno fatto la capriola in un battibaleno. Nemmeno durante il Conte due sono riusciti a imporsi, portando contenuti, promuovendo specifiche riforme. Cosa vogliono diventare? Non lo sanno nemmeno loro e, infatti, finiscono per non essere nulla. Anzi, peggio: finiscono con il portare acqua al mulino dei loro compagni di coalizione.

C’è un ultimo attore della scena italiana di cui dobbiamo parlare: Matteo Renzi. Che futuro ha il leader di Italia viva?

Quale sia il suo futuro non posso saperlo, ma sono certo che è stato lui la causa prima della crisi del governo Conte. Non sono un suo sostenitore, ma riconosco che è lui il vero vincitore della contesa. Prima ha battuto Conte e ora anche Zingaretti.

Di sicuro, a livello tattico, Renzi è il più abile tra i nostri politici. Ma essere il più bravo non significa essere il più votato. Questa sua spregiudicatezza non rischia di essere pagata alle urne?

Renzi provoca antipatie notevoli. Se ne è avuta riprova anche anni fa quando ci fu un avvicinamento con Forza Italia. Ricorda? Si era ai tempi del cosiddetto patto del Nazareno, del “partito della Nazione” e Giuliano Ferrara lo chiamava il «royal baby», un momento favorevolissimo per mettere mano a una riforma della Costituzione. 

Solo che?

Solo che Renzi, che da un punto di vista di tattica politica è un gigante rispetto a tutti gli altri, ha dei limiti caratteriali molto evidenti.

All’inizio citava tra i pilastri dell’offerta politica del centrodestra la questione della giustizia. Da qualche settimana è uscito in libreria il libro intervista di Alessandro Sallusti all’ex pm Luca Palamara in cui si racconta come funziona il “sistema” in Italia. Sebbene sia un successo editoriale, sembra anche un sasso gettato nello stagno. Un po’ di clamore, ma poi molto silenzio.

Quel che è descritto nel libro io l’ho vissuto. Sono stato responsabile giustizia di Forza Italia dal ’97 al ’99 e il discorso che abbiamo sempre fatto è che la magistratura doveva essere sì indipendente non solo dalla politica bensì anche, e soprattutto, dalle sue correnti interne. Ora che è scoppiato questo scandalo, il bubbone è maleodorante, ma tutti fanno finta di nulla. La strategia è chiara: isolare Palamara, far credere che è lui l’unico colpevole. Non è vero, le responsabilità sono gravi e diffuse. Il Consiglio superiore della magistratura, così com’è, è fuori dalla Costituzione. La denuncia di Palamara andrebbe presa molto sul serio da tutti coloro che hanno un ruolo nelle istituzioni, anche dal presidente della Repubblica. Un grave compito spetta a Draghi e al guardasigilli Marta Cartabia.

Mi lasci essere scettico. Credo che né Draghi né Cartabia interverranno su questo punto.

Lo penso anche io, anche perché anziché un Draghi ci vorrebbe un drago. Draghi potrà portare in porto qualche riforma per migliorare l’efficienza dei processi, ma per il resto servirebbe una legislatura costituente per ridimensionare il peso della magistratura in Italia. 

E anche quello di certa stampa, da sempre buca delle lettere delle inchieste di alcune procure.

Si parla spesso di separare le carriere di giudici e pm, ma mai di separare quelle tra avvocati e giudici e tra pm e giornalisti. Anche sul ruolo della stampa ci sarebbe da scrivere un libro. Sono troppi i cronisti che vanno a braccetto con i pubblici ministeri.

Foto Ansa

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