Imprenditori suicidi? «La concertazione non basta. Bisogna ascoltarli»

Di Carlo Candiani
08 Maggio 2012
Paolo Preti (Bocconi di Milano): «È nel momento del bisogno che ogni persona riscopre di quale consistenza è fatto, ma il suicidio non si può certo ritenere una soluzione»

I suicidi degli imprenditori e dei semplici cittadini davanti alla crisi economica hanno fatto riflettere anche le grandi testate come il Corriere della Sera, dove Dario Di Vico ha denunciato «la deriva psicologica che sta investendo la parte più debole dei ceti produttivi, dei pensionati e dei disoccupati». «È una vera novità questa attenzione dei giornali più importanti» dichiara a tempi.it Paolo Preti, docente di organizzazione per le piccole e medie imprese all’Università Bocconi di Milano. «Di Vico rivela una verità dura da accettare: è nel momento del bisogno che ogni persona si scopre forte o debole. È una solitudine a due facce: di fronte alle proprie responsabilità l’uomo riscopre di quale consistenza è fatto, ma il suicidio non si può certo ritenere una soluzione».

«Per troppo tempo – scrive Di Vico – abbiamo confuso la coesione sociale con il tavolo della concertazione». Una critica a governo e parti sociali?
Certamente sì. Quando c’era crescita economica si è pensato che la concertazione potesse risolvere i problemi strutturali: in realtà, questa riguarda i problemi redistributivi. Ma prima di redistribuire bisogna creare ricchezza. È chiaro che a un imprenditore che lavora in un mercato che riconosce il suo lavoro e accetta di essere rappresentato da Confindustria, la concertazione non serve a nulla. L’imprenditore si scopre quello che è sempre stato: un uomo solo al comando.

La parte più debole dell’articolo di Di Vico è l’appello per una “Giornata nazionale di solidarietà e mobilitazione”. Pare una modalità inadeguata: non le sembra un modo un po’ retorico per affrontare questa realtà?
Onestamente ritengo di no. Le sole parole non risolvono nessun tipo di problema, va da sé. È altrettanto vero che il poter essere ascoltati, il poter essere capiti da interlocutori che conoscano la realtà imprenditoriale, magari non risolve, ma indubbiamente ricarica le pile. Me ne accorgo quotidianamente nei rapporti che ho con gli imprenditori che seguo. Spesso, però, ma non è il caso di Di Vico, chi oggi riempie colonne di giornali su questi temi sono gli stessi quotidiani e una parte politica culturale che fino all’altro ieri chiamava gli imprenditori “padroni” e che identificava nell’impresa un nemico da combattere più che uno strumento per creare ricchezza. Ho assistito ad un repentino cambiamento: se fino a ieri si accusava, oggi, in una logica “anti qualcosa”, anche l’imprenditore torna buono.

A questo punto c’è un dato certo: le parole non bastano più. Quali sono le priorità su cui puntare?
Bisognerebbe fare pressing sul ministro Passera, l’ineffabile ministro dello Sviluppo economico: dopo esserci concentrati a lungo sul “salva Italia”, sarebbe il momento degli interventi per “crescita Italia”, mentre invece si è già passati a “taglia Italia”. È come se si fosse saltato un passaggio: l’aiuto per la crescita delle imprese. Che fine ha fatto? Concretamente non mi sembrava male la proposta di Angelino Alfano per la compensazione crediti-debiti del privato verso il pubblico rispetto alle tasse da pagare. È stata irrisa da parte del Governo e liquidata come un sogno inattuabile: in realtà non è così.

C’è un deficit di tecnica dei “tecnici”?
Dell’Imu non sappiamo ancora le aliquote, il problema degli “esodati” rimane se nei giorni scorsi sono stati chiamati tre tecnici (Bondi, Amato e Giavazzi) alla consulenza del Governo tecnico… Sembrerebbe che il deficit ci sia eccome. Certo, nessuno è onnisciente, però in termini di comunicazione non è stata una bella mossa. Forse Monti è sì forte in Europa, ma lo è molto meno all’interno dell’esecutivo di Governo.

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