Pmi mon amour, ora ti strangolo

Di Matteo Rigamonti
12 Marzo 2020
I grillini si dichiarano amici delle piccole aziende, ma il nuovo codice della crisi d’impresa «li smentisce nei fatti», dice l’esperto Paolo Preti
Alfonso Bonafede

Articolo tratto dal numero di marzo 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

Non bastava l’imprevedibile avvento del coronavirus a terremotare la quotidianità degli arditi cittadini che in Italia conducono attività d’impresa in un irto ginepraio di adempimenti burocratici e pastoie fiscali, che già basterebbero a scoraggiare i più arditi tra loro. No, ci voleva anche l’harakiri di una improponibile riforma del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, che sarebbe dovuta entrare in vigore a metà agosto e che, invece, con l’approdo in Gazzetta ufficiale del decreto Milleproroghe, il calderone legislativo dove i governi di destra e sinistra stipano come sardine provvedimenti urgenti o non più procrastinabili, slitterà soltanto di sei mesi a febbraio 2021.

Di cosa si tratta. Il codice della crisi o “codice Bonafede” – come ve lo abbiamo presentato online su tempi.it, dal nome del ministro della Giustizia grillino Alfonso Bonafede – altro non è che una revisione della legge fallimentare del 1942, avviata l’anno scorso dall’esecutivo gialloverde, recependo, guarda un po’, la normativa europea. Una «bomba pronta alla deflagrazione», così l’ha descritto senza ricorrere a mezzi termini sul sito del Sole 24 Ore Costantino Ferrara, vicepresidente di sezione della Commissione tributaria di Frosinone, e di cui a pagare il conto più salato saranno verosimilmente le più fragili tra le piccole e medie imprese italiane.

La ratio della misura di legge, almeno sulla carta, dovrebbe essere quella di aiutare gli imprenditori di società a responsabilità limitata e le società cooperative in forma di Srl a dotarsi di un assetto organizzativo tale da poter rilevare per tempo eventuali stati di crisi e decidere il da farsi. Prevenire è meglio che curare? Verissimo. Ma non è questo il caso. A destare più di una preoccupazione tra commercialisti e imprenditori, infatti, non è soltanto l’abbassamento dei limiti entro cui scatta l’obbligo per le Srl della nomina di un organo di controllo o revisore (da 20 a 10 dipendenti, da 4 a 2 milioni di euro di fatturato), che già costringerebbe realtà relativamente piccole a sobbarcarsi un ulteriore fardello, quando non a dover assumere una persona in più. Preoccupa anche l’introduzione forzata di una procedura d’allerta che si innesca automaticamente quando l’imprenditore non si rivela in grado di far fronte a impegni nei confronti di fornitori, lavoratori, consulenti, fisco, Inps. Un’eventualità che come «primo immediato effetto», ha osservato acutamente Marino Longoni su ItaliaOggi Sette, «avrà quello di scatenare il panico tra i creditori, i fornitori, le banche. I quali immediatamente si irrigidiranno e non saranno più disponibili a fornire altra fiducia al malcapitato, anzi si impegneranno per recuperare il prima possibile i propri crediti».

A rischio il concetto stesso di Srl

Come se non bastasse, si apprende dalla formulazione della legge, gli amministratori rispondono verso i creditori per l’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale. «Non serve un esperto per capire», commenta ancora Ferrara, che «gli amministratori della Srl rispondono dei debiti societari con il proprio patrimonio nei confronti dei creditori». Non sbaglia, dunque, la Verità quando osserva che ad essere finito sotto attacco è il concetto stesso di responsabilità limitata: «Una società a responsabilità limitata non è più del tutto a responsabilità limitata. Ma diventa molto più probabile che a rispondere con il proprio patrimonio sia l’amministratore». 

Il che espone a un duplice pericolo: da un lato, la crisi d’impresa può trascinare con sé le famiglie che stanno a capo dell’opera di imprenditoria in un vortice di complicazioni umane e professionali; dall’altro, il fuggi fuggi di professionisti disposti a fare da amministratori di una Srl. Perché mai dovrebbero assumersi il rischio d’impresa a simili condizioni?

La solita cultura del sospetto

«Questa legge, purtroppo, è l’ennesima conferma di come, in Italia, sia ancora radicata una certa concezione di imprenditorialità come contigua al nero e all’evasione, da destra a sinistra e ora anche tra i cinquestelle, che a parole si dichiarano innovatori e a favore delle piccole e medie imprese salvo poi essere smentiti dai fatti», commenta a Tempi Paolo Preti, docente della Sda Bocconi School of Management e studioso delle Pmi. E non è nemmeno l’unico preconcetto con cui il legislatore ha dimostrato di guardare all’encomiabile imprenditorialità italiana. Perché, prosegue Preti, «se è vero che, sempre a parole, tutti siamo a favore del made in Italy, questa legge in realtà ci dimostra come, sotto sotto, le aziende ritenute veramente buone e valide siano soltanto quelle medio-grandi o grandi che possono permettersi di far fronte a simili adempimenti e spese senza mettere a repentaglio la stabilità economica». Peraltro, conclude il ragionamento, «nemmeno ci si rende conto del paradosso per cui, volendo dotare le piccole imprese di strumenti propri della grande dimensione, di fatto si offre loro, indirettamente, un incentivo a rimanere piccole». Perché, osserva, «se una Srl deve dotarsi di revisore, è probabile che qualche piccola realtà imprenditoriale decida di non trasformarsi nemmeno in Srl, ma preferisca rimanere società di persone semplice o addirittura partita Iva».

Eppure le piccole e medie imprese rimangono un bene per l’Italia intera. Preti non ha il minimo dubbio a riguardo: «Sia in termini di export che di capacità d’innovazione o di occupazione, qualunque sia la grandezza economica che utilizziamo per misurare l’andamento del paese, il contributo di questo tipo di imprenditorialità misura percentuali elevatissime, vicine, uguali o addirittura superiori al 50 per cento. Sono l’asse portante dell’economia italiana». Nemmeno le Srl sono un tipo di società superata dalla storia: «Hanno ancora la loro dignità, tanto che una legge di qualche anno fa favoriva il passaggio da società di persone a Srl fornendo una fattispecie semplificata».

Meno norme inutili

Che cosa rischia l’imprenditoria italiana già duramente provata dal coronavirus con l’avvento del “codice Bonafede”? Per rispondere, Preti parte dalla crisi dei mutui subprime che a partire dagli Stati Uniti ha investito l’Italia nel 2008: «C’è un 40 per cento di Pmi che da quella crisi non si è mai ripreso perché non è stato in grado di innovare ed esportare, e c’è un 40 per cento che ha sviluppato gli anticorpi e ne è uscito più forte di prima. Poi c’è un 20 per cento che ancora rischia di retrocedere verso la condizione delle imprese più deboli, ma che è ancora in tempo per imparare dalle più forti. A fare la differenza  non è la dimensione in sé, ma la capacità imprenditoriale. Questo 20 per cento andrebbe aiutato con meno leggi inutili e più libertà d’azione, per aprirsi all’internazionalizzazione, non certo aggravato da ulteriori fardelli». 

Circa il futuro delle Pmi italiane il professore è ottimista: «Preferisco guardare il bicchiere mezzo pieno, ben sapendo che a fare la differenza raramente sono le leggi di un parlamento, ma piuttosto è la stoffa umana dell’imprenditore e insieme ad essa quella delle persone che egli a vario titolo sceglie di coinvolgere in azienda».

Foto Ansa

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