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Come si è rovesciata la piramide Europa. Intervista a Giulio Tremonti

Il tradimento di una grande idea politica spiegato dall’ex ministro che aveva previsto la sua crisi (oltre al suicidio del mercatismo, la trappola dell’euro, la rivincita dei nazionalismi). «Va ritrovato lo spirito di Roma»

Rodolfo Casadei
29/04/2019 - 1:00
Politica
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L'emiciclo (girato sottosopra) del Parlamento europeo di Strasburgo

Articolo tratto dal numero di Tempi di aprile 2019 (attenzione, di norma l’accesso agli articoli del mensile è riservato agli abbonati: abbonati subito!).

Giulio Tremonti ti porta nel suo ufficio e ti mostra, incorniciata come un diploma di laurea, la riproduzione di un telegramma confidenziale del 30 ottobre 2008 dell’ambasciata americana a Roma scovato da Wikileaks che lo riguarda. C’è scritto in inglese: «Giulio Tremonti si è spinto oltre, manifestando pubblicamente il proprio desiderio di abolire gli hedge funds e di assegnare all’Fmi e alla Banca mondiale nuove funzioni riguardanti la vigilanza dei mercati finanziari. Oltre a ciò, è stato citato da The Economist, nel numero del 18 ottobre 2016, come sostenitore di una riforma radicale della finanza internazionale e fautore di un G8 allargato. (…) Tremonti ha sempre espresso una profonda diffidenza circa i benefici della globalizzazione, sostenendo invece una filosofia economica piuttosto eclettica».

«Invece la filosofia economica ortodossa si è schiantata appena una settimana dopo», commenta algido il professore alludendo agli effetti sui mercati finanziari mondiali del fallimento di Lehman Brothers. «E poco dopo è arrivato anche il G20, logico allargamento del G8».

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Il quattro volte ministro dell’Economia e delle Finanze di quattro governi Berlusconi (e oggi presidente dell’Aspen Institute Italia) è piuttosto noto per prese di posizione e valutazioni critiche che nel tempo si sono rivelate fondate, mentre nel momento in cui venivano formulate apparivano eccentriche. Ne sono testimoni le pagine dei suoi fiammeggianti libri: Nazioni senza ricchezza e ricchezza senza nazioni, Il fantasma della povertà, Rischi fatali (che nel 2005 preconizzava il declino dell’Europa, metteva in guardia dall’ascesa cinese e denunciava il fideismo verso il “mercatismo suicida”), La paura e la speranza e nel 2016, pochi giorni prima del referendum che avrebbe visto la vittoria della Brexit, Mundus furiosus, che fra le altre cose prevedeva la rivincita delle sovranità nazionali.

Con le elezioni per il Parlamento europeo in arrivo, viene naturalmente voglia di rivolgersi a lui nella speranza di strappargli brandelli di profezia su quello che potrebbe accadere nei prossimi mesi. Anche al prezzo di qualche delusione delle attese.

Giulio Tremonti

Professor Tremonti, a cosa possono servire le imminenti elezioni? Di che maggioranza ha bisogna il futuro Parlamento europeo per procedere in modo sensato?
Onestamente, non saprei come rispondere a queste domande. Posso aiutarla a maturare la sua personale risposta facendo il punto su quello che è stato il cammino dell’idea di Europa.

Dica pure.
L’idea di Europa esiste da duemila anni in forma mitica, poetica, letteraria. Comincia ad essere un’idea politica nel Settecento con Voltaire, che nel suo Il secolo di Luigi XIV la immagina come una “grande republique”. Diventa entità politica dopo la Seconda Guerra mondiale, prendendo forma in tre distinti luoghi, due italiani e uno olandese: Ventotene, Roma e Maastricht.

Tre luoghi che incarnano modi molti diversi di configurare l’unità europea, anche se c’è una certa parentela fra il primo e il terzo luogo, e poca fra il secondo e gli altri due.
Sono d’accordo. Il manifesto di Ventotene, scritto nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni – uomini che il fascismo aveva mandato al confino – dice che la vera divisione fra reazionari e progressisti non è più quella che coincide fra partiti di destra e di sinistra, ma fra chi vuole conservare gli stati nazione e chi li vuole abolire per puntare all’integrazione europea. Invece il Trattato di Roma, firmato il 25 marzo 1957, è un tipico trattato confederale, sottoscritto da sei stati sovrani che devolvono quella parte delle loro competenze che è necessaria per creare un mercato economico comune. Devolvono la sovranità per quello che riguarda le imposte indirette – per avere un mercato comune si farà sì che quella che in Italia prende il nome di Iva tenda ad essere la stessa in tutti i paesi – ma verrà conservata la competenza nazionale sulle imposte dirette, perché quella è la base della democrazia: no taxation without representation, come dicevano i coloni americani. In questo modo è salvata la sintonia fra popolo ed élite: i popoli possono riconoscersi nelle élite, le élite rispettano la volontà dei popoli. Quel trattato ha regalato all’Europa quarant’anni di progresso.

Potremmo già concludere che nell’attuale conflitto fra popolo ed élite su cui si dibatte e si scrive lei si schieri col popolo anziché con le élite, a costo di farsi dare del populista…
Come si fa a stare con élite che da anni si rivelano assenti, che non ammettono mai i propri errori e adesso per sopravvivere scrivono sui giornali il contrario di quello che qualche tempo fa scrivevano per vivere? La cosa più allucinante oggi è la totale latitanza delle élite e della classe dirigente di fronte ai problemi epocali che ci affliggono. Ma mi permetta di continuare.

Prego.
Con Maastricht cambia tutto. Quel che il Trattato di Maastricht, firmato meno di due anni dopo la caduta del Muro di Berlino, introduce lo riassumerei in tre parole: valuta, vendetta, piramide. La valuta comune, cioè l’euro, esisteva già in vitro da tempo. È diventata realtà non per esigenze economiche, ma per un’esigenza politica generale e una particolare. Quella generale: «Federate i loro portafogli se volete federare i loro cuori», disse Jean Monnet. Quella particolare: era uno scambio politico pensato per limitare la potenza della Germania nel momento in cui le si permetteva di riunificarsi. Si è creata una situazione che definirei “una moneta senza governi e governi senza moneta”.

Dovremmo fare a meno dell’euro?
Assolutamente no. L’euro è irreversibile, specialmente dopo l’avvento della globalizzazione. Chi “firmerebbe” la garanzia di nuove o rinnovate monete nazionali sostitutive dell’euro? Una moneta presuppone una base fiduciaria, e questa non la fanno un partito o una persona, specie se la persona non è un Luigi Einaudi. Lei vede in giro un Luigi Einaudi? L’euro è irreversibile non tanto perché ispira fiducia, ma perché ispira paura: paura per i rischi che la sua scomparsa comporterebbe e per le improvvisate alternative.

Stava parlando di vendetta e di piramidi…
La vendetta è quella di Spinelli: i meccanismi decisi a Maastricht erodono lo stato nazione, come desideravano i firmatari di Ventotene, a vantaggio dell’Unione Europea perché i trasferimenti di risorse sono organizzati in modo tale che i governi nazionali versano risorse finanziarie a Bruxelles, ma Bruxelles le redistribuisce non fra i governi, ma fra le Regioni. Questo per un paese di classe dirigente mediocre come l’Italia implica che buona parte delle risorse non vengono spese perché le Regioni non sono in grado di gestire progetti e fondi; ma per altri paesi questo implica l’inizio di processi di disgregazione. Pensi alla Catalogna, che a Bruxelles ha una sede al cui ingresso c’è una targa su cui è scritto “Catalogna presso l’Unione Europea”: non c’è la parola Spagna e tanto meno la bandiera.

E la piramide?
A partire da Maastricht, passando per i trattati di Lisbona e di Nizza, si sono trasferite un numero di crescente di competenze dagli stati all’Unione Europea: dalla piramide che alla base aveva gli stati con molte competenze e al vertice l’Unione con poche competenze siamo passati a una piramide rovesciata, dove la maggior parte delle competenze legislative e amministrative sono state trasferite a Bruxelles. È un’operazione che riduce drasticamente la cifra democratica. E che all’inizio è stata presentata come dettata dalla necessità economica: nel mondo globale i tuoi interessi non li fa il tuo governo, perché siete troppo piccoli, ma l’Unione che ti rappresenta nel mentre che fa massa critica. Sulla base di questa filosofia i negoziati all’interno del Wto (Organizzazione per il commercio mondiale) non li hanno condotti i singoli paesi europei, ma l’Unione Europea. Li ha gestiti talmente bene che ha lasciato entrare la Cina nel 2001 benché non fosse una vera economia di mercato, con tutto quello che ne è seguito. Nel frattempo da corpus economico quale era in origine l’Europa si è trasformata in un corpus politico che si è dato il compito di disegnare la società perfetta. Si arriva così ai 10 chilometri lineari di nuovi regolamenti che l’Unione produce ogni anno, con scarso o nullo riferimento alle esigenze del mercato unico. Mentre gli Stati Uniti hanno standardizzato le ferrovie, noi abbiamo standardizzato gli impianti elettrici: i contadini dell’Appennino o delle Ardenne devono avere lo stesso impianto elettrico a norma che si installa nel centro di Milano o di Parigi. Per effetto del progressivo trasferimento di poteri dagli stati democratici a un’entità che democratica non è abbiamo ora un soggetto politico che concentra su di sé 26 competenze e si intromette ossessivamente nelle “vite degli altri”. Alla vigilia del referendum sull’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, a Bruxelles si stava discutendo una direttiva per standardizzare gli impianti igienici di tutta Europa. Venne ritirata all’ultimo momento per non favorire il voto per la Brexit, ma come sapete non servì.

L’Italia dovrebbe prendere esempio dai britannici? Dobbiamo minacciare un’Italexit?
Non è nel nostro interesse. Ma dovremmo evitare di deridere i britannici per il modo in cui si sono ingarbugliati nelle procedure per la Brexit. Se pensiamo a come l’Europa si ridurrà alla sua componente continentale dopo l’uscita di Londra, a come rischiamo di perdere il legame con l’anglosfera e la proiezione oceanica, c’è davvero poco da ridere. Mi dicono: «Ma l’Europa si espanderà nei Balcani». Ma i Balcani non hanno mai portato fortuna all’Europa.

È tutta colpa della “tirannide” dell’Europa se oggi i popoli si rivolgono in buona parte ai partiti sovranisti e populisti?
Alle colpe dell’Unione e alla latitanza delle élite di cui ho detto, si aggiunge il crollo dei pilastri della democrazia novecentesca così come li abbiamo conosciuti, per una serie di altri fattori. In passato i governi erano chiamati a gestire problemi di dimensione limitata e di origine per lo più interna, i partiti che concorrevano per esercitare il potere erano organizzati secondo ideologie riconoscibili e la spesa pubblica in deficit permetteva di risolvere i momenti più acuti di crisi. Oggi le origini e le dimensioni dei problemi trascendono la possibilità di intervento dei governi nazionali: le migrazioni transcontinentali, le oscillazioni dei mercati finanziari mondiali, la rivoluzione digitale, le conseguenze della crisi finanziaria del 2007-2008 sono questioni che debordano le capacità di azione dei governi.

Si chiama globalizzazione…
Non è stata l’Europa a entrare nella globalizzazione, ma la globalizzazione a entrare nell’Europa. Come europei eravamo convinti di poter approfittare della globalizzazione perché eravamo il modello universale dell’economia di mercato, invece siamo stati le vittime del mercatismo, di una competizione impari con chi aveva regole diverse dalle nostre. Noi italiani raccomandavamo di rallentare, di non eliminare di colpo i dazi, ma non siamo stati ascoltati. Tutto è stato compresso e fatto esplodere in un tempo troppo breve.

Allo scontro delle ideologie si è sostituito il pensiero unico.
Le ideologie erano schematiche e non sapevano rinnovarsi, ma offrivano un punto di riferimento solido agli elettori e a chi veniva eletto. Erano meccanismi unificanti nell’etica del voto e nel rispetto dell’esito del voto. Molti hanno pensato di ovviare alla loro crisi con riforme elettorali marcatamente maggioritarie. Ma se va a votare il 70 per cento degli elettori e tu vai al potere col 35-40 per cento dei voti, significa che governerai col sostegno di appena un avente diritto al voto su quattro! Non può funzionare, e infatti i governi durano poco e perdono le elezioni successive. Anche perché – ed era il terzo punto – oggi chi governa deve ridurre il deficit, non può ampliarlo, e questo non giova certo a raccogliere consensi.

Come è successo al governo Monti…
Quel governo era il risultato di ciò che non uno qualunque, ma un certo Jürgen Habermas, definì «un dolce golpe». Avevamo rotto le scatole a qualcuno, avevamo proposto che le contribuzioni al Meccanismo di stabilità europeo avvenissero non sulla base del Pil, ma del rischio delle esposizioni finanziarie delle banche dei vari paesi. Il risultato politico di quell’operazione golpista è stato l’ascesa del populismo. Se il populismo è andato al potere non è colpa del popolo, è colpa del golpe.

Quindi, per concludere: un’Unione Europea diversa da quella burocratizzata e a trazione franco-tedesca come dovrebbe essere?
Dovrebbe tornare allo spirito del Trattato di Roma, all’ispirazione confederale che lo animava. All’Europa la piramide con la base larga fa molto più bene della piramide a base rovesciata. Se vado in un locale pubblico e attacco discorso dicendo che l’Europa ha bisogno dell’unione bancaria e delle regole per il bail-in delle banche, poco ci mancherà che mi buttino fuori. Ma se propongo di rafforzare la difesa comune e l’intelligence, nel mentre che restituiamo agli stati nazionali competenze su materie che non hanno a che fare col mercato unico, probabilmente qualcuno che mi offre da bere lo trovo.

@RodolfoCasadei

Foto Parlamento europeo © European Union 2018
Foto Giulio Tremonti: Ansa

Tags: brexitelezioni europeeEuroEuropaGiulio Tremontiglobalizzazionegoverno montiparlamento europeopopulismosovranismoTrattato di MaastrichtueUnione Europea
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