
La preghiera del mattino
Il 59 per cento del Pil mondiale applica sanzioni alla Russia. E il 41?

Sul Post si scrive: «Nel Donbass, sostengono numerosi esperti, si combatteranno probabilmente battaglie molto più convenzionali, con un impiego massiccio di carri armati, artiglieria e aerei da guerra in territori piatti e brulli, dove sarà molto più difficile per gli ucraini organizzare imboscate e agguati e neutralizzare la notevole superiorità militare russa. Le linee di rifornimento, la cui difesa era stata uno dei problemi più grossi per i russi nell’offensiva alla regione di Kiev, saranno inoltre più corte, e sarà più facile difenderle. Dmytro Kuleba, ministro degli Esteri ucraino, ha detto che la battaglia per il Donbass “ricorderà la Seconda Guerra mondiale, con le sue grandi operazioni e manovre, il coinvolgimento di migliaia di carri armati, mezzi corazzati, aerei e artiglieria”».
Molti considerano la battaglia per il Donbass (e per Mariupol) quella che potrebbe segnare una svolta della guerra che i russi hanno scatenato in Ucraina.
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Su Fanpage si scrive della visita del cancelliere austriaco a Mosca: «“Non è stato un incontro amichevole”, ha spiegato ancora Karl Nehammer parlando appunto di un colloquio “molto duro”, “molto aperto” e “molto diretto”. Per lui si è trattato di “un dovere”, ha riferito, perché non voleva “lasciare niente di intentato”. E ha sottolineato: “Non c’è alternativa a cercare un dialogo diretto con la Russia, nonostante tutte le differenze”. Il messaggio più importante recapitato a Putin “è stato che questa guerra deve finire, perché in una guerra ci sono solo perdenti da entrambe le parti”».
Mentre continuano gli scontri armati, non cessano i tentativi, particolarmente difficili per le chiusure di Mosca, di trovare accordi di pace o almeno di tregua.
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Su Huffington Post Italia Giulia Belardelli scrive: «Budapest pagherà in rubli mentre il cancelliere austriaco Nehammer va dallo zar di persona, unico leader occidentale dall’inizio della guerra. Per il germanista Bolaffi è “un modo di segnalare una differenza rispetto a una linea più dura dell’Occidente”».
Non mancano le critiche a chi nell’Unione Europea cerca di mantenere un dialogo con Mosca.
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Su Dagospia si riposta un articolo dal sito di Libero nel quale si scrive: «Di negoziati non si parla più. Ospite di Tagadà su La7, il generale Leonardo Tricarico svela che qualcosa di grave sta accadendo in Ucraina. “Non ho sentito la parola ‘negoziati’ né da Stoltenberg, né da Biden, né da Blinken, né da Johnson”. Per lui “le trattative sono iniziate in maniera improbabile con quei negoziati autogestiti e con quei personaggi che non c’entravano nulla, poi sono proseguiti in tentativi un po’ più seri”».
C’è chi è preoccupato per la scarsa iniziativa americana nel cercare una via negoziale alla guerra scatenata dai russi in Ucraina.
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Su Open si scrive: «Sulla fornitura di armi all’Ucraina “non ci sarà alcuna azione individuale”, ha spiegato il cancelliere tedesco Olaf Sholz, che ha così provato a frenare le speculazioni sulle dichiarazioni della ministra degli Esteri Annalena Baerbock, che ha premuto sulla consegna di armi pesanti per Kiev. La Germania si muove “in stretta collaborazione con i paesi amici”, ha detto Scholz, “con cui ci consultiamo”. Il cancelliere ha poi rivendicato di aver interrotto “una lunga tradizione” dei governi tedeschi precedenti al suo sulle esportazioni di armi a paesi in guerra».
Pur assolutamente fermo nel sacrosanto sostegno anche militare a Kiev, il cancelliere tedesco frena le spinte a interventi non ben calibrati.
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Sul sito di Tgcom si scrive: «L’Europa è tornata a chiedere ai paesi dell’Opec di aumentare le consegne di petrolio. Lo rende noto un funzionario Ue a margine del dialogo di alto livello tenuto a Vienna. Durante la riunione, l’Ue ha “reiterato l’invito” ai paesi produttori di petrolio “a esaminare se possono aumentare le consegne”, spiega il funzionario. “L’Ue ha sottolineato nella riunione che l’Opec ha la responsabilità di garantire l’equilibrio dei mercati petroliferi”. “Picche”, o qualcosa di molto simile, è la risposta giunta all’Unione Europea dall’organizzazione dei maggiori paesi esportatori di petrolio, attraverso i social. “Per quanto riguarda la volatilità del mercato”, ha twittato il segretario generale Mohammad Barkindo, “gli attuali sviluppi geopolitici in Europa, insieme alla pandemia di Covid-19 in corso, hanno creato un mercato estremamente volatile e questi ‘fattori non fondamentali’ sono al di là del controllo dell’Opec”».
Il fronte occidentale incontra difficoltà ad allargare la collaborazione alle sue posizioni contro Mosca.
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Su Leggo si scrive: «L’India deve prendere le proprie decisioni su come affrontare “l’invasione della Russia in Ucraina ed è importante che tutti i paesi facciano pressione su Putin per porre fine al la guerra”. Lo ha detto il segretario di Stato americano Antony Blinken in una conferenza stampa con il ministro degli Esteri indiano Subrahmanyam Jaishankar a Washington dopo l’incontro virtuale tra il presidente americano Joe Biden e il premier indiano Narendra Modi. L’India ha continuato ad acquistare petrolio dalla Russia e si è sempre astenuta nei voti contro Mosca all’Onu».
Ecco un altro esempio delle difficoltà americane a isolare i russi.
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Su Dagospia si riporta un articolo di Milena Gabanelli e Simona Ravizza sul Corriere della Sera nel quale si scrive: «Quanto pesano davvero su Mosca le sanzioni fatte scattare dal 24 febbraio, e per tappe, da Ue, Usa, Canada, Regno Unito, Svizzera, Islanda, Giappone, Corea del Sud, Singapore, Australia e Nuova Zelanda? Lo vediamo dopo avere consultato decine di database, statistiche, documenti dell’Ofac, l’Office of foreign assets control statunitense, della Commissione europea, e con l’aiuto dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) e dell’Osservatorio conti pubblici italiani (Ocpi). I paesi sanzionatori sono in totale 37, ma rappresentano il 59 per cento del Pil mondiale. Fra i 193 che non applicano le sanzioni ci sono Cina, India, Emirati Arabi, Iran e Turchia».
Il 59 per cento del Pil mondiale isola Mosca. E il 41?
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Su Formiche Jacob Stokes, esperto del think tank Cnas e già consigliere di Joe Biden, dice: «Il Pentagono lo ha messo nero su bianco nella bozza di strategia per la Difesa. La deterrenza cinese in Asia orientale deve convivere in un difficile bilanciamento con altre sfide di sicurezza, dalla Russia all’Iran. È il cuore della grande strategia americana: impedire a una potenza emergente di diventare egemone».
C’è poi anche il problema di come la “potenza emersa” riesca a continuare a essere egemone.
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Su Scenari economici Giuseppina Perlasca scrive: «Un gasdotto pianificato per trasportare il gas naturale dal Mediterraneo orientale all’Europa è troppo costoso da costruire e sarà in ritardo per aiutare l’Europa a diversificare la sua fornitura di gas lontano dalla Russia, ha affermato giovedì il sottosegretario agli Affari politici degli Stati Uniti Victoria Nuland. Quindi viene confermata l’opposizione Usa alla struttura che potrebbe portare gas naturale a basso costo dai giacimenti fra Israele ed Egitto in Europa».
Ecco un esempio di come gli americani rischiano di incrinare la loro naturale e meritata leadership sul “mondo libero”.
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