
I nati da fecondazione assistita hanno più probabilità di morire entro l’anno

I bambini nati attraverso la fecondazione in vitro hanno il 45 per cento in più di probabilità di morire nel primo anno di vita rispetto a quelli concepiti naturalmente. Non lo scrive Tempi ma il Telegraph, riprendendo uno studio svedese che analizza i dati ricavati da oltre 2,8 milioni di nascite nell’arco di trent’anni.
Di anni ne sono passati oltre 40 dalla nascita di Louise Brown, il primo essere umano concepito fuori dal grembo materno e venuto al mondo all’Oldham General Hospital, il 25 luglio 1978. Il suo primo vagito apriva la strada al dispiegarsi delle infinite possibilità della tecnologia: concepimenti in laboratorio, uteri in affitto, parti su richiesta e a pagamento, plurigenitorialità sociali e non più solo biologiche, cessioni di gameti, assemblaggi di materiale genetico modificato dalla scienza, creazione di embrioni trasferibili o manipolabili e scartabili, di “baby designer” o “grandson designer”.
LO STUDIO SVEDESE
La stessa scienza, però, ora certifica che i figli della procreazione medicalmente assistita fino all’età di 12 mesi rischiano la pelle più degli altri. «I principali driver del rischio di mortalità per il primo anno tra i bambini concepiti con tecniche di riproduzione assistita includevano difficoltà respiratoria, sviluppo polmonare incompleto, infezioni ed emorragia neonatale, condizioni spesso legate alla prematurità».
E la prematurità, ha spiegato la ricercatrice Kenny Rodriguez-Wallberg, professore associato presso il dipartimento di Oncologia e Patologia dell’Istituto Karolinska, così come un basso peso alla nascita, si riscontra frequentemente quando si tratta di «bambini concepiti con le tecniche di riproduzione assistita».
I FIGLI INGLESI DELLA FIV
Si calcola che questi bambini siano circa 20 mila ogni anno nel Regno Unito, dove una coppia su sei fatica a concepire naturalmente, e che i tassi di mortalità neonatale aumentino in particolare in coincidenza dell’uso di alcune tecniche come i trasferimenti di embrioni crioconservati. Ovvero quelle costosissime procedure alle quali la carica delle donne che si sono già sottoposte a social egg feezing (il congelamento di gameti, magari generosamente offerto dalle aziende di lavoro) spesso consegnano il loro sogno di maternità.
Un sogno che si realizza solo nell’1 per cento dei casi, ha confermato alla Bbc Lord Robert Winston, docente di Studi sulla fertilità all’Imperial College London, alla faccia del tasso di successo sbandierato dalla Hfea, l’autorità che si occupa di tutto ciò che è legato alla fecondazione nel Regno Unito. Una polizza assicurativa per avere un bambino fondata sul superamento dei limiti imposti dalla biologia e che conta oggi centinaia di migliaia di embrioni intrappolati in tutto il mondo nei congelatori delle cliniche per la fertilità, avanzi di gravidanze e sogni infranti di genitorialità.
IL REGNO UNITO FA SPALLUCCE
Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Fertility and Sterility, lo scopo era valutare la mortalità da 0 a 18 anni in bimbi e ragazzi nati tra il 1983 e il 2012 in Svezia (paese che vanta il più basso tasso di mortalità neonatale e infantile al mondo) concepiti attraverso tecniche di riproduzione assistita rispetto a quelli concepiti naturalmente. I rischi globali di mortalità rimangono bassi e non allarmano il Regno Unito, il paese che sui problemi di infertilità (e il desiderio di scongiurare le gravidanze a 25 anni e pretenderle dopo i 45) ha costruito un business redditizio.
«È noto da tempo che i bambini nati attraverso procreazione assistita possono avere un piccolo ma aumentato rischio di problemi perinatali», ha commentato Jane Stewart, presidente della British Fertility Society, sottolineando che anche le cause dell’infertilità, e non necessariamente le procedure usate, potrebbero essere concorrere ai problemi di salute del bambino nel momento del concepimento. I grandi rischi, i fallimenti, le denunce e gli errori che minano questa dolorosa (e spesso vana) ricerca di un figlio da parte degli adulti ancora una volta non sono oggetto di dibattito. Non lo è nemmeno quella piccola “probabilità in più di morire” del bambino.
Foto Ansa
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