È morto Jaruzelski, il comunista polacco che seppe riconoscere la santità di Wojtyla e chiedere «perdono»

Di Annalia Guglielmi
26 Maggio 2014
Si è spento a Varsavia il generale che introdusse lo stato di guerra in Polonia nel 1981. Questa è la sua "storica" intervista a Tempi, uscita nei numeri 41 e 43 dell'ottobre 2009

È morto a Varsavia a 90 anni il generale Wojciech Jaruzelski. Il generale, uno dei grandi protagonisti della storia polacca, il 13 dicembre 1981 decretò lo stato di guerra nel paese contro il sindacato Solidarnosc di Lech Walesa. Nel 1989 Jaruzelski fu il primo presidente del paese.
Tempi vi ha spesso parlato di questa figura tragica e controversa. Se, infatti, da un lato egli fu un fiero nemico di Karol Wojtyla e di Solidarnosc, dall’altro ebbe nei loro confronti anche parole di grande stima, tanto che, quando fu chiamato a testimoniare nel processo della sua beatificazione, il generale parlò del papa polacco come di un «santo» (qui e qui). Di seguito vi riproponiamo un’intervista che Tempi realizzò col generale nell’ottobre 2009.

Intervista a Jaruzelski

Da Varsavia – di Annalia Guglielmi

«Lo stato di guerra? Salvò la Polonia dall’invasione sovietica. Il paese non lo capisce e continua a perseguitarmi, ma forse questo è il mio destino». Il testamento del tiranno patriota Pubblichiamo la versione integrale dell’intervista di Annalia Guglielmi al generale Jaruzelski.

A vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino mi può dire come visse allora quei momenti e come li giudica oggi?
Fu indubbiamente il momento della più grande svolta storica del secolo scorso, e quei momenti acquistano una valenza ancora maggiore se guardiamo al cammino che ci portò fin lì, un cammino difficile, tortuoso, spesso doloroso, ma il finale fu ideale e personalmente mi onoro di essere stato coautore, co-architetto, della Tavola Rotonda. Dopo le elezioni di giugno fui nominato presidente e in seguito, nel periodo della transizione per un anno e mezzo, fino a dicembre 1990, sono state fatte le riforme fondamentali e sotto di esse c’è la mia firma. Sono state queste riforme a permettere a quel processo di svolgersi pacificamente. Si può dire che quei mesi abbiano visto una “evoluzione rivoluzionaria” e ritengo senza falsa umiltà che essa si sia potuta realizzare anche grazie a me. Probabilmente ne era consapevole George Bush padre che venne in visita in Polonia all’inizio di luglio 1989 dopo le elezioni al parlamento, quando io avevo già ufficialmente dichiarato di non volermi candidare alla presidenza, ma il presidente Bush cercò in tutti i modi di convincermi a candidarmi, sostenendo che in quel momento la mia presenza avrebbe garantito una transizione pacifica verso il nuovo sistema politico. Penso che lui avesse ben presente la situazione generale, non solo quella polacca: attorno a noi erano al potere ancora i vecchi regimi, che erano molto forti e decisamente avversi a quanto stava accadendo da noi. Erano al potere Honecker, Husak, Ceausescu, che chiedeva a gran voce un intervento armato in Polonia. Fortunatamente c’era Gorbatchev che capiva i nostri tentativi. Con Gorbatchev siamo ancora amici e ci sentiamo e ci scriviamo spesso. So che anche la sua figura è soggetta a diverse interpretazioni, ma una cosa è certa e cioè che tutti i grandi di allora, compreso il presidente Bush, avevano tutto l’interesse che Gorbatchev non cadesse, non fosse destituito, e quel pericolo era assolutamente reale, se il tentativo di colpo di stato di Janayev del 1991, fosse avvenuto due anni prima, la storia avrebbe cambiato il suo corso. Quindi, guardo a quel periodo da molti punti di vista non solo da quello polacco, noi abbiamo sempre la tentazione di guardare alla storia in modo polacco centrico, per questo sottolineo l’importanza degli elementi di politica internazionale, noi siamo stati un punto fondamentale per i cambiamenti nella nostra parte del mondo, ma non siamo stati gli unici attori. Faccio un’analogia storica: nel 1918 la Polonia riebbe l’indipendenza, questo accadde in seguito alla sconfitta dei paesi occupanti ma anche in seguito alla rivoluzione in Russia, in questo momento non do un giudizio di valore su quella rivoluzione, ma dico che è un fatto che con la rivoluzione la Russia cessò di essere uno degli stati vittoriosi e non fu presente a Versailles. Immaginiamo che invece la Russia fosse stata a fianco degli stati vittoriosi, sarebbe stata inimmaginabile l’indipendenza della Polonia. Qui vedo una certa analogia con il periodo di cui stiamo parlando: devono convergere delle condizioni esterne ed interne, di cui bisogna saper approfittare, in cui bisogna saper entrare. Noi ci siamo riusciti, e in un certo senso, per Gorbatchev la Polonia è stata una sorta di laboratorio per la perestrojka. In quanto ministro della difesa avevo numerosissimi ed approfonditi contatti con i capi militari sovietici e cn il KGB e sapevo bene con quanta avversione guardassero ai cambiamenti introdotti da Gorbatchev, quanti nemici avesse all’interno del partito e dell’esercito. Per questo la cosa più importante allora era che Gorbatchev rimanesse al potere. Ricordo ancora le parole di Giovanni Paolo II durante la mia visita in Vaticano nel gennaio del 1987: “La Provvidenza ci ha mandato Gorbatchev”, non c’è bisogno di commenti.

Come giudica oggi l’esperienza storica del socialismo e dell’ideologia comunista?
Spesso i giornalisti mi chiedono se sono ancora comunista e io rispondo che il vero comunismo non c’è mai stato, a parte i kibbutz in Israele. La forma storica che ha assunto in Unione Sovietica è stata una forma brutale, criminale, omicida, realizzata dai capi che si sono susseguiti: Lenin, Stalin e poi si è estesa ai paesi del blocco, forse non in modo così drammatico, ma si tratta della deformazione di un’idea in fondo buona nata non sulle rive del Volga, ma sulle rive del Reno. Questa è per così dire la mia convinzione teorica. Passiamo al giudizio sul periodo storico del comunismo in Polonia. Non voglio parlare degli eventi del 1939, che ancora oggi aprono delle ferite mai chiuse e che conosco bene anche per la mia storia personale: io stesso fui deportato nel 1940 in Siberia insieme alla mia famiglia, mio padre fu rinchiuso in un lager sovietico e ne uscì talmente malato da morire poco dopo. Per me adesso è fondamentale ricordare che quando la Polonia si trovò sotto l’occupazione nazista, di una forza genocidiaria, l’unica speranza di liberare il paese era riposta nell’Unione Sovietica. Lei sa che l’esercito del Generale Anders venne creato in Unione Sovietica. Molti di noi, compreso me, non riuscirono a raggiungerlo perché eravamo troppo lontani, persi nelle profondità della taiga, per cui ci siamo ritrovati nell’esercito del generale Berling, che arrivò fino a Berlino, e io sono particolarmente orgoglioso di aver partecipato a quella battaglia. E qui ci avviciniamo alla questione fondamentale: senza la vittoria dell’Unione Sovietica forse non si sarebbe arrivati alla sconfitta del nazismo e lo compresero Churchill e Roosvelt che in nome del bene spremo, la sconfitta di Hitler, “sacrificarono”, tra le altre, anche la Polonia. E quando la Polonia è stata liberata dall’occupazione nazista si è ritrovata sotto un altro potere, benedetto da Mosca, che gli forniva un enorme appoggio materiale e personale. Questo ha deciso il nostro posto in quest’area. In quel momento per noi una questione chiave era costituita dal problema delle terre occidentali, del confine sull’Oder Neiss. E solo grazie all’appoggio dell’URSS potevamo sperare di riconquistarle. Questa è la cosa più vantaggiosa che mai sia stata realizzata nell’arco di tutta la nostra storia. Grazie a quella scelta oggi siamo una nazione unita dal punto di vista culturale, linguistico, religioso, etnico. In Ucraina, in Lituania, in Bielorussia c’erano vestigia culturali ed artistiche polacche, ma i Polacchi erano una minoranza, proviamo ad immaginare oggi un’Ucraina indipendente che però ha la parte occidentale del suo territorio in Polonia, immaginiamo la Lituania senza Vilnius, proviamo ad immaginare che conflitti ci potrebbero essere. Lo spostamento a Ovest dei nostri confini ci ha permesso di annettere territori molto avanzati economicamente e questa è stata per noi una grande opportunità culturale ed economica. Senza la Polonia Popolare non avremmo mai avuto quelle terre. Se per un miracolo nel 1944 e nel 1945 la Polonia fosse divenuta uno stato pienamente democratico e pienamente indipendente non avrebbe avuto comunque Leopoli e Vilnius e non avrebbe riavuto Breslavia e Stettino, sarebbe stata un aborto di nazione. Sono passati 45 anni da allora, con tutti i peccati, il male e i crimini di questo periodo storico, ma la cosa più importante è che la Polonia ha la forma di oggi. Se guardiamo al periodo storico della Polonia Popolare, posso dire che abbiamo vinto nella dimensione geografica, politica, strategica. Per quanto riguarda le altre dimensioni, la dimensione economica e quella sociale, il discorso è diverso. Prima della guerra la Polonia era un paese sostanzialmente agricolo, con una campagna poverissima e poche città. In poco tempo milioni di persone sono venute in città, hanno ricostruito le città devastate dalla guerra, con un impeto che in Europa non trova l’uguale. Io vengo dalla campagna, vengo da una famiglia della nobiltà terriera e ricordo bene il sistema semi feudale delle nostre campagne, ricordo bene le condizioni di vita misere dei nostri contadini che vivevano in dieci in una capanna senza pavimento con il tetto di paglia, che andavano in giro scalzi, se lo può immaginare con il nostro clima? Scalzi! Ricordo l’impressione di umiliazione della dignità di quegli uomini. Per quegli uomini l’urbanizzazione era un enorme avanzamento sociale. Certo, bisogna, e si deve, ricordare anche tutto il male di cui questa storia è costellata, i crimini, le persecuzioni, comprese le persecuzioni contro la Chiesa. Anche tutto questo con il tempo è cambiato, soprattutto dopo il 1956. L’avvento di Gomulka, ha portato dei cambiamenti profondi verso una maggiore sovranità nazionale, una maggiore apertura al mondo, la rinascita della cultura e del mondo scientifico. Ogni fase della nostra storia del dopoguerra ha avuto le sue caratteristiche, non si può fare di tutta l’erba un fascio, i primi anni Cinquanta sono stati gli anni dello stalinismo, del terrore, della crudeltà, ma nello stesso tempo sono stati gli anni dei grandi cambiamenti sociali, che hanno portato molti rappresentanti delle elites culturali a cedere al fascino di quello che stava accadendo. Anch’io ho ceduto a quel fascino vedendo gli enormi progressi dell’opera di ricostruzione del paese, vedendo la ricostruzione di Varsavia, l’unica capitale europea totalmente distrutta dalla guerra, vedendo la rinascita delle terre occidentali. Tutto questo esercitava su tanti di noi, compreso me, un fascino enorme e questo fascino non ci faceva vedere, o forse non volevamo vedere, i “costi collaterali” che tutto questo comportava. Per questo non a caso molti dei più accesi fautori dello stalinismo, qualche anno dopo sono diventati degli accesi antistalinisti. Non possiamo liquidare tutti questi anni secondo le categorie del nero e del bianco. Voglio aggiungere anche che non possiamo paragonare i primi anni Cinquanta con la seconda metà degli anni Ottanta, quando noi siamo lentamente e a poco a poco entrati in una nuova fase, quando sono comparsi i primi surrogati (e sottolineo surrogati) della democrazia, quando sono state introdotte alcune riforme economiche, che ci hanno permesso di entrare nell’economia di mercato. Se avessimo avuto in quegli anni un sistema assolutamente totalitario, che soffocava ogni respiro della nazione, avremmo avuto una transizione così pacifica? La transizione è stata preceduta da una serie di processi che l’hanno resa possibile. Per concludere: secondo me non possiamo giudicare tutto il periodo della Polonia Popolare secondo categorie semplicistiche. Dobbiamo guardarlo alla luce della situazione geo politica internazionale in cui ci trovavamo e con cui non potevamo non fare i conti. Una situazione che in parte ci ha portato dei vantaggi: le terre occidentali, i cambiamenti sociali, ma che ci ha anche impedito di avere la democrazia, e questo è il peccato principale, il vizio maggiore, di quel sistema e ci ha portato ad avere avere un’economia inefficiente, priva di creatività e di iniziativa che ha provocato una serie di crisi una dopo l’altra. In ogni caso non possiamo pensare che dal paese del male assoluto siamo passati al paese del bene assoluto, allora non c’era il male assoluto e oggi non c’è il bene assoluto, la storia dell’umanità è drammatica e complessa e questo non va mai dimenticato.

Una delle sue caratteristiche è sicuramente il patriottismo, l’amore per la patria, il fatto che il sistema che lei serviva limitava la libertà dei suoi concittadini non era per lei un problema drammatico? Sapere di contribuire a costruire un sistema che negava, o per lo meno limitava, le aspirazioni alla libertà, alla libertà di pensiero, alla libertà culturale di gran parte della società, non è stato per lei un problema?
È una domanda molto personale. Si può essere un grande patriota e oggettivamente danneggiare il proprio paese, e si può dimostrare poco il proprio patriottismo, e io sono stato spesso accusato di non essere un patriota, e di fatto agire per il bene della patria. Le faccio questo esempio: sicuramente un grande patriota polacco è stato il generale Bor Komorowski, il capo dell’Insurrezione di Varsavia. Sicuramente le sue intenzione erano altamente patriottiche, ma quali sono stati gli esiti? Duecentomila cittadini di Varsavia, fra cui la créme dell’intellighenzia, morti, la capitale totalmente distrutta. Possiamo trovare molti altri esempi di questo tipo. Secondo, tutto va collocato nel tempo e nel luogo storico, prendiamo ad esempio il periodo delle spartizioni della Polonia: fra i capi dell’esercito e i rappresentanti politici c’erano molti Polacchi che occupavano posizioni molto alte: generali, deputati al parlamento, addirittura il capo del governo austriaco ungarico era polacco, tutti costoro servivano e giuravano fedeltà all’imperatore, allo zar, al kaiser. Non erano dei patrioti? In quella realtà, agendo in quelle condizioni, facevano il possibile per la società polacca, per i Polacchi, e quando la Polonia tornò libera furono proprio loro a trovarsi a capo delle rinate istituzioni militari e politiche. Non voglio abusare delle similitudini storiche, ma quando, allora come ieri, le condizioni esterne hanno reso possibile la rinascita della nazione, coloro che avevano servito il vecchio regime hanno contribuito a costruire il nuovo sistema. In un certo senso io faccio parte di questa schiera, nel senso che non ho mai sentito un disagio morale: sapevo di essere al servizio della Polonia così come realmente era, non di una Polonia astratta e ideale. Sapevo di dover fare tutto il possibile per rendere migliore la vita di questa Polonia reale. Non sempre ci sono riuscito, ma l’intenzione era quella. Mi sembra che il tentativo di alcune forze di arrogarsi il monopolio del patriottismo sia disonesto, perché non tiene conto dei condizionamenti e delle condizioni reali.

Come fu presa negli ambienti del potere l’elezione di Giovanni Paolo II e la sua prima visita in Polonia nel 1979?
Negli ambienti del potere c’erano come due anime. Da un lato c’era il timore che l’elezione di un Papa polacco potesse provocare la destabilizzazione della situazione polacca, anche di fronte alla forza della Chiesa polacca. C’era anche il timore che potesse togliere al partito il suo ruolo guida. Ma allo stesso tempo, in modo più o meno ufficiale, c’era l’orgoglio, la soddisfazione di vedere un Polacco sul soglio di Pietro. C’era, però, anche la paura che potessero guastarsi i rapporti con i nostri alleati. Cosa che del resto puntualmente accadde: i nostri vicino si irritarono molto perché un Polacco era diventato Papa e ci accusarono di troppa tolleranza verso la Chiesa. Nel 1984 ebbi un incontro segreto di nove ore con Gromiko, eravamo in un vagone ferroviario sul Bug, in quell’occasione mi fu detto in modo chiaro e duro, era praticamente un’accusa, che io consideravo la Chiesa un alleato. La prima visita, nel 1979, fu un’enorme manifestazione religioso-patriottica, anche in questo caso le autorità avevano molti timori, soprattutto c’era il timore di perdere il controllo della situazione, di arrivare a situazioni di scontro e poi i nostri alleati fecero di tutto per dissuaderci. Sapevamo che sarebbe stato un “terremoto” che ci avrebbe messo in difficoltà. Bisogna dire che soprattutto grazie al Papa e alla Chiesa, soprattutto grazie al grande Primate Stefan Wyszynski, la visita si svolse al meglio. Personalmente devo dire che il Papa fece su di me un’impressione enorme. Non lo avevo conosciuto direttamente prima, ma vidi la grandezza della sua persona, il suo enorme carisma, il suo grande patriottismo, la sua sensibilità, la sua spiritualità. Tutto questo mi fece un’impressione enorme, che gli incontri successivi non hanno fatto altro che confermare e rendere più profonda. Avevo, ed ho, un’ammirazione sconfinata per Giovanni Paolo II.

Lei ha incontrato più volte Giovanni Paolo II, sia in veste ufficiale che anche quando non aveva nessun ruolo istituzionale. Come ricorda questi incontri?
Ho avuto la fortuna e l’onore di incontrare Giovanni Paolo II ben otto volte. Comincio dagli incontri ufficiali che si sono svolti sia in Vaticano che in Polonia, soprattutto dopo il 1981. Tenendo presente la situazione in cui vivevamo posso dire che furono colloqui di un’importanza straordinaria, e furono molto importanti anche per me personalmente. Cercai sempre di presentare al Papa i dettagli concreti della nostra situazione. Mi sembrava che le informazioni che riceveva non fossero troppo precise, per usare un eufemismo. Mi sembrava che gli venissero riferiti più degli stati emotivi che non dei fatti. Io cercai sempre presentargli la situazione in modo realistico e dettagliato. Mi sembrava che mi ascoltasse con interesse e comprendendo la gravità della situazione. Allo stesso tempo mi ha sempre espresso la sua opinione con grande tatto e delicatezza. Era un deciso avversario del sistema che io rappresentavo, ma cercava sempre di esprimere il suo giudizio in modo da non essere offensivo. Esprimeva con chiarezza la sua visione, il suo pensiero, il suo giudizio, ma sempre in modo da non ferirmi. Questo mi colpiva molto in lui. Spesso mi ha ripetuto: “Generale, ricordi sempre le parole di re Sigismondo Augusto: ‘Non sarò re delle vostre coscienze’”. Milioni, forse miliardi, di persone sanno come sapeva parlare, invece a pochi è stato concesso di sapere come sapeva ascoltare, e io sono uno di loro. Era un grande capo spirituale, che a differenza di molti altri capi laici, che godono dei loro monologhi con cui cercano di dimostrare di possedere la verità assoluta, il Papa sapeva ascoltare. Non potrò mai dimenticare il suo volto assorto, totalmente concentrato su chi aveva d fronte. Questo indica il rispetto enorme che aveva per l’interlocutore, chiunque esso fosse, e anche quando non era d’accordo, esprimeva sempre il suo giudizio con grandissimo rispetto. Nel 1988 mi chiese di portare i suoi saluti a Gorbatchev. In un certo senso io ho fatto da trait d’union fra di loro. Forse esagero un po’, ma c’è una parte di verità, perché il Papa non conosceva Gorbatchev e Gorbatchev non conosceva il Papa. Io li conoscevo entrambi. Da un lato ero un Polacco e dall’altro ero membro di quel sistema. Il mio primo colloquio con Gorbatchev risale al 1985, durò cinque ore, per la prima volta potei parlare alla pari con un capo del Cremlino e affrontammo moltissimi temi, da Katyn al patto Molotov – Ribbentropp, e fra l’altro affrontammo il problema del ruolo della Chiesa in Polonia, che fino a quel momento i nostri vicini sovietici avevano guardato in modo assolutamente primitivo e una delle critiche più gravi che ci venivano mosse riguardava proprio la nostra tolleranza verso la Chiesa. Lo stesso Gorbatchev in un suo intervento nel 1984 mi aveva pesantemente criticato per il mio atteggiamento “troppo morbido verso la Chiesa”. Cercai di fargli capire il ruolo storico della Chiesa in Polonia, il suo ruolo morale ed etico, il suo ruolo fondamentale nella costruzione della pace sociale, ed in questo contesto cercai di presentargli la personalità di Giovanni Paolo II. Ho avuto in seguito molti altri colloqui con Gorbatchev in cui ebbi modo di parlargli del Papa, del suo ruolo e delle sue intenzioni. In un’occasione gli raccontai che quando il Papa era andato in pellegrinaggio ad Auschwitz si era fermato a pregare in modo particolare su tre lapidi: quella polacca, quella ebrea e quella russa. Questo gli fece un’impressione enorme. E con il Papa feci la stessa cosa presentandogli la figura di Gorbatchev e la sua idea di rinnovamento, facendogli presente che per noi rappresentava una grande speranza. Ebbi una grande soddisfazione il 4 dicembre 1989, già dopo le elezioni in Polonia, quando già ero presidente, e mi recai a Mosca per un incontro di routine con il Comitato Centrale, (con me c’erano Mazowiecki, Skubiszewskied altri politici eletti in giugno, mentre da parte degli altri paesi del blocco c’erano ancora i rappresentanti del vecchio regime, compreso Ceausescu, e questo dimostra come la nostra prudenza nell’introdurre le riforme gradualmente fosse stata la strada giusta), e Gorbatchev parlò del suo incontro a Malta con Bush e del suo primo incontro con il Papa giudicandolo importantissimo, e poi a quattr’occhi mi disse: “Avevi ragione, è una figura grandissima. Dobbiamo fare di tutto per migliorare i rapporti tra il Cremlino e il Vaticano ”.

Una volta lei parlando del Papa ha usato la parola perdono, mi può dire in che senso ha sperimentato il perdono del papa? Lei ha anche detto che è riuscito a perdonare il suo attentatore nel 1994 proprio in forza del perdono del Papa.
Questa domanda mi permette di completare la risposta alla sua domanda precedente e di tornare ai miei incontri con il Papa quando non ero più una persona pubblica, non avevo più incarichi istituzionali. Questi incontri hanno per me un valore particolare, perché allora il Papa non era tenuto ad incontrarmi, ma trovò il tempo per me, “grande peccatore”. Gli incontri “privati” sono stati ben tre e mi sono particolarmente cari. L’ultimo incontro avvenne il 27 novembre 2001, e quindi quasi alla vigilia del ventesimo anniversario dell’introduzione dello stato di guerra, e anche la data ha un valore particolare. In tutti questi incontri ho sperimentato da parte sua il desiderio di comprendermi, di accogliermi. Ricordo in modo particolare quell’ultimo incontro in Vaticano. Era sera, mi ricevette nei suoi appartamenti privati, ero particolarmente commosso, vidi la sua debolezza, si appoggiava da una parte a monsignor Dziwisz e dall’altra a qualcun altro, lo aiutarono a sedersi, parlava a fatica, ma desiderò condividere con me le sue gioie e le sue preoccupazioni per quello che stava accadendo in Polonia, eravamo alla Vigilia dell’ingresso nell’Unione Europea, che a lui stava molto a cuore, e io gli dissi che le sue parole al riguardo erano importantissime per la nazione. Ho interpretato questi gesti del Papa nei miei confronti come prova che egli non mi guardava secondo le categorie di colpevole o innocente, ma che guardava alla totalità della mia persona cercando di comprendermi e questa è la cosa più importante, perché comprendere in fondo significa perdonare. Non me lo aspettavo, è stato un dono. Io stesso più volte ho chiesto perdono, e a volte i giornalisti mi chiedono perché continuo a chiedere perdono, perché continuo a dichiarare il mio dolore per ciò che è accaduto, ma ritengo che sia un mio dovere morale. Non posso non chiedere perdono per il male che c’è stato. Non chiedo perdono per aver introdotto lo stato di guerra, perché sono convinto che sia stato necessario, che abbia salvato la Polonia, e su questo non cambio idea perché ho migliaia di prove, ma chiedo perdono perché all’interno di quel “male minore” sono stati in troppi a dover soffrire e dover soffrire troppo, in troppi sono stati rinchiusi inutilmente nei campi di internamento e tutto questo non era necessario. Lo stato di guerra poteva essere introdotto in modo meno doloroso, ma si era messa in moto una macchina enorme che io non ero in grado di controllare fino in fondo, non potevo controllare le violenze gratuite dei singoli militari e per tutto questo ho chiesto e chiederò sempre perdono. Adesso è in corso un processo contro di me, un processo paradossale perché già dal 1991 al 1996, e quindi già nella Polonia democratica, una Commissione Parlamentare ha esaminato alla luce del codice penale l’introduzione dello stato di guerra, ha interrogato decine di testimoni, ha esaminato tonnellate di documenti provenienti dalla Polonia, dai nostri vicini dell’Est, dall’Occidente, dal partito e da Solidarnosc e ha concluso i suoi lavori dichiarando che l’introduzione dello stato di guerra era stato dettato dalla ragion di stato. E il parlamento, il parlamento eletto democraticamente, chiuse la questione il 23 ottobre 1996. Da alcuni anni l’Istituto per la Memoria Nazionale, un’istituzione importante, ma fortemente politicizzata, non trovando un modo per accusarci, ci ha accusato secondo l’articolo 258 del codice penale, che riguarda l’organizzazione a delinquere, e cioè la mafia, eccetera.

Lei stesso ha sollevato il tema dello stato di guerra, come ha vissuto personalmente quei momenti? Io allora vivevo in Polonia e ricordo che la situazione sociale era drammatica, nei negozi non c’era niente, gli scioperi si moltiplicavano in modo incontrollato. Potrebbe ricostruire per i nostri lettori il clima di quei giorni, e il suo stato d’animo?

Comincio dal mio stato d’animo. Per me quel periodo, il periodo di Solidarnosc, che va dal 1980 al dicembre 1981, è stato un periodo di grandi speranze e di grandi minacce. Quando Solidarnosc è nata io ero ministro della difesa e fui un deciso sostenitore della legalizzazione del sindacato perché ritenevo che fosse un’enorme forza sociale che avrebbe potuto contribuire a migliorare il funzionamento del nostro stato. Certo, allora non potevo neanche immaginare una piena democrazia, ma pensavo che avremmo potuto dar vita ad un fronte comune, nonostante le differenze, per fronteggiare la crisi economica in cui si trovava la Polonia. Purtroppo, però, con il passare dei mesi queste mie speranze andarono via via diminuendo. Io fui nominato primo ministro nel febbraio 1981 e allora potei rendermi conto direttamente che soprattutto in campo economico la situazione era realmente drammatica e che le iniziative di Solidarnosc, non dico volutamente, ma di fatto stavano portando al disastro: negozi vuoti, uno stato d’animo della società sempre più esacerbato, non so se lei si ricorda, ma c’erano le tessere per i beni di prima necessità, nei negozi c’era solo l’aceto, le code per comprare qualsiasi cosa erano interminabili, dovevamo sospendere a tratti l’erogazione dell’elettricità, la benzina era razionata. Le tensioni crescevano sempre di più, e quelle settimane, quei giorni, quelle ore che hanno preceduto l’introduzione dello stato di guerra per me sono state un unico interminabile incubo, un vero incubo. Rimanevo in ufficio giorno e notte, sulla mia scrivania ogni giorno arrivavano pile di telex “Pretendiamo”, “Protestiamo”, “Vogliamo”, ma da un otre vuoto non si può attingere niente. Sentivo soprattutto la mia totale e assoluta impotenza. Sentivo anche i pericoli che venivano dall’esterno, le pressioni di Mosca. I mesi, le settimane, e soprattutto i giorni precedenti il 13 dicembre sono stati per me giorni drammatici, un vero incubo, vissuti nella consapevolezza che la catastrofe era sempre più vicina. Fino all’ultimo momento ho desiderato poter evitare quella decisione, ma alle 14 del 12 dicembre mi decisi, presi la decisione più difficile della mia vita, sentendone tutto l’enorme peso, sapendo bene che avrei dovuto sopportare quel peso fino alla fine dei miei giorni, e così è.

Si assume tutta la responsabilità di quella decisione?
Io sono soprattutto un soldato. Nel discorso che feci alla nazione l’11 dicembre 1990, al momento di lasciare la carica di presidente della repubblica dissi: “In quanto soldato so che il capo, ogni capo, risponde per tutti e per tutto. Se in qualcuno sono ancora vivi rabbia e odio, li indirizzino soprattutto contro di me”. Ritengo queste parole ancora valide, e da anni ne sopporto le conseguenze. Di molte cose, di molte parole mi vergogno e la consapevolezza di aver provocato del dolore, forse inutile, rimane la mia spina nel fianco.

Quella decisione era inevitabile?
Sono inevitabili solo i terremoti, gli uragani, i tifoni. Tutto ciò che dipende dall’uomo, dalle scelte dell’uomo,no. Però bisogna tener conto della situazione storica concreta in cui ci si viene a trovare. La situazione del 1981 era arrivata al limite, sia per la responsabilità di alcune ali estremiste del sindacato, che per l’ottusità di parte degli uomini al potere, che per la situazione internazionale. Alcuni esponenti di Solidarnosc, fra cui Bogdan Borusewicz, attuale presidente del parlamento, hanno dichiarato che il sindacato era caduto in una sorta di furia distruttiva, aveva perso il contatto con la realtà. Dall’altro lato c’era l’atteggiamento conservatore e ottuso di alcuni di noi, che rifiutavano ogni cambiamento. Si può dire che gli “opposti estremismi” hanno contribuito a quella decisione. Lo stato di guerra indebolì radicalmente Solidarnosc e, paradossalmente, questo indebolimento, soprattutto delle ali più radicali, qualche anno dopo, in un nuovo contesto internazionale, permise la realizzazione della Tavola Rotonda.

Secondo lei c’erano all’interno del sindacato delle forze che coscientemente cercavano di arrivare allo scontro? Perché fallì il famoso Incontro dei Tre, e cioè l’incontro che si svolse il 4 novembre 1981 fra lei , il Primate Glemp e Lech Walesa? Perché l’accordo non fu possibile?
Si sarebbe potuti arrivare ad un accordo? Sì. Soprattutto grazie all’enorme mediazione della Chiesa. Mi sento il coraggio di dire che in questo caso Solidarnosc fece un affronto alla Chiesa, perché la Chiesa, nella persona del Primate, e so anche del Papa, sosteneva decisamente la possibilità di un accordo, che si delineò durante l’Incontro dei Tre. Perché non ci siamo arrivati? Non idealizzo assolutamente l’atteggiamento delle autorità al potere: fra i membri di Solidarnosc c’erano dei piromani e fra i membri del governo c’erano dei trogloditi. Purtroppo i piromani, forse non rendendosi conto che avrebbero potuto provocare un incendio, fecero delle pressioni enormi su Walesa, e portarono al fallimento di ogni possibilità di accordo. Pur mantenendo fermo il giudizio critico della Chiesa nei confronti del sistema, il primate Glemp in quel momento era molto critico anche nei confronti dell’ala radicale di Solidarnosc, che tendeva a farne un movimento politico, anche sotto l’influenza di forze esterne. Il Primate criticò anche il viaggio di Walesa in Italia, perché la visita era stata strumentalizzata di diversi gruppi politici per i propri interessi. La Chiesa continuò sempre a sostenere il sindacato e ad agire per arrivare ad un compromesso, ad un accordo, e senza quest’opera mediatrice della Chiesa durata anni non si sarebbe mai arrivati alla Tavola Rotonda. Ricordo bene il giorno dell’Incontro dei Tre, alla sera sembrava che la possibilità di un accordo fosse reale, e fu espressa anche nel comunicato conclusivo. La Chiesa indicò subito i nomi dei suoi rappresentanti: il vescovo Dabrowski, nel ruolo di garante e Jerzy Turowicz, Stanislaw Stomma, Andrzej Wielowiejski e Stefan Sawicki, quindi le migliori menti dell’intellighenzia cattolica, al tavolo delle trattative. Il giorno dopo il Primate si recò in Vaticano per presentare la situazione al Papa e, per quello che ne so, ottenne la sua approvazione. Walesa era sotto la pressione dell’ala radicale che rifiutava a priori ogni possibilità di dialogo, e purtroppo cedette a queste pressioni e il 28 novembre la Commissione Nazionale del sindacato dichiarò che non avrebbe partecipato a nessun negoziato con il potere, anzi annunciò per il 17 dicembre un’ondata di scioperi, che avrebbe portato per le strade milioni di Polacchi.

E le pressioni esterne?
Il 21 novembre avevo ricevuto un messaggio di Breznev che conteneva un’aperta minaccia nei confronti dei nostri tentativi, definiti come “un tentativo di scardinare il socialismo” che rendevano necessario “una guerra aperta contro i nemici di classe”. Non voglio affrontare il tema dell’Unione Sovietica in quanto tale. Io sono stato educato in uno spirito profondamente antirusso e antisovietico. Mio nonno aveva partecipato all’insurrezione di gennaio del 1830, è stato per dodici anni ai Siberia, mio padre era volontario durante la guerra del 1920, ho frequentato per sei anni la scuola del padri mariani, e anche lì lo spirito era profondamente anti sovietico,e poi io stesso sono stato deportato e ho conosciuto la Siberia. Durante la deportazione in Siberia ho conosciuto per la prima volta i Russi, uomini semplici e sofferenti come noi, che dividevano con noi un pezzo di pane, poi ho combattuto al fronte insieme ai Russi e il fronte affratella come nient’altro al mondo. E poi un passo dopo l’altro ho visto tutto ciò che c’era di male in Russia e tutto ciò che c’era di buono. Ma torniamo allo stato di guerra. Io ripeto sempre che in ogni caso l’esame di coscienza va fatto cominciando da se stessi. Bisogna sempre guardare a ciò che dipende da me, dalle mie colpe, e solo dopo si possono cercare i colpevoli esterni. Noi Polacchi, invece spesso facciamo il contrario, assolvendoci a priori e cercando sempre un colpevole fuori di noi. Ritornando a quel periodo devo dire che per me sono stati momenti molto difficili anche per le pressioni che mi venivano fatte da parte sovietica. Pressioni enormi anche di natura economica: Mosca ci aveva ufficialmente informato che dal gennaio 1982 avrebbe drasticamente ridotto le forniture di petrolio e gas, questo voleva dire la catastrofe. E poi pressioni politiche e militari: vedevo bene i preparativi militari ai nostri confini. Sono un militare di professione e so bene di che cosa parlo. Però, l’intervento degli eserciti del Patto di Varsavia non sarebbe stato solo un’iniziativa autonoma, ma sarebbe stato la conseguenza della nostra situazione interna. Se in Polonia ci fosse stata la pace sociale e ci fossero state delle trattative serene, l’intervento non sarebbe stato possibile. Ma così non era, per colpa di entrambe le parti, e avevamo portato la situazione ad un punto in cui inevitabilmente si sarebbe arrivati all’intervento. Perché? Perché la Polonia si trova in una posizione geo politica e geo strategica unica. Siamo un enorme campo di battaglia e un enorme cimitero. Siamo in una posizione chiave sull’asse Est-Ovest e inoltre bisogna tener conto delle dimensioni del paese e del numero di abitanti. In quel periodo, in cui si fronteggiavano due blocchi antagonisti, la pace si manteneva grazie al cosiddetto equilibrio delle forze in campo. Noi militari facevamo sempre questi calcoli e posso dirlo per conoscenza diretta: noi avevamo più carri armati, l’Occidente aveva aerei più numerosi e migliori dei nostri, eccetera. Il timore maggiore era che questo equilibrio di forze potesse essere messo in discussione. L’unico momento nel dopo guerra in cui siamo stati vicini alla terza guerra mondiale è stata la crisi di Cuba, perché la comparsa di missili sovietici a Cuba fu un evidente ribaltamento degli equilibri. Quello che stava accadendo in Polonia nel 1981, e che rischiava di far esplodere la situazione, avrebbe portato inevitabilmente all’intervento sovietico, proprio anche perché sarebbe stato un indebolimento dell’equilibrio mondiale. Anche per i sovietici questo era uno scenario tragico, ma era inevitabile per la logica che sosteneva quella divisione del mondo. Questo va ricordato. Purtroppo oggi molti lo vogliono dimenticare. Per questo lo stato di guerra fu un’azione preventiva alla luce di ciò che realisticamente poteva accadere.

Lei ha sempre detto che grazie all’introduzione dello stato di guerra si è evitato il peggio, e cioè l’intervento delle truppe del Patto di Varsavia. Aveva avuto delle garanzie da Mosca?
Dal 1 al 4 dicembre 1981 a Mosca si svolse la seduta del Comitato dei Ministri della Difesa del Patto di Varsavia. Le truppe del patto erano pronte, equipaggiate anche con armi anti sommossa e aspettavano al confine fin dagli ultimi mesi del 1980. Cera chi premeva per l’intervento. Cercammo di convincerli che ce la potevamo fare da soli. Alle 9 del mattino feci una riunione con i generali in capo dell’esercito polacco per valutare la situazione. Eravamo sotto l’impressione dell’incontro di Mosca. Ci chiedevamo che garanzie ci fossero: eravamo certi che non sarebbero entrati, se avessimo agito da soli? Alla presenza dei generali provai a chiamare Breznev. Mi passarono il generale Suslov. Gli chiesi: “Se introduciamo lo stato di guerra, tutta la faccenda rimarrà una cosa interna polacca?” Mi rispose: “Sì”. “E se la questione si complica?”. Ricordo che cominciò a ripetere: “Noi non lasceremo sola la Polonia in difficoltà”, e poi aggiunse: “Avete sempre detto che ce l’avreste fatta da soli”. Dovevamo assolutamente farcela da soli altrimenti non avremmo avuto lo stato di guerra, ma la guerra.

Nel novembre 1990 durante il primo turno delle elezioni presidenziali mi trovavo al comitato elettorale di Walesa a Danzica e ricordo il suo discorso alla televisione, quando lei dichiarò di essere stato nel 1981 come un macchinista alla guida di un treno che sta andando a tutta velocità verso un precipizio. I passeggeri non se ne rendevano conto, ma lei vedeva il baratro davanti a sé e ha dovuto frenare violentemente. Per questa frenata molti si sono fatti male, ma lei ha così salvato il treno dalla catastrofe.
Sì, io vedevo con drammatica chiarezza quel baratro. La metafora del treno l’ho rubata a Jacek Kuron, che l’aveva usata a metà del 1981, affermando che Solidarnosc era un treno che correva per la Polonia ma senza avere un orario e un percorso ferroviario e che questa situazione prima o poi avrebbe portato alla catastrofe. L’Incontro dei Tre aveva lo scopo di creare un nuovo orario e un nuovo percorso per questo treno, in cui ci fosse un posto per Solidarnosc e un posto per il governo.

E rimane l’ultima domanda: qualcuno dentro Solidarnosc ha volutamente fatto fallire l’accordo? O semplicemente nessuno era più in grado di controllare la situazione?
La situazione era assolutamente fuori controllo. Lo stesso Lech Walesa nel novembre 1981 disse: “Io blocco uno sciopero e subito dopo dieci gruppi di capetti vanno in giro per il paese e ne fanno scoppiare altrettanti.” Non riuscivamo a controllarla noi del potere, non riusciva a farlo la dirigenza delsindacato e non ci riusciva più nemmeno a Chiesa, e questo è forse la cosa più importante. A quel punto poteva succedere di tutto.

In quei drammatici momenti e negli anni seguenti come ha giudicato l’operato della Chiesa?
L’ho sempre detto e lo dirò sempre: senza il ruolo di mediatore della Chiesa non avremmo mai avuto la Tavola Rotonda. La partecipazione di alcuni vescovi, tra cui il vescovo di Danzica Tadeusz Goclowski, nel ruolo di garanti ai lavori della Tavola Rotonda è stato fondamentale per il successo delle trattative. Per la realizzazione della Tavola Rotonda sono state fondamentali la mediazione della Chiesa e la determinazione di quegli uomini di Solidarnosc, con a capo Walesa, e per questo li ammiro in modo particolare, che sono stati capaci di elevarsi al di sopra delle proprie ferite, tutti loro erano stati internati, messi in carcere, perseguitati, per venirsi a sedere alla Tavola Rotonda. Anche noi avevamo le nostre ferite che risalivano a ciò che era accaduto nel 1981. Ciononostante siamo stati capaci di avvicinarci gli uni agli altri e in questo cammino è stato decisivo il ruolo della Chiesa.

Ricordo che mi colpì molto quando Walesa fu eletto presidente che nel corso della cerimonia di investitura, lei si fece da parte e Walesa ricevette le insegne di presidente dal presidente del governo polacco in esilio a Londra. Fu un gesto con un alto valore simbolico. Come ci si arrivò?
Come ho già detto prima, io non volevo essere eletto presidente, sapevo bene che peso sarebbe stato per me, avevo sulle spalle tanti anni di lavoro difficile e pesante, anche la mia famiglia insisteva perché mi ritirassi. Avevo dichiarato pubblicamente che non mi sarei candidato e solo i colloqui con Bush e Gorbatchev mi convinsero a candidarmi, sapendo bene che sarei stato un presidente di transizione, di passaggio, sapendo di essere il candidato giusto per realizzare le riforme e di essere per gli stati confinanti la garanzia che in Polonia non ci sarebbero state avventure alla Robespierre. La mia presenza a fianco di Mazowiecki era una garanzia per tutti. In buona misura la rivoluzione di velluto e la caduta del muro di Berlino sono legate a quanto era accaduto prima in Polonia. Ho cercato di fare il presidente al meglio delle mie possibilità, senza abusare mai dei grandi poteri che la mia funzione mi conferiva, e lo stesso Mazowiecki ha dichiarato più volte che la mia presenza gli ha facilitato grandemente il lavoro e che è stato aiutato dal sostegno che gli diedi in quel periodo di difficile transizione. Però c’erano delle forze politiche per le quali la mia elezione era scomoda, era irritante, che non accettavano che lo stesso uomo che aveva introdotto lo stato di guerra adesso facesse il presidente della repubblica, della Polonia democratica. E in un certo senso capisco queste obiezioni. Fra costoro c’erano soprattutto i fratelli Kaczynski, che avevano una forte influenza su Walesa. E Walesa cominciò ad essere sempre più inquieto, e a fare dichiarazioni contro di me. Nella primavera del 1990 parlando con Mazowiecki gli dissi che ne avevo abbastanza che volevo dare le dimissioni. Mazowiecki mi chiese di non farlo perché la mia persona era una garanzia per tutti. Accettai quindi di rimanere, ma all’inizio dell’autunno l’ostilità contro di me cominciò a crescere, ci fu anche qualche manifestazione, i fratelli Kaczynski, soprattutto Jaroslaw, fecero delle dichiarazioni molto dure, e si arrivò ad un mio incontro con il Primate a Jasna Gora in cui espressi al Primate il mio desiderio di andarmene in modo non traumatico per nessuno e gli chiesi di poter organizzare un incontro allargato. L’incontro si svolse in ottobre a Varsavia nella residenza del Primate. Erano presenti i rappresentanti di Solidarnosc, ovviamente con a capo Walesa, i rappresentanti della Chiesa con il Primate, e i rappresentanti delle vecchie autorità con me. Walesa era molto determinato a diventare il prossimo presidente. A quel punto dichiarai la mia totale disponibilità a ritirarmi e ad anticipare le elezioni presidenziali. Cercai di uscire di scena nel modo più dignitoso possibile. Anche con quel gesto simbolico che lei ha ricordato, con cui in qualche misura si riallacciava la nuova Polonia alla Polonia dell’anteguerra. Pensai che avrei potuto finalmente riposare dopo tanti anni di lavoro e tante esperienze drammatiche: la Siberia, la guerra, tutti gli anni del dopoguerra. Pensavo di potermi dedicare alla famiglia, alla lettura, al teatro. E invece niente, sono vent’anni che continuo a dovermi giustificare, a dover comparire davanti al tribunale, alla Procura. Nel prossimo mese di settembre dovrei essere presente in tribunale per 23 giorni, praticamente tutti i giorni. Ho 86 anni, ho i miei acciacchi, le confesso che mi sembra che ci sia chi sta veramente un accanimento contro di me, ma evidentemente deve essere così. Tutto questo serve solo a dei giochi politici, la storia viene usata come strumento politico.

A questo proposito, come vede la situazione attuale della Polonia?
Nella situazione in cui sono potrei facilmente cadere nel pessimismo, o sostenere che quando io ero presidente le cose andavano meglio di oggi. No, oggi le cose vanno meglio. La Polonia è un paese democratico, e la democrazia è una cosa grande, anche se, come disse Churchill non è un buon sistema di governo, ma nessuno ne ha trovato uno migliore. Abbiamo l’economia di mercato e il capitalismo, che anch’esso non è buono in sé, ma nessuno ha trovato niente di meglio. Certo, creando questa nuova Polonia era impossibile evitare errori oggettivi come la crisi, l’indebitamento, l’ostilità di alcune parti della società, e soggettivi, perché alcuni non hanno capito l’essenza dei cambiamenti, e nei cambiamenti ci sono state molte cose malate: certi arricchimenti improvvisi, certe montagne di danaro nate dal nulla, dalla miseria. Mi ritengo un uomo di sinistra, anche se sono stato educato in condizioni

assolutamente diverse, e ritengo che certi fenomeni incontrollati del mercato non siano del tutto buoni. Certo, il mercato non può essere regolamentato in modo meccanico, ma mi sembra che il culto di questa invisibile mano del mercato porti a crisi che si ripetono, e ritengo che un limitato controllo dello stato possa portare ad una diminuzione delle sperequazioni sociali. E poi vedo che continuiamo a dividere la società secondo le categorie post comunismo e post Solidarnosc. Credo che anche i nostri pronipoti continueranno ad essere giudicati come post comunisti. E ci si serve di tutto, compreso il mio processo, per dimostrare come il sistema sia stato cattivo. E allo stesso tempo c’è troppo trionfalismo: “noi abbiamo vinto e per questo abbiamo tutti i diritti, noi abbiamo sconfitto il comunismo, noi abbiamo sconfitto l’URSS.” Ma chi sono questi noi? Io sostengo che se non ci fosse stata tutta una serie di condizioni non si sarebbe arrivati da nessuna parte. Un grande fiume non si forma senza tanti affluenti. Prima c’è un ruscello e poi ci sono gli affluenti e così il ruscello diventa un grande fiume Lo stesso in questo caso: c’era il ruscello del desiderio del cambiamento, ma senza tanti affluenti non sarebbe mai diventato quel grande fiume che ha realizzato i cambiamenti. E sicuramente tra gli affluenti principali ci sono stati Gobatchev e la perestrojka, Solidarnosc, il Papa, Walesa, la Chiesa, ed anche la volontà riformatrice di chi allora era al potere, perché se non avessimo voluto cedere il potere avremo trovato il modo per tenercelo stretto. Tutti questi sono stati affluenti importantissimi, ma non possiamo assolutizzarne nessuno. Bisogna rendere onore a tutti coloro i cui nomi sono iscritti in questi cambiamenti, compresi Reagan e Bush, che hanno portato avanti il processo di riduzione degli armamenti. E infine, la nostra politica estera, è una grande cosa che siamo nella NATO, nell’Unione Europea. È molto importante che siamo in questi due blocchi, l’uno ci dà la sicurezza militare e l’altro le prospettive economiche. Non possiamo dimenticare, però, i rapporti bilaterali, e le nostre ferite storiche pesano ancora oggi sui rapporti con la Germania e la Russia. Ferite giustificate, ma spesso le reazioni sono sproporzionate e non si fa la fatica di cercare di capire la mentalità e le reazioni dell’altro e di rispettarle. Le faccio un esempio divertente, che forse le permette di capire come per anni continuino a rimanere aperte le ferite storiche, che però non possono e non devono influenzare la politica. Nel giugno 1989, subito dopo le elezioni, mi sono recato in visita in Gran Bretagna ed ho avuto un colloquio con la signora Thatcher in un castello fuori Londra a disposizione del Primo Ministro britannico. Avemmo un colloquio molto lungo, in cui la signora Thatcher mi espresse anche le sue preoccupazioni per l’unificazione della Germania. Alla fine del colloquio mi invitò a salire con lei al piano superiore, era una specie di mansarda dove erano esposti una serie di oggetti storici. Sul tavolo c’era un dossier della polizia segreta molto vecchio. Mi chiese se sapevo di chi fosse: era il dossier di Napoleone e scoppiando a ridere mi disse che non avrebbe mai potuto portare lì dentro un francese. Oggi, dopo 200 anni fra la Francia e la Gran Bretagna i rapporti sono ottimi, cementati anche dal sangue versato durante la seconda guerra mondiale, ciononostante ognuno mantiene viva la propria memoria. Per i Francesi e per i Polacchi Napoleone è un eroe, per gli Inglesi, per gli Spagnoli o per i Russi è tutta un’altra cosa. Quindi, se continuiamo a ragionare secondo queste categorie non potremo mai costruire niente di buono. Certo, dobbiamo difendere i nostri interessi e la nostra verità, ma non possiamo imporla con la forza agli altri, perché anche loro hanno la loro verità. Una cosa sono i fatti storici, un’altra la nostra interpretazione. Noi abbiamo l’eredità delle spartizioni della Polonia, l’eredità del periodo fra le due guerre, del 1939 e di tutto quello che è accaduto dopo, dell’occupazione, di Katyn, ma tutto questo dovrebbe essere capito, studiato e non dovrebbe essere solo oggetto di atteggiamenti emotivi. Ad esempio Katyn, posso dire di essere stato io a spingere Gorbatchev ad ammettere la strage, nonostante le enormi opposizioni all’interno del Cremlino e le sue stesse resistenze. Per cinque anni ho fatto pressione su di lui. Finalmente riuscii ad ottenere la nomina di una commissione congiunta polacco-russa e finalmente Gorbatchev dichiarò a me ufficialmente come presidente che la strage era opera dei sovietici, della NKVD, facendomi anche i nomi degli autori, chiedendo pubblicamente scusa alla nazione polacca. Oggi si preferisce non ricordare che sono stato il primo a sollevare questa tragedia. Ma forse ormai questo è il mio destino e non posso fare che accettarlo.

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