«Altro che miliardi, serviranno triliardi per ripartire. Conte non si lasci ricattare con il Mes»
Che a causa delle misure contro l’emergenza coronavirus siamo già di fatto in recessione è un’evidenza sotto gli occhi di tutti: lavoratori a casa, eventi cancellati, negozi chiusi, locali sbarrati, viaggi rinviati a chissà quando. E mercoledì saranno messe le ganasce a un’ulteriore serie di attività. Impossibile non pensare con paura alle conseguenze economiche e sociali che avrà questo inedito “lockdown” generale, anche dopo il decreto “Cura Italia”.
Il nostro malridotto paese può pensare di cavarsela con i 25 miliardi di euro di aiuti finanziari stanziati dal governo a favore di cittadini e imprese obbligati a fermarsi? E chi pagherà tutto il debito che occorrerà accumulare per attraversare l’incubo rintanati in casa? Lo abbiamo chiesto a Stefano Morri, avvocato e commercialista, titolare di uno degli studi di consulenza legale e tributaria più noti di Milano. Membro dei cda di diverse aziende (anche quotate in Borsa), Morri ha sotto gli occhi un vero e proprio spaccato verticale dell’economia, dal momento che con il suo studio segue e osserva numerose realtà di tutte le taglie, dalle multinazionali alle grandi imprese italiane, dalle medie imprese familiari alle piccole e piccolissime aziende o realtà professionali.
Avvocato Morri, dopo il decreto “Cura Italia” qual è il clima tra le aziende con cui collaborate? Quali sono le difficoltà e le paure maggiori (e le speranze, se ce ne sono)?
Le aziende stanno cercando di cavare quello che possono dal decreto del 17 marzo, sotto tutti i profili possibili. Fisco, lavoro, accesso al credito. Naturalmente le reazioni e i bisogni sono molto diversi: dalla disperazione dei piccoli alla richiesta di essere compliant con le regole da parte delle aziende più grandi, in specie coi propri dipendenti. Unica cosa comune, ed è commovente: tutti hanno fin qui mostrato un atteggiamento composto e costruttivo. La gente vuole vivere e stare bene e fare quel che può per superare questa fase. Il nostro studio ha allestito un’unità di crisi per stare vicino ai clienti in questa tempesta e siamo letteralmente subissati di richieste, il che è un segno di positiva vitalità. Abbiamo anche messo in rete un Dossier Covid-19 – nome orribile, lo so – e stiamo lanciando un Osservatorio cui chi voglia può connettersi per informazioni, richieste e consigli.
Gran parte delle misure a favore delle aziende riguarda la sospensione di adempimenti e pagamenti, tra l’altro sospensioni abbastanza irrisorie per alcune categorie: a cosa serve, per esempio, rinviare di 40 giorni il versamento dell’Iva per i professionisti, quando tutto è fermo da settimane e tale rimarrà per altre settimane? Dove li trovano i soldi per pagare tra un mese? Idem per le piccole aziende e le imprese dell’ex “zona rossa”…
Il decreto è, e deve essere, una misura emergenziale. Ha sospeso pagamenti allo Stato che sarebbero stati dovuti nel pieno dello shock e che avrebbero prosciugato la già scarsa liquidità delle imprese o aggravato con sanzioni l’impossibilità dell’adempimento. Il nostro team sta passando al setaccio la misura e segnalando lacune che andranno subito colmate nella logica dell’emergenza.
Un aspetto che è nella responsabilità delle banche è quello della liquidità. Le banche devono adeguarsi a questi tempi eccezionali, e non solo accettare la moratoria dei mutui e bloccare i rientri, ma anche erogare nuova finanza. Ci vuole nuova finanza. È essenziale. Devono dare fiducia al sistema, non ritirarla. Se le banche lo fanno spontaneamente, e subito, bene, altrimenti deve intervenire lo Stato con una copertura di garanzie e, se non funziona, bisogna immediatamente nazionalizzarne qualcuna, magari cominciando da Mps che è già dello Stato e a cui potrebbe essere data questa fondamentale funzione di guida del sistema.
Detto questo, è chiaro che qui siamo in presenza di un fenomeno talmente imponente e nuovo che il problema delle misure di contenimento della crisi non è neanche definibile nei suoi termini. Dipenderà per esempio e moltissimo dalla durata della pandemia. Due mesi sono enormemente meno di tre, e tre enormemente meno di quattro. Le critiche sulla sufficienza della magnitudine e della funzione di questo decreto sono quindi ovvie e perciò inutili, come inutili sono le difese, se non in una logica di contrapposizione politica del tutto fuori luogo ora. È un decreto emergenziale, che tappa i primi buchi. Punto. Per una azione più ampia, è meglio stare nel processo in corso, essere vigili, avere visione e partecipare alla formazione del quadro complessivo delle risposte a livello europeo e per quel che possiamo extraeuropeo.
Ma per un settore come il turismo è evidente che il Cura Italia è meno di un pannicello caldo. Abbiamo pubblicato l’appello di un imprenditore di Siena che fa notare – pacatamente ma non meno drammaticamente – come il turismo sia già stato in pratica azzerato: l’anno è finito a febbraio dal punto di vista degli affari. Come si può pensare che le imprese troveranno le risorse per pagare contributi e premi assicurativi entro il 31 maggio?
È chiaro che alcuni settori, tipo il turismo per l’appunto, ma non solo, dovranno essere destinatari di aiuti del tutto straordinari. Di questo parleremo quando il quadro sarà più completo.
La sensazione è che chi ha scritto il decreto preveda che l’economia, la società, tutto riprenderà come prima non appena tolte le misure di contenimento. Ma è questo che possiamo aspettarci? O crede che dopo questa esperienza traumatica l’Italia (il mondo) cambierà radicalmente?
Come ho detto, il decreto è una prima misura e non credo che chi lo ha scritto pensi che basti. 25 miliardi sono un nulla rispetto al danno che stiamo subendo e subiremo. Detto questo, io non so se il mondo cambierà radicalmente. Se vogliamo fare della geopolitica, per quel che sono capace, le dico che avverto rischi grandi, anche di guerra, non la guerra di frizione che abbiamo fin qui visto, ma la guerra tra le grandi potenze. La crescita della Cina infatti è vissuta come minaccia dagli Stati Uniti. La sua capacità di attrarre a sé le grandi potenze del continente euroasiatico, la Russia e la Germania, e con lei l’Europa tutta, materializzano la prospettiva del continente euroasiatico economicamente unito, che è il grande spettro degli americani.
Però sono ottimista. Il mondo non cambierà. È un casino troppo grande. Le grandi potenze troveranno un equilibrio che le porti a continuare la loro convivenza sotto il dominio americano, come è stato fin qui. Ma se il mondo non cambierà, dovranno però cambiare i meccanismi di funzionamento dell’Europa. Questo è certo. L’Europa, e l’euro, sono stati concepiti, per come li abbiamo fin qui visti, per tenere la Germania legata a un contesto più ampio, per indebolirla. Gli americani la pensavano così, dopo la caduta del muro e l’unificazione dell’Ovest con l’Est. Accettarono l’unificazione della Germania, dato che non c’era alternativa, ma doveva essere una Germania imbrigliata.
Ed è andata così?
Non direi proprio. La Germania ha scaricato nell’economia il suo potenziale trovando terreno fertile nel mercato unico (450 milioni di abitanti ad alto reddito) e in una moneta che è la combinata artificiale del marco e delle valute del Sud. Il cambio fisso ha evitato la rivalutazione della valuta tedesca e ha favorito la politica di esportazione dell’industria teutonica. Il tutto a scapito delle economie leggere, ma vitali, degli stati del Sud europeo, Italia in primis.
Così, dopo 20 anni di euro e 30 anni di stringenti regole europee (la vicenda infatti inizia nel ’92 con il Trattato di Maastricht – dice qualcosa il ’92?), l’Italia ha visto la sua crescita incepparsi e il suo Pil rimanere al palo. Pensi come sarebbe diversa la situazione se oggi l’Italia anziché 2 triliardi di Pil ne avesse 3 o quasi! Quindi questa Europa a trazione mitteleuropea non funziona. E lo sanno benissimo anche gli intellettuali tedeschi più avvertiti, che sono molto preoccupati. Perché vedono i fantasmi del passato ritornare. E questo evento singolare, il cigno nero, può essere il fattore del cambiamento.
Sta dicendo che Covid-19 può essere utile a ridefinire in meglio le regole europee?
Sì. Un mio amico che faceva politica un giorno a proposito dell’evoluzione della vicenda europea in rapporto all’Italia mostrò il cielo fuori della stanza, era un giorno grigio, né caldo né freddo, e mi disse: «Ecco, vedi, con l’Europa sarà sempre così per l’Italia, né bene né male, né troppo freddo da farci scappare né abbastanza caldo da farci star bene…». Covid-19 può essere l’evento che spinge a risolvere in un senso o nell’altro questa vicenda.
Dobbiamo iniziare a mettere in conto anni di “dopoguerra”?
So che ha scritto Giuliano Ferrara usando questa immagine. Ma Giulio Tremonti ha anche parlato di Sarajevo [vedi l’intervista a Tempi del 18 marzo, ndr]. Quindi per Ferrara saremo dopo, per Tremonti prima della guerra. Due geni. Ma io mi limito a vedere scenari. Di quello della guerra, la terza guerra mondiale, non voglio neanche pensare e tanto meno parlare. Sono ottimista e ipotizzo che gli Stati Uniti riescano a trovare un modus vivendi con la Cina, anche via riaffermazione del loro imperium sull’Europa.
Se è così, c’è un aggiustamento non piccolo da fare. È in Europa. Ci vorranno triliardi per rimettere le cose a posto in Europa. Ci vorranno multipli dei 25 miliardi della manovra di marzo per farlo in Italia. È chiaro che gli attuali meccanismi sono archeologia. Lo hanno capito anche i sacerdoti dell’euro: i Monti, i Letta e via enumerando.
Si va dunque verso una sospensione del patto di stabilità, come propone la Commissione europea?
È assolutamente nelle cose. Il problema è il modo. Vedo riaffiorare i vecchi tic della coppia franco tedesca. Concedere l’elemosina di qualche punto di deficit purché sia coperto dai soldi del Mes, che verranno erogati con un bel Memorandum of Understanding pieno di condizioni. Ma quelli sono già soldi italiani! Perché dovremmo accettare condizioni per disporre dei nostri soldi? Cose da pazzi! Non siamo mica nel 2011, quando la gente pensava che Monti fosse il salvatore della patria. Ormai lo sanno anche i bambini come funziona l’Europa. Questi giochini, particolarmente infami perché sono un ricatto sulla pelle della gente che sta male, portano diritti allo sfascio della costruzione europea.
Cosa pensa del fatto che sia lo stesso Giuseppe Conte a chiedere di avere accesso ai fondi del Mes?
Ho già detto. È un errore molto, molto grave. Ma per fortuna il paese ha sviluppato consapevolezza delle trappole europee e vedrà che vi sarà una reazione violentissima nella pubblica opinione. Il Mes ci ridarebbe i nostri soldi, a condizioni da Troika. Le sembra sensato?
Quindi lei come pensa cambierà il nostro legame con l’Europa?
Non vedo alternative. O si va verso il “meno Europa” e si torna alla lira, con Banca d’Italia che riprende a garantire il collocamento a prezzi bassi dei titoli italiani – come è stato, e bene, fino al 1980 – o si va verso il “più Europa”, verso eurobond in quantità industriali. Tertium non datur. Gli eurobond possono essere un modo inglese per dire che salta il patto di stabilità. Che i debiti pubblici si solidarizzano. Che, come succede in ogni unione monetaria che si rispetti, i soldi si muovono dal centro alla periferia del sistema, per evitare che salti tutto.
La recessione si abbatterà più forte sull’Italia per via della nostra situazione economica “quasi greca” o riguarderà tutto il mondo? Qualcuno (per esempio lo stesso Tremonti) trova in tutto questo una conferma della «fine del ciclo della globalizzazione».
Il paragone con la Grecia non sta proprio in piedi. E non perché noi siamo forti, industriosi e sciocchezze simili, e i greci no. È semplicemente perché se l’Italia esce dall’euro, l’euro salta. Punto. E se c’è una cosa certa è che l’Europa non si può permettere che l’Italia esca dall’euro. Quanto al mondo, una volta che il virus sarà contenuto, sono ottimista e non vedo ragioni per non tornare a prima. La globalizzazione infatti non nasce dall’economia, ma dalla geopolitica. È la forza dell’America che crea la globalizzazione. Quindi la globalizzazione sarà fino a che gli Stati Uniti saranno la potenza di gran lunga più forte del mondo. E non mi sembra che ci sia alle viste un cambiamento di questo scenario. Gli Stati Uniti dominano i mari e sono a due passi da Pechino. Non mi pare che sia il contrario. Certo, Cina e Stati Uniti dovranno trovare un modus vivendi che li faccia stare strategicamente insieme. Non siamo né ai tempi del ping pong di Nixon né al 2001 in cui, come ricorda Tremonti, l’Asia entra nel Wto. Ma un equilibrio con altre variabili è molto possibile. Ne hanno disperatamente bisogno tutti.
Quanti soldi andranno stanziata ancora per superare la crisi? Soprattutto, quanti possiamo permettercene?
Come ho detto: 25 miliardi sono niente. Ce ne vorranno molti ma molti di più. Il discorso sul potercelo permettere non ha senso. Secondo il Censis, l’Italia ha più di 4 triliardi di ricchezza finanziaria privata. Eccome se se lo può permettere! Quello che non ci possiamo permettere è non avere una banca centrale che fa la politica monetaria che serve a noi e sottostare a vincoli che servono a stati stranieri per tenere imbrigliata la nostra crescita economica. Lei lo sa perché il nostro debito è alto?
No, me lo spiega?
Perché è basso il nostro Pil. Non perché il debito è alto. C’è un recente volume di un economista, Carlo Cottarelli, che si intitola I sette peccati capitali dell’economia italiana, che enumera una serie di vizi del nostro sistema che impedirebbero la crescita. C’è però all’inizio del volume un grafico che mostra l’andamento del reddito reale pro capite dell’Italia in rapporto all’area euro dal 1980 al 2017. Ebbene, si vede lì che fino al 2000 la curva italiana si muove all’unisono con quella europea. Poi dal 2000 si stacca verso il basso fino a divaricarsi in modo preoccupante.
Ora, i vizi capitali l’Italia li ha sempre avuti. Lei ne ha alcuni, gli altri paesi ne hanno altri. Quello che non ha sempre avuto è l’euro, che guarda caso è iniziato nel 2000. Ebbene, la possiamo fare molto complicata, e se vuole allunghiamo l’intervista, perché io tenti di spiegarle male perché un’unione monetaria su una base sociale ed economica disomogenea (che c’entra Palermo con Amburgo?) funziona solo se si muovono i soldi dal centro alla periferia o si muovono le persone dalla periferia al centro, con qualche “piccolissimo” costo sociale. Oppure la possiamo fare semplice: l’euro così com’è impedisce lo sviluppo dell’Italia. L’Italia così com’è, bella e brutta, brava e cattiva, non quella che hanno in testa gli intellettuali o i maieuti della modernità.
Quindi, tornando al Pil: senza l’euro, l’Italia, coi suoi sette e magari pure otto vizi capitali, avrebbe continuato a crescere, grazie a un cambio italiano che compensasse la rivalutazione mercantilista del marco, e oggi non avremmo 2 ma quasi 3 triliardi di Pil. E il nostro debito sarebbe del tutto sotto controllo, con qualche buca in meno nelle strade e qualche ospedale in più.
Il Cura Italia stabilisce che si può licenziare nessuno fino a metà maggio. Dopo cosa accadrà?
Dipenderà molto anche dalla congiuntura internazionale, in specie da come si metterà negli Stati Uniti. Vedremo, un passo alla volta.
E i 750 miliardi messi a disposizione dalla Bce? Quanto a lungo convincerà i mercati il Pepp? Secondo Tremonti, questo tipo di interventi ormai non serve più a niente.
I 750 miliardi servono a dare liquidità al sistema bancario. Non è che non servono a niente. Una delle cose che è accaduta nella crisi del 2008 è che le banche non si davano i soldi tra loro e stavano fallendo. E la Bce ci ha messo un bel po’ a risolvere la cosa: il «whatever it takes» di Draghi è del 2012. Oggi invece lo ha fatto subito. Quindi è bene così. Le banche sono importanti. Creano moneta. E senza moneta si inceppa tutto. Quindi non è che i 750 miliardi non servono a niente. È che non bastano.
La liquidità nel circuito bancario da sola non basta. Primo, perché deve entrare in quello delle imprese. E questo non è facile. Ho detto di ciò già prima, ma voglio tornarci. Nel nostro Paese il sistema bancario è stato scientificamente demolito negli ultimi 10 anni in nome degli algoritmi di Basilea e dei “campioni nazionali”, concetto che ormai va declinato al singolare. Dove sono i direttori di filiale che conoscevano le persone e le famiglie e sapevano a chi dare i soldi e quanti darne? Ci siamo fumati le banche di territorio che erano la nostra ricchezza per aderire a modelli demenziali creati da gente che pensa che il ritardo nel pagamento di una fattura, che da noi è normale – siamo fatti così –, stia a credito incagliato.
Secondo, perché ci vuole, almeno in Italia, la politica fiscale, alias la spesa pubblica. Quella vera. 150, 200 miliardi. Strade, ponti, scuole, ospedali, porti, reti, insomma le infrastrutture. E poi sì, il personale, leggi spesa pubblica corrente. Abbiamo visto lo shortage di medici e infermieri negli ospedali. E per favore, quello che abbiamo va pagato decentemente. Pensiamo ai professori, alle forze dell’ordine, ai dirigenti pubblici, che non è vero che non lavorano. Lavorano moltissimo e sono pagati una miseria.
E qui se vogliamo parlare di dopoguerra dovremo trovare lo spirito che fece fare l’Autostrada del Sole da Milano a Firenze in due anni. Meno burocrazia, meno Tar, meno paura della responsabilità erariale. Nel nostro piccolo, come studio professionale, stiamo studiano il groviglio di norme che blocca i fondi pubblici. Per dare qualche consiglio, se ci riusciamo.
Giovedì scorso il Corriere della Sera ha pubblicato una dichiarazione di Conte in cui il premier definiva «determinante il parere degli scienziati, i migliori sul mercato e di cui ci stiamo avvalendo, visto che non rincorriamo i sondaggi ma abbiamo in qualche modo, doverosamente, ceduto il passo alla comunità scientifica, che in alcuni momenti della storia può anche guidare le decisioni politiche». Che cosa ne pensa?
Questa è un’emergenza sanitaria. È ovvio che se sei un premier che ha il background del professore di diritto devi ascoltare chi ne sa. Quindi non ci vedo nessuno scandalo. Mi infastidisce solo la gestione spettacolare. Sintomo di debolezza. A parte questo, non faccio nessuna polemica sulle decisioni del governo italiano. E non ci vedo nessun pericolo di autoritarismo.
Circa la scelta della segregazione verso l’immunità di gregge non ho strumenti per giudicare. Ma dico, sul piano culturale, che è un posizione che è in linea con il nostro modo di essere, con la nostra storia, di cui andare fieri. La famiglia, la solidarietà tra generazioni è importante e gli anziani, i nonni, sono una nostra ricchezza, non uno scarto da far fuori darwinianamente per un vantaggio economico di breve periodo. Speriamo quindi che le scelte del governo funzionino, e che lo facciano presto. E cerchiamo tutti di attenerci alle istruzioni delle autorità.
Foto Ansa
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