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Cosa significa essere cattolici in Libia oggi, tra le violenze degli islamisti e le scorribande delle milizie armate

L’Annuario Pontificio 2012 registrava 70 mila cattolici a Tripoli e 10 mila a Bengasi, l’Annuario 2013 ne registra 10 mila e 3 mila. Padre Gheddo racconta la drammatica situazione della Chiesa nel paese dopo la caduta di Gheddafi

Piero Gheddo
27/11/2013 - 12:56
Esteri
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La stampa italiana riporta spesso notizie sulla Libia, quasi sempre negative. Il grande paese (cinque volte l’Italia), con circa 6 milioni di abitanti, ha nel sottosuolo immense ricchezze naturali, che permetterebbero ai libici di avere un livello di vita paragonabile a quelli del Kuwait, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Brunei. Ma, dopo la caduta e il massacro di Gheddafi nell’ottobre 2011, il governo non controlla tutto il territorio, per le molte milizie armate che si contendono il potere nazionale o locale. La pagina di Riccardo Redaelli su Avvenire (“Libia, ostaggio delle milizie – Nel paese del petrolio manca l’elettricità”, 27 ottobre 2013) descrive in modo esauriente la situazione politico-militare del paese. Ma scarseggiano le notizie sulla situazione della Chiesa cattolica e dei cristiani. L’Annuario Pontificio del 2012, per i due vicariati apostolici di Tripoli e di Bengasi registrava 70 mila e 10 mila cattolici; l’Annuario del 2013 ne registra 10 mila e 3 mila. Qual’è la situazione della Chiesa cattolica in Libia?

Anzitutto va detto che i libici sono tutti musulmani, non ci sono libici cristiani. Fino a due anni fa c’erano in Libia circa un milione di cristiani, soprattutto copti egiziani emigrati in Libia per lavoro; i cattolici erano tutti stranieri, dirigenti e lavoratori nei pozzi di petrolio, impresari e tecnici in numerose industrie create in Tripolitania (specialmente da italiani), operatori nel campo sanitario (medici e infermiere); e anche molti immigrati dall’Africa nera, con il proposito di attraversare il Mediterraneo e venire in Europa, ma che dovevano restare 3-4 anni in Libia a lavorare, con buoni stipendi. Da informazioni dirette risulta che molti stranieri in Libia sono ritornati quasi tutti in patria.

Nel 1986 Gheddafi, che aveva creato una rete di ospedali e dispensari medici ma con pochi medici e infermiere locali, scriveva a Giovanni Paolo II chiedendo suore infermiere, dato che due suore francescane italiane avevano assistito con amore e dedizione suo padre nell’agonia e nella morte, in seguito ai bombardamenti di Reagan alle sei caserme in cui viveva la famiglia del capo libico. Nel 2010 il personale sanitario cattolico era di circa 10 mila medici e infermiere (90 suore, un migliaio di medici e 9 mila infermiere filippine, indiane, libanesi, italiane, francesi, polacche e spagnole). Il vescovo di Tripoli Giovanni Innocenzo Martinelli mi diceva: «Stanno cambiando l’immagine del cristianesimo nel popolo libico».

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Oggi la Chiesa sopravvive in Libia. I molti filippini che c’erano sono scappati durante la guerra, poi qualcuno è ritornato, ma sono poche le infermiere rimaste. In Tripolitania non c’è persecuzione, ma l’unica chiesa aperta a Tripoli è quella di San Francesco col vicario apostolico e vescovo monsignor Giovanni Innocenzo Martinelli e quattro preti francescani minori (Ofm). A Tripoli i cristiani sono ancora abbastanza numerosi, anche filippini e altri stranieri. Ma le altre chiese aperte a Tripoli, Misurata e Sirte sono chiuse. Hanno abbandonato la Tripolitania due congregazioni femminili, quelle maltesi perché mancano di personale e quelle di San Vincenzo uscite durante la guerra. Sono rimaste le suore di Madre Teresa e poche altre. L’anno scorso, le Piccole sorelle di Gesù del De Foucauld sono morte in tre in un incidente stradale.

A Sebha nel deserto, a 800 chilometri a sud di Tripoli (dove il padre Giovanni Bressan, dottore nell’ospedale cittadino, aveva fondato la parrocchia nel 1990), ci sono ancora i cattolici dalla Nigeria, Niger, Burkina Faso, Camerun che lavorano in quella grande città (90 mila abitanti) e tengono aperta la chiesa, la scuola, l’oratorio, si riuniscono per pregare e fare la catechesi. Ogni due settimane va un padre da Tripoli a celebrare la Messa, rimane con loro due-tre giorni e torna indietro. L’orientamento della Libia è ormai chiaramente di radicalismo islamico anche in Tripolitania, più o meno sotto il controllo del governo nazionale, che nel febbraio 2013 ha varato la legge che legalizza la poligamia, abolita da Gheddafi. Altro segno forte di una tendenza generale è che anche nelle città la maggioranza delle donne portano il burqa o il velo, mentre solo pochi anni fa specialmente le giovani vestivano all’occidentale.

In Cirenaica sono sempre stati più battaglieri dei tripolitani. A Bengasi è peggio che a Tripoli. Nell’autunno 2012 sono tornate in patria una quarantina di suore impegnate negli ospedali, perché minacciate di morte. Sono rimaste solo le Immacolatine di Ivrea, a servizio nell’ospedale di Bengasi, hanno la loro casa dentro l’ospedale, quindi sono al sicuro; e le tre suore indiane che sono nell’ospedale dei bambini, della congregazione svizzera Figlie della Santa Croce. A Bengasi c’è ancora il vicario apostolico e vescovo monsignor Silvestro Magro con due padri francescani, nella Cattedrale minacciata più volte di essere saccheggiata e bruciata. Ma loro restano per assicurare una presenza cattolica nella capitale della Cirenaica, mantenere un rapporto con le autorità locali e assistere le suore in ospedale.

Alcune volte il vescovo e i due frati vanno ad abitare con le suore dell’ospedale, quando le minacce sono credibili. A Bengasi, dove è stato ucciso l’ambasciatore americano, l’Italia ha tentato di aprire il Consolato italiano, ma hanno visto che è troppo rischioso; sempre a Bengasi, la chiesa dei copti egiziani è stata bruciata dagli estremisti, che hanno sequestrato il parroco qualche mese fa. La città di Derna e altre della Cirenaica sono oggi in mano ai qaedisti, ai fondamentalisti. Nella città di El Beida, fra Bengasi e Derna vicino a Cirene, dove è iniziata la rivolta contro Gheddafi, è rimasto un francescano polacco, che ha preso la casetta delle suore ed è rimasto per assistere la ventina di filippini che lavorano nell’ospedale. Questo padre cura diverse iniziative in città per aiutare la popolazione e finora ha potuto rimanere, in accordo con l’autorità locale.

Scomparso Gheddafi, è crollata l’unità del paese e la pace interna. Adesso molti lo rimpiangono, con lui c’era la pace, lo sviluppo, il commercio con l’estero, il turismo, il benessere che stava crescendo e l’islam moderato (Gheddafi controllava le correnti estremiste e salafite) stava conquistando a poco a poco la maggioranza dei libici. Adesso l’islam salafita è tornato alla ribalta vittorioso e domina facilmente nelle varie “kabile” (come in Libia chiamano le tribù) e nelle confraternite religiose.

Tratto dal blog di padre Piero Gheddo

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