Cicciomessere: «Alzando l’età pensionabile, risparmiamo 10 miliardi»

Di Chiara Rizzo
26 Ottobre 2011
Lo storico politico radicale spiega a Tempi.it perché è cruciale una riforma del nodo pensioni, perché il blocco dello "scalone" voluto da Prodi, Rifondazione e sindacati costò 10 miliardi di euro e perché oggi la Lega prosegue il medesimo ostruzionismo

Quella sulle pensioni è una storica battaglia dei radicali: nel 2007, quando il governo Prodi sostituì l’innalzamento dell’età pensionabile (lo “scalone” introdotto dall’ex ministro del Welfare Roberto Maroni) con piccoli e blandi “scalini”, accontentando le istanze di Rifondazione e dei sindacati, fu la radicale Emma Bonino a minacciare le dimissioni ed opporsi a quella misura. La decisione passò comunque, con costi di 10 miliardi di euro, metà dei quali fatti pagare a lavoratori precari e parasubordinati. In parlamento i radicali hanno presentato proposte di legge, che portano anche la firma di parlamentari Pd come Pietro Ichino, che prevedono l’innalzamento dell’età pensionabile con un risparmio per lo Stato di almeno 7 miliardi di euro (più altri 2,3 miliardi di euro se si consentisse in via sperimentale e volontaria di proseguire i rapporti di lavoro oltre l’età minima, con rinnovi biennali).

Perché queste riforme restano nel cassetto della Camera? Roberto Cicciomessere, storico deputato radicale e autore di diversi studi su welfare, pensioni e politiche del lavoro risponde a Tempi.it, proprio mentre Silvio Berlusconi vola a Bruxelles con una “letterina” di 14 pagine di buoni propositi da presentare al Consiglio dei capi di Stato e di governo dell’Ue.

Cicciomessere, partiamo dall’attualità: come vede le proposte per l’occupazione, che sarebbero contenute nel prossimo decreto sviluppo?
Innalzare l’età pensionabile, da qui al 2020, non risolve i problemi. In Italia infatti è prevista la pensione di vecchiaia, che si vuole innalzare appunto a 67 anni, ma anche quella di anzianità, per coloro che hanno maturato 40 anni di contributi anche prima dell’età pensionabile: è su quest’ultima quindi che bisognerebbe intervenire per evitare di avere pensionati da 50 anni in su. Vanno bene invece le misure a costo zero come le liberalizzazioni. Tuttavia, per me è più utile incentivare le imprese, ecco perché bisognerebbe rimuovere il tappo dell’articolo 18, che rende inamovibili i dipendenti delle aziende che hanno più di 18 assunti.

L’intervento del ministro del Lavoro Sacconi nella finanziaria con l’introduzione dell’articolo 8 andava in questa direzione?

In parte: l’articolo 8 aiuterebbe con la flessibilità sui contratti “in entrata”, ma dovrebbe aggiungere ulteriori garanzie per l’uscita dei lavoratori dalle aziende.

Nella bozza del decreto sviluppo sarebbero previsti riduzione dei contribuiti sull’apprendistato, misure per frenare l’abuso di questa forma contrattuale, e misure per incentivare le assunzioni di disoccupati e delle donne. E’ sufficiente?
Mi sembrano misure sacrosante per frenare i contratti atipici, perché c’è un abuso reale dei tirocini, che servono a far lavorare le persone gratuitamente e non a formarle. Mentre gli incentivi alle imprese per l’occupazione non funzionano in sé: se non c’è domanda, se c’è un deficit di qualità e preparazione professionale, oltre che di qualità dell’istruzione in una parte del nostro Paese, cioè nel mezzogiorno, non si sviluppa il mercato e quindi neanche l’occupazione. Bisogna investire risorse sulla crescita, così come su innovazione e ricerca, temi strettamente legati al nanismo d’impresa. Se non cresciamo è anche perché le pmi, che rappresentano il 95 per cento del tessuto produttivo, non sono in grado di investire in ricerca e innovazione.

Perché in sintesi è così importante intervenire sulle pensioni per il rilancio dell’occupazione?

Esiste un problema di insostenibilità del welfare.Se aumenta la durata della vita media, aumenta anche la durata del pensionamento: non si può più pensare di andare in pensione a 60 anni, quando si vive sino ad 80. Si è creato un problema di trasferimento delle risorse all’interno della spesa per la protezione sociale (che riguarda le pensioni, ma anche la sanità, la famiglia, e le politiche del lavoro). In Italia infatti si spende tutto per pensioni e per sanità, mentre bisognerebbe sostenere più risorse su politiche del lavoro attive (la formazione, le attività di inserimento dei disoccupati attraverso centri per l’impiego, che in Italia oggi funzionano poco e male) e passive (sussidi di disoccupazione). In Italia si spende pochissimo anche per la famiglia, per i servizi dell’infanzia, creando ulteriori problemi all’occupazione femminile, che avrebbe ricadute positive per la crescita del Pil. Il punto è ritardare l’uscita dal mercato del lavoro, tenendo conto che l’Italia ha il più basso tasso di occupazione degli over 50.

La proposta messa in campo dai radicali si chiama welfare to work. Di che si tratta?
È un modello di welfare usato in tutti i mercati del lavoro europeo, in cui si collimano le politiche attive e passive del lavoro. È lo scambio tra lo Stato che dà un sussidio e il lavoratore disoccupato che si impegna a riqualificarsi (molto spesso la perdita del lavoro dipende non solo dalla crisi del lavoro, ma anche dalla scarsa disponibilità di formazione rispetto alle richieste del mercato del lavoro). Si riprende ciò che avviene nel Regno Unito: lì, quando si riceve il sussidio di disoccupazione, ci si impegna poi ad accettare tutte le proposte di lavoro che vengono fatte dagli uffici di collocamento, anche se diverse dalla posizione ricercata. Questo perché esiste anche il problema di aiuti troppo generosi che incentivano alla disoccupazione a lungo tempo, come in Spagna. Una buona formazione aiuta moltissimo a rendere la gente occupabile.

Qual è l’attuale situazione in Italia per la disoccupazione e il lavoro “atipico”?
In Italia non esiste un ammortizzatore universale che valga per tutti quelli che perdono un lavoro involontariamente. Esiste per coloro che sono sospesi per crisi aziendale, ed è la cassa integrazione. Poi c’è la disoccupazione ordinaria, con sussidi, che però non copre i contratti atipici. Da cinque anni c’è una delega al governo per la riforma degli ammortizzatori sociali, che però non è stata ancora fatta, solo dallo scorso anno è stato previsto un contributo per la disoccupazione, una tantum, per i contratti atipici. Sostanzialmente c’è un apartheid tra i lavoratori delle grandi imprese che hanno cig e mobilità che copre l’80 per cento dello stipendio; altri dipendenti che hanno una mobilità al 60 per cento del vecchio stipendio, e poi tutti i lavoratori a tempo determinato, gli atipici, e le cooperative che non hanno sussidi. Inoltre, noi abbiamo centri per l’impiego gestiti dalle province inefficienti. Intermediano solo il 3 per cento di coloro che trovano lavoro,  in Francia e Regno Unito invece si parla del 30-33 per cento. Il problema è dunque alla base: il “welfare to work” non funziona proprio perché la qualità dei centri per l’impiego è molto bassa. Servirebbe allora coinvolgere altri soggetti, privati o no profit, per colmare quest’ inefficienza. Invece in Italia, sostanzialmente, il lavoro si continua a trovare tramite amici, col passaparola.

La radicale Emma Bonino, il senatore Pietro Ichino (Pd) e altri, a settembre hanno denunciato la situazione del nostro mercato del lavoro alla Commissione europea. Alcuni dati: oltre 11 milioni sono i lavoratori subordinati regolari, di questi oltre 2 milioni con contratto a termine. Poi ci sono gli “irregolari”: d
ue milioni e mezzo di persone, più un milione e mezzo di collaboratori autonomi che in realtà lavorano in condizioni di effettiva dipendenza; quasi mezzo milione di “stagisti”, spesso usati come dipendenti, ma non pagati. Qual è la proposta dell’opposizione su questo?
La precarietà è troppo elevata, questo è indiscutibile. Così come c’è la necessità di flessibilità per le imprese. Ma la flessibilità da concepire è di due tipi: in entrata e in uscita. In entrata significa la possibilità di contratti a termine più leggeri per le imprese: quindi tempo determinato, o collaborazioni. Questo tipo di flessibilità crea oggi la condizione di un mercato duale: lavoratori inamovibili, a tempo indeterminato, e precari. Questo influisce negativamente sulla produttività, perché l’azienda che ha lavoratori precari, e quindi forti turn over, non investe nella formazione. C’è poi una flessibilità in uscita: il lavoratore precario oggi è scarsamente protetto, non ha contributi sociali (avrà pensioni bassissime) né contributi di inoccupazione. In Europa si parla di una soluzione: la flexsecurity, che coniuga flessibilità per le imprese e sicurezza per i lavoratori. Ed è questa la nostra proposta del welfare to work.

Perché la Lega chiude alla possibilità di riformare il nodo pensioni, esattamente come prima fecero Rifondazione e sindacati col Governo Prodi?
Il problema del Governo Prodi si ripropone, immagino, perché la maggior parte delle persone che hanno diritto alla pensione di anzianità sono al Nord, dove c’è più occupazione e quindi possibilità di maturare la pensione di anzianità. Quindi la Lega tutela solo i propri elettori.

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