
Caro Renzi, con la patrimoniale l’Italia affonda. Esiste una sola alternativa: il fondo tagliadebito
L’Italia non può ridurre gli oltre duemila miliardi di debito pubblico «facendo ricorso all’avanzo di bilancio, seguendo le regole del Fiscal Compact europeo». Così l’economista Paolo Savona, ex ministro dell’industria con il governo Ciampi, ha spiegato in un’intervista al Corriere della Sera, perché un fondo da mille miliardi dove collocare mobili e immobili pubblici per valorizzarli e gestirli con profitto è l’«unica strada» che rimane al Paese per abbattere lo stock di debito pubblico accumulato negli anni. Anche perché finanziarlo «con una riduzione della spesa pubblica o un aumento delle entrate ucciderebbe la crescita dell’economia». In particolare, secondo Savona, «una patrimoniale seria, dunque pesante, colpirebbe lo sviluppo, deprimendo le aspettative».
Tempi.it ha chiesto all’avvocato d’affari, con un importante background finanziario e fiscale, Stefano Morri di spiegare in cosa consiste questa proposta del fondo “tagliadebito” e perché al premier Renzi, e al Paese, conviene adottarla in fretta, se non vuole soffocare nel rigore, in attesa che il Pil torni a crescere da sé, ma senza fare nulla per aiutare la ripresa.
Il fondo “tagliadebito” è davvero l’unica alternativa alla patrimoniale?
In questo momento sì, non vedo altre soluzioni possibili. Il Paese è invischiato in un circolo vizioso dal quale è sempre più urgente uscire: da un lato, c’è il debito pubblico, che è ormai troppo elevato; dall’altro, lo Stato italiano è costretto, per ordine di Bruxelles, a produrre avanzi primari nei conti pubblici a tutti i costi, e ciò lo può fare o tagliando la spesa corrente o aumentando le imposte. Così, però, si genera la recessione. E la recessione genera, a sua volta, deflazione. Tutto ciò, poi, comporta un ulteriore aumento del debito in termini di valore reale, che costringe lo Stato a dover cercare un maggiore avanzo.
È il rigore nei conti che ci chiede l’Unione europea…
Esatto, ma non dimentichiamoci che molti economisti, soprattutto americani, sostengono già da tempo che la politica economica imposta all’Italia dalla Bce e dalla Germania è suicida. Se non vogliamo uscire dall’euro, una moneta che sta distruggendo la nostra economia, e non vogliamo la patrimoniale, il fondo è l’unica strada che ci rimane da percorrere.
Che differenza c’è tra il fondo e la patrimoniale?
Sono due interventi di natura profondamente diversa. Se l’Italia dovesse scegliere la patrimoniale, sarebbe come se una grande società, con un grande patrimonio ma anche un grande debito verso i suoi stessi azionisti, si rivolgesse a loro per chiedere un aumento di capitale. Che cosa pensa che risponderebbero gli azionisti, e dunque, nel caso dell’Italia, i cittadini? Semplice, pretenderebbero che si vendesse il patrimonio o, se la vendita fosse troppo complicata e non conveniente, pretenderebbero che si assegnasse a loro questo patrimonio contro la riduzione del debito. La patrimoniale, oltretutto, essendo la tipica manovra di uno Stato non liberale, darebbe un segnale devastante ai mercati e agli operatori economici, affermando soltanto il potere di una burocrazia, peraltro sempre più formalistica e ormai priva di qualsivoglia capacità di innovazione.
Al governo Renzi, dunque, non resta che scegliere il fondo?
È una decisione che l’esecutivo non può evitare: o l’Italia esce dall’euro o fa quadrare i conti, perché così non si può più andare avanti. E se persino l’ex Ragioniere generale dello Stato, Andrea Monorchio, ha ipotizzato la possibilità di una riduzione del debito senza ricorrere alla patrimoniale, ciò significa che nei palazzi del potere qualcuno ha perlomeno cominciato a pensare all’idea di istituire un fondo. Il fatto, però, è che, mentre lo Stato pretende dai cittadini la massima trasparenza nei suoi confronti, altrettanto non fa nei loro. Quindi non sappiamo a quanto realmente ammonta il patrimonio pubblico, mobiliare immobiliare, e presso quali soggetti è allocato. Tutto ciò rende l’esercizio del controllo di cittadinanza sul potere pubblico difficile. È come se il più grande capitalista italiano si comportasse come un soggetto opaco che non risponde ai suoi azionisti.
Si dice che il fondo possa far recuperare 1.000 miliardi di euro…
Data l’immensità del patrimonio pubblico italiano, frutto di decenni di accumulazione in quello strano ircocervo che è sempre stata la nostra economia “mista”, si può ritenere non campata per aria l’ipotesi di recuperare 1.000 miliardi di euro con il fondo. Dopotutto, stiamo parlando di immobili, e cioè di caserme, scuole, ospedali, uffici pubblici, musei, ma anche di valori mobiliari, come le azioni nelle società pubbliche, e, infine, delle concessioni sui beni pubblici, dall’etere alle spiagge.
Come si fa a valorizzare questo immenso patrimonio?
Creando, appunto, un fondo, o meglio, per essere più tecnici, una o più società di scopo, quelle che Savona chiama New.co, che acquistino da stato ed enti pubblici i beni individuati. Il pagamento avverrà in parte emettendo azioni (equity) e in parte obbligazioni a lungo termine. Lo Stato, concentrerà queste obbligazioni nelle sue mani e le scambierà con i titoli del debito pubblico, che, in tal modo, si ridurrà. Le obbligazioni in mano alle New.co risulteranno sicuramente gradite agli investitori perché controgarantite da beni reali e non soltanto dalla promessa di pagamento da parte di uno Stato ormai in evidente difficoltà.
C’è chi teme che il patrimonio pubblico corra il rischio di essere svenduto.
È esattamente il contrario: con questa manovra il patrimonio non viene svenduto ma trasferito ai suoi legittimi proprietari: i cittadini dello Stato italiano. Svenduto è, semmai, il patrimonio oggetto di privatizzazioni frammentarie e senza respiro.
Come farà lo Stato a usare gli immobili venduti al fondo?
È semplice: pagando l’affitto.
Ma allora aumenta la spesa corrente…
Certo, aumenterà la spesa corrente ma al contempo si ridurrà quella per interessi, per effetto del combinato disposto di due fattori: primo, il venir meno di una quota così imponente di debito pubblico; secondo, la riduzione del costo degli interessi sul debito residuo per effetto del miglioramento del rating da parte delle agenzie. Sono sicuro che questi due risparmi equivalgono al costo degli affitti. E c’è di più.
Che cosa?
Il problema non è nemmeno la misura assoluta del debito italiano (2.168,4 miliardi, ndr), bensì il suo valore in rapporto al Pil (135,2 per cento). Il dramma italiano, infatti, è che da anni il Pil si è inchiodato e non cresce più. Ciò fa sì che si riduca agli occhi degli investitori la nostra capacità di rimborsare il debito. La manovra appena descritta avrebbe una straordinario impatto produttivo sul Pil.
In che modo?
Anzitutto consentirebbe di emettere nuovo debito. Sembra paradossale, me ne rendo perfettamente conto, ma non lo è. Sto parlando, infatti, del debito per ammodernare il Paese da un punto di vista infrastrutturale. L’Italia è un Paese fermo, da questo punto di vista, da ormai due decenni, mentre abbiamo bisogno di adeguarci agli standard dei Paesi più evoluti. Per questo ci sono da fare decine di miliardi di investimenti, che avrebbero un effetto importantissimo sulla nostra crescita. Ma non solo. L’abbattimento del debito consentirebbe anche il taglio delle imposte, il che darebbe un ulteriore stimolo alla nostra industria e ai consumi. Quindi, ulteriori effetti positivi sul Pil.
Perché, allora, tutti parlano del fondo, ma nessuno lo fa?
Per la stessa ragione per cui qualsiasi governo, compreso quello di Renzi, fa così fatica a far passare le riforme di cui da sempre si parla. In questo Paese, c’è una classe burocratica che conta svariate centinaia di migliaia di persone, ben collocate nei gangli dell’amministrazione pubblica, che vive sulla gestione improduttiva del patrimonio pubblico e sull’intermediazione del debito. Questa classe si opporrà sempre al cambiamento perché si vedrebbe sottrarre la base stessa del suo potere. Infatti, con il fondo, il patrimonio pubblico non sarà più gestito dalla burocrazia, ma da operatori specializzati, scelti attraverso gare internazionali e motivati a ottenere risultati sia in termini di rendimento sia di riqualificazione. Sarebbe un cambiamento epocale, una vera rivoluzione.
Articoli correlati
6 commenti
I commenti sono chiusi.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!
Esiste la possibilita di finanziare il debito italiano ricorrendo a una banca pubblica operante secondo il punto 2 dell’art. 123 TUE .
classe dirigente industriale, formazione continua e legata strettamente al lavoro, giustizia da rifare e abbattimento spesa corrente (non debito pubblico) affidando i servizi con bando invece che allo stato(l’unico che l’ha capito è bonanni), tagliando così le tasse. tutto questo si chiama rivoluzione culturale: da una mentalità statalista ad una sussidiaria. ci risentiamo tra una generazione e dopo una bancarotta e un deserto industriale. che Dio abbia pietà di noi.
Aggiungerei anche la sistematica difesa del “posto di lavoro” e non del “lavoro”.
Il futuro? In attesa di un improbabile (se non impossibile) aumento del PIL passeremo dal periodo “ideologico” alla “bancarotta” e dalla “bancarotta” al periodo “pragmatico”. Speriamo che il tutto sia meno indolore possibile…
Quanto é facile dire quattro parole su quel che si dovrebbe fare… Ma forse c’é un problema all’origine la cui soluzione chiarirebbe circa le prospettive del futuro. Perché il nostro Paese non riesce più a fare la differenza in termini puramente economici? Ho come l’impressione che la tanto decantata “scusa” della mancata innovazione e il mancato stare al passo coi tempi siano solo parti della causa… e forse le meno importanti.