«Italia sì, Italia no», cantavano Elio e le storie tese nel 1995, quando ancora gli stipendi si percepivano in milioni e essere milionari non era poi così difficile. Allora la Banca d’Italia stampava moneta, talvolta si adoperava a stamparne un po’ di più per permettere alle imprese italiane di incrementare l’export e di ottenere qualche guadagno aggiuntivo con le transazioni internazionali: un mondo che ormai è classificabile come “un’altra epoca”. «Euro sì, euro no», si dovrebbe invece canticchiare oggi, volendo racchiudere in un motivetto l’enorme dibattito che nel dodicesimo compleanno della moneta unica europea imperversa un po’ in tutte le nazioni aderenti al sistema, che sono diventate 18 dopo l’ingresso della Lettonia il 1° gennaio scorso.
Euro sì, euro no. Alcuni sono convinti che la valuta comune introdotta nel 2001 è la causa di tutti i mali e sognano di brandirne lo scalpo quanto prima. Per altri è al contrario una conquista da difendere a qualunque costo: le conseguenze dell’abbandono dell’euro e del ritorno alla moneta nazionale si ripercuoterebbero nel nostro paese sia in termini di shock iniziale sia in un periodo più esteso. Ma è proprio sugli effetti di un’eventuale fine dell’euro che si dividono gli scienziati dell’economia. «Dopotutto – ricorda a Tempi Simona Beretta, professore ordinario di politica economica all’Università Cattolica di Milano – la scienza medica ha tremila anni e, nel migliore dei casi, sa bene di non sapere. Dunque anche la scienza economica, che di anni ne ha solo trecento, quando parla del futuro farebbe bene a non dimenticare quanto non sa».
Proprio per questo, a proposito della moneta unica, la professoressa preferisce «partire dalle poche cose che si sanno». E tra queste sparute certezze vi è certamente la consapevolezza che «la ricchezza delle nazioni non dipende dal loro denaro, neanche se fosse oro puro, ma da quattro elementi profondamente umani: le risorse, tra le quali quella fondamentale è il lavoro, poiché le cose diventano risorse solo quando l’uomo attraverso il lavoro umano impara a riconoscerle come tali; la tecnologia, cioè la conoscenza di come si possono soddisfare i bisogni umani; le preferenze, ossia riconoscere le motivazioni per cui si agisce, che comprendono tanto la soddisfazione immediata quanto un desiderio che riguarda il futuro anche lontano. L’ultimo ma non meno importante elemento sono le istituzioni, che sono espressione del modo consolidato con cui una comunità si organizza. Risorse, tecnologia, preferenze e istituzioni determinano lo sviluppo, oppure la stagnazione e il declino».
Giacomo Vaciago, a sua volta docente alla Cattolica, monetarista di lungo corso e conosciuto anche per avere occupato la poltrona di sindaco a Piacenza negli anni Novanta, messo di fronte alle istanze favorevoli all’uscita dell’Italia dall’euro non resiste alla tentazione di una battuta ironica: «Come si fa a uscire da qualcosa che non c’è?». Allo stesso tempo, però, il professore spiega anche che l’indice andrebbe puntato piuttosto su «un dato che con l’euro non c’entra nulla: il nostro paese non cresce nella produttività da 15 anni e tale valore è riconducibile ai tanti sprechi che abbiamo visto in questi anni». Sono gli sprechi e i vizi che ci distanziano dai paesi più efficienti di noi, sottolinea Vaciago.
E qui ogni riferimento alla solita Germania non è affatto casuale: «L’euro funziona da lente di ingrandimento, aiuta a individuare anomalie e pregi dei vari paesi. È evidente che nelle realtà efficienti l’euro ha contribuito all’espansione dell’economia, mentre nelle nazioni meno evolute ha contribuito al declino. A soffrire maggiormente infatti sono stati i paesi che non hanno capito che con la moneta unica bisognava mettersi a correre». Per l’ex sindaco di Piacenza dunque «non è condivisibile il giudizio di coloro che auspicano l’uscita dall’attuale sistema monetario come la panacea di tutti i mali: i nostri vizi ed errori continuerebbero ad esistere. Con o senza moneta unica».
Il pericolo inflazione
Di opposta opinione è Alberto Bagnai, professore associato all’università di Chieti-Pescara, da tempo in prima fila su diversi fronti nella battaglia contro la valuta continentale: «La dissoluzione dell’euro – spiega a Tempi – permetterebbe ai paesi membri di tornare a competere in termini non falsati, visto che invece attualmente l’euro è per la Germania una lira mascherata e per l’Italia un marco mascherato. Inoltre, rimuoverebbe gli incentivi perversi che l’integrazione finanziaria ha determinato sia per i paesi deboli (drogati dal credito facile), sia per quelli forti (drogati dalle esportazioni facili). Nel breve periodo si avrebbe un rilancio della domanda estera per noi, e della domanda interna per i paesi del Nord, quindi una crescita più bilanciata per tutti, e l’Unione Europea, da gioco a somma zero, potrebbe ridiventare un gioco a somma positiva».
Beretta però, pur specificando che «la moneta perfetta non esiste, come non esistono le istituzioni umane perfette», ribatte idealmente a Bagnai che l’euro resta tuttavia il «meno peggio» per l’Italia, e che perderlo significherebbe per il Belpaese ritrovare una vecchia, pericolosa conoscenza: l’inflazione. «Se tornassimo a battere sovranamente moneta in questa società italiana, con le sue posizioni di rendita e le sue rivendicazioni, sperimenteremmo di nuovo la grande ingiustizia dell’inflazione, che come è noto danneggia soprattutto i gruppi sociali più deboli, ossia quelli che perderebbero la corsa politica al rialzo dei propri diritti economici».
La frattura fra le tre Italie
Il problema di una società spaccata tra sempre più ricchi e sempre più poveri è rilevato anche da Vaciago, che vede già convivere difficoltosamente tre Italie differenti: «La prima appartiene a coloro per cui l’economia non è mai andata così bene grazie alla forte capacità di esportare, poi c’è un terzo del paese disperato e un’ultima parte che spera di arrivare al prossimo anno. Ai due terzi dell’Italia quindi le cose non vanno bene, e un’eventuale uscita dall’euro non farebbe che accentuare la spaccatura tra chi se la cava e chi no».
Ad alimentare la disputa sulla moneta unica ha contribuito nelle settimane scorse la notizia che paesi come la Spagna e l’Irlanda, nazioni di Eurolandia travolte dalla crisi del debito al punto da essere inserite nell’aggregato dei malmessi “Pigs” insieme a Portogallo e Grecia, oggi registrano segnali di uscita dalla recessione grazie alle politiche adottate. Perché invece noi italiani non siamo stati capaci di risorgere come irlandesi e spagnoli? Per Vaciago la colpa è dei governi chiamati fin qui a fronteggiare la crisi: «Nel 2009, anziché ammettere l’esistenza di un problema e rimboccarsi le maniche, per due anni abbiamo continuato a dire che i ristoranti erano pieni e i conti erano in ordine, migliori di quelli di Grecia, Spagna e Irlanda. È inevitabile che usciremo dalla crisi con un fisiologico ritardo. Anche perché successivamente, nel biennio 2011-2012, con l’economia in seria difficoltà, noi abbiamo stretto la morsa causando un 2013 tremendo, con troppe persone che hanno perso il lavoro. Non ci dobbiamo quindi stupire che Irlanda e Spagna inizino a vedere segnali di miglioramento prima di noi. Sono convinto che il loro 2014 sarà migliore del nostro».
Fuori solo Berlino?
Secondo Bagnai invece i risultati annunciati da Spagna e Irlanda sono solo movimenti pre-elettorali: «Prima di un voto conviene dare agli elettori una visione edulcorata della realtà, e per questo si usa una tecnica di informazione risaputa: si misurano i presunti successi di politiche sbagliate con riferimento al picco negativo che esse hanno determinato, anziché alla situazione precedente. Abbiamo sentito così dire (seriamente) che la Spagna sta uscendo dal tunnel perché si prevede che la sua disoccupazione scenderà dal 27 al 26 per cento. Non lo direi a uno spagnolo, il quale sa che durante la crisi la disoccupazione è aumentata di quasi 19 punti, e vede che le stime del Fondo monetario internazionale la danno sopra al 25 per cento fino al 2018».
Ma nel dibattito “euro sì, euro no” è stata considerata anche un’altra ipotesi di extrema ratio, la fuoriuscita della Germania dalla moneta unica. Una manovra che secondo Vaciago avrebbe effetti sconvolgenti innanzitutto nei settori industriali, in particolare coinciderebbe con la svendita ai tedeschi del sistema produttivo più importante d’Italia che comprende la Lombardia e il Piemonte fino ad arrivare a Bologna. La Germania economica infatti arriva fino alla Ducati, che è di proprietà tedesca. «I tedeschi ci stanno comprando, farli uscire dall’euro significherebbe regalare loro tutta la pianura Padana, perché far uscire la Germania dalla moneta unica vorrebbe dire far svalutare la parte italiana già tedesca. Su questa vicenda molta gente parla senza aver studiato, e ovviamente a nessuno è proibito parlare e prendere posizione, ma è bene sapere che l’ex indotto Fiat del torinese ormai è diventato indotto Volkswagen e sulla via Emilia le industrie chimiche e meccaniche sono entrate nella filiere produttive tedesche».
Di parere contrario Bagnai: «L’uscita dall’euro verso una valuta forte genererebbe meno tensioni sui mercati. Il principale vantaggio, di ordine psicologico, sarebbe questo. Per il resto, i benefici sarebbero uguali a quelli di uno sganciamento dei paesi del Sud: aumenterebbe il potere d’acquisto dei cittadini del Nord sui mercati esteri, fra i quali il nostro, e verrebbero svalutati i nostri debiti nei confronti dei creditori del Nord. Certo questo alle loro banche non piacerà, ma si consideri che nei paesi di successo, come l’Irlanda e l’Olanda, non si contano i casi di banche che si sono rifiutate di rimborsare creditori esteri (ad esempio la Sns olandese o la Bank of Ireland)».
Secondo Beretta, infine, chi delinea come un epilogo auspicabile della crisi un addio di Berlino all’euro più che immaginare un buon futuro sta ignorando un brutto passato. «Con l’adozione del “nuovo marco” – spiega la professoressa – tutti i partner della Germania (e l’Italia è uno dei più importanti) sarebbero incentivati a trattare almeno tre monete: l’euro, il dollaro e il nuovo marco. Niente di nuovo: sarebbe una sorta di riedizione degli anni Settanta, anni che chi ha vissuto ricorda come “i difficili anni Settanta”. I paesi rimasti a utilizzare l’euro dimezzato si troverebbero con una moneta meno interessante perché meno diffusa e forse anche meno stabile; dovrebbero gestire un mercato dei cambi largamente fuori dal loro controllo perché la gran parte della produzione e della ricchezza è altrove, e finirebbero per essere esposti ad attacchi speculativi difficili da resistere. Non mi sembra uno scenario allettante».