
In Burkina Faso gli islamisti vogliono la guerra interreligiosa

Pubblichiamo l’intervento che monsignor Théophile Nare, vescovo di Kaya, Burkina Faso, ha tenuto durante la presentazione del Rapporto 2023 sulla libertà religiosa di Aiuto alla Chiesa che soffre, giovedì 22 giugno a Roma.
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Il Burkina Faso è una piccola nazione di circa 280 mila chilometri quadrati ed oggi è noto come il paese “dei tre confini” perché le sue frontiere con il Mali e il Niger costituiscono il focolaio del terrorismo.
Fu evangelizzata nel 1900 con l’arrivo dei Padri Bianchi dalla Francia e oggi i cristiani sono circa il 24 per cento, raggruppati in 15 diocesi, mentre la religione di maggioranza è l’islam con circa il 60 per cento di seguaci.
Nonostante la grande diversità religiosa, le varie comunità del paese, nel passato, hanno sempre mantenuto buoni rapporti tra di loro. La Chiesa è stata la prima istituzione a fornire alla popolazione strutture educative, sanitarie ed enti preposti alla protezione dei diritti umani.
Il paese vittima dell’estremismo islamista
Dalla fine del 2015, tuttavia, il livello della sicurezza nel mio paese è precipitato: i violenti attacchi jihadisti nelle regioni di confine tra Burkina Faso, Mali e Niger hanno avuto conseguenze devastanti rendendo debole e vulnerabile la coesione sociale e il conflitto dai confini si è esteso fino all’entroterra.
In quasi tutta la nazione è all’ordine del giorno il terrorismo di matrice islamista, il cui modus operandi si traduce nelle espulsioni della gente dai propri villaggi, in rapimenti, sequestri, massacri contro la popolazione civile… Il territorio è controllato per quasi il 60 per cento dagli attori di questa atroce tirannia. Abbiamo ormai una associazione a delinquere nella quale l’estremismo islamico fa da copertura a banditi, ladri e malfattori di ogni tipo. Perciò la gente li chiama “Uomini Armati Non Identificati”.
Le autorità hanno tardato a riconoscere la portata della minaccia estremista e sono state incapaci di affrontare il male nelle sue radici: la povertà e il risentimento di una parte della popolazione e di alcune regioni del paese persuasi di essere abbandonati dallo Stato, la cupidigia dei dirigenti e la corruzione, il malessere della gioventù privata di diritti e di prospettive future, le preesistenti ostilità intercomunitarie tra pastori e agricoltori per motivi legati alla terra, ostilità strumentalizzate da politici assettati di potere e praticanti del principio ben conosciuto: “dividere per dominare”… Questi sono i problemi di fondo che hanno favorito ed alimentano ancora la frustrazione della popolazione e le opportunità di reclutamento dei “jihadisti”.
L’impatto delle violenze jihadiste in Burkina Faso
Inizialmente si credeva che gli estremisti fossero stranieri ma nel tempo si è scoperto che tra di loro non mancano molti giovani Burkinabé e anche elementi radicalizzati che incitati da predicatori che promuovono un’ideologia di jihadismo salafita, attaccano sia le autorità statali, militari e di polizia, sia i civili, i leader religiosi e i fedeli cristiani e anche i musulmani moderati. Ne hanno uccisi tanti… Tutto ciò non fa altro che indebolire e logorare il tessuto sociale. La stabilità delle istituzioni viene sempre meno. Lo scorso anno, dal 23 gennaio al 29 settembre, il Burkina Faso ha subìto, nello spazio di 8 mesi, due colpi di Stato, chiaramente segno di instabilità politica e istituzionale.
Oggi, sebbene i leader religiosi e politici cerchino di mantenere le relazioni interreligiose tra i gruppi di fede, forte è il timore per l’impatto che le violenze jihadiste potrebbero avere a lungo termine e per le ulteriori divisioni che potrebbero crearsi all’interno della società Burkinabé. Sembra chiaro, infatti, che gli estremisti vogliano scatenare un conflitto interreligioso. Hanno provato altri schemi malvagi senza successo: lo schema “regionalista”, lo schema “etnicista”, adesso lo schema “religioso”.
Una diocesi sotto attacco
Anche la mia diocesi, nel corso degli ultimi anni, è stata bersaglio di diversi attacchi terroristici che hanno causato vittime innocenti tra sacerdoti e laici. In tutto il paese abbiamo pianto migliaia di morti e a oggi sono quasi 2 milioni gli sfollati. A Kaya, tendopoli fatiscenti circondano la città e la popolazione in pochi mesi si è più che triplicata… le condizioni di vita dei profughi sono davvero dure. La Caritas diocesana è più che attiva con una solidarietà indiscriminata che accoglie tutti, cristiani, musulmani, praticanti di altre religioni.
Stiamo davvero vivendo una situazione estremamente difficile, il terrore si diffonde all’interno della comunità cristiana che a Kaya è nettamente inferiore a quella musulmana. I jihadisti hanno sempre la Chiesa nel mirino: non gradiscono la sua influenza sociale e la costante ricerca di una linea di dialogo e ambiscono a provocare una guerra di religione. Grazie a Dio non siamo caduti nella loro trappola.
Si spera che lo Stato continui a difendere e a promuovere la laicità positiva e ci si augura che la comunità internazionale prenda atto di quanto sta accadendo: la minaccia per la Chiesa cristiana non viene solo dagli estremisti musulmani ma anche dai Kamiti, fondamentalisti delle tradizioni culturali africane. Ce l’hanno con tutte le religioni rivelate, ma più di tutte contro il cristianesimo considerato responsabile della distruzione delle culture dell’Africa e quindi della sua autenticità e indipendenza. Questo è un movimento che cresce negli ambienti colti come le università… il rischio che si corre è quello dell’eliminazione della presenza cristiana dai nostri paesi e forse, in futuro, anche dall’intero continente.
Da soli non possiamo farcela
Noi, pastori del popolo di Dio, siamo tra la gente per consolare, infondere coraggio e alleviarne le pene. Invitiamo continuamente i nostri fedeli a pregare incessantemente per la riconciliazione, la giustizia e la pace. La nostra attività pastorale non si ferma, nonostante le difficoltà, abbiamo promosso varie iniziative costruttive: Congresso missionario (2020), incontri di dialogo interreligioso, Forum per la sicurezza e la pastorale nella Chiesa (2022), Plaidoyers sull’iniziativa per la pace nella regione del Sahel (2023)… Cerchiamo di agire per preservare la libertà di vivere, di pensare, di credere. Comunque, siamo coscienti che da soli non potremo farcela ed è importante far conoscere quanto sta accadendo in Burkina Faso che oggi vede calpestata la libertà religiosa, così come avviene purtroppo in molte altre nazioni del mondo.
Siamo grati alla Fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre che da molti anni sostiene la Chiesa nel mio paese promuovendo un “ritorno alla vita” per le vittime della violenza islamista e per gli sfollati. In particolare, la Fondazione sta finanziando alcuni progetti miranti alla cura dei traumi e altri che favoriscono la comunicazione, lo scambio di informazioni e il lavoro pastorale tra la gente che è stata costretta a fuggire per salvarsi la vita.
Auspico che chi può si attivi in tutte le sedi proprie, internazionali e nazionali, per tutelare il fondamentale diritto alla libertà religiosa di tutti, cristiani, musulmani e di ogni altro gruppo religioso.
Non si può né si deve più tacere!
Grazie
(Foto Acs)
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