«Non è totale ma va benissimo. Vado in Uruguay a marzo». Così Emma Bonino ha commentato l’approvazione al Senato di Montevideo della legalizzazione della marijuana: si potrà coltivare in casa o acquistare in farmacia, e lo Stato seguirà l’intera catena, dalla produzione al consumo.
Non è chiaro se l’annuncio del ministro degli Esteri italiano sia una conseguenza dell’aver reso l’“erba” libera o sia una coincidenza. È chiaro invece che la scelta dell’Uruguay è diventata occasione per il rilancio in Italia della modifica della legge sulla droga: la Commissione Giustizia della Camera ha avviato una indagine conoscitiva, affidandone la relazione all’antiproibizionista Daniele Farina, di Sel, animatore del Leoncavallo di Milano, mentre i media si chiedono perché non anche da noi. Riesumando argomenti vecchi di decenni: lo spinello non fa male, e quand’anche facesse male, ognuno decide della propria salute senza intromissioni dello Stato.
Bisognerà riprendere un lavoro culturale, sociale e politico. Per spiegare, dati alla mano, che non va ripristinata la distinzione fra droghe pesanti e leggere, semplicemente perché è falsa: dove è la “leggerezza” della “canna” nel momento in cui il Thc, il suo principio, è oggi venti volte superiore che negli spinelli di un quarto di secolo fa, che pure non erano innocui? E per ricordare, circa la pretesa libertà di autodistruggersi, che nessuno ha mai contestato la legge che impone il casco alla guida delle moto. Perché la Costituzione e il buon senso apprezzano il principio di solidarietà, che si articola in diritti (per esempio di ricevere cure in caso di difficoltà) e in doveri: nel momento in cui io ledo di proposito la mia salute, mi sottraggo all’adempimento dei quei doveri, e costringo le istituzioni a impiegare risorse per soccorrermi. Perché l’identica logica non dovrebbe valere anche per gli stupefacenti?