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Volete un welfare moderno? Usate il sistema dei vaucher e delle doti

Secondo Stefano Colli Lanzi, ad di Gi Group, «dobbiamo superare la dualità del mercato del lavoro e la Fornero si muove nella giusta direzione. Gli ammortizzatori sono positivi e hanno avuto un ruolo importante. E la posizione dei sindacati è comprensibile. Purché si sviluppino politiche attive e flessibilità in uscita».

Chiara Rizzo
25/01/2012 - 10:07
Interni
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Il ministro al Welfare, Elsa Fornero, ha incontrato le parti sociali per discutere dei provvedimenti da adottare per il mercato del lavoro. Sul tavolo ci sarebbe il contratto unico al posto dei 48 contratti oggi esistenti in alternativa a quello indeterminato, poi la riforma degli ammortizzatori sociali, con un reddito minimo garantito (presente nella maggior parte dei paesi dell’area euro, ma non in Italia) per chi perde il lavoro al posto delle attuali cassa integrazione straordinarie e ordinarie e della mobilità. Infine la riforma vorrebbe disincentivare le forme contrattuali a tempo, fissando un salario minimo per i contratti a tempo determinato (svantaggiati dal punto di vista della sicurezza) di 25 mila euro. Al termine dell’incontro con il ministro Fornero, il leader della Cgil Susanna Camusso ha però fatto sapere che «le parti sociali al tavolo sono tutte d’accordo sul fatto che non si può superare la cassa integrazione straordinaria», e il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, le ha fatto subito eco, dicendo che «gli attuali ammortizzatori possono essere una chance molto importante anche per il futuro». Nei giorni scorsi invece era stata registrata l’apertura della Uil di Luigi Angeletti sul contratto unico. Tempi.it ha chiesto un parere sulle proposte di riforma della Fornero a Stefano Colli Lanzi, amministratore delegato dell’agenzia per il lavoro Gi Group (e vicepresidente di Assolavoro).

Quali a suo avviso sono i punti di forza e quali i punti deboli del contratto unico?
Io farei un passo indietro. Per inquadrare il tema della riforma del lavoro e dell’eventuale applicazione del “contratto unico” mi sembra fondamentale partire da una breve analisi della situazione in cui ci troviamo. Abbiamo, oggi, il gravissimo problema di trovarci all’interno di un sistema dualistico, e quindi iniquo, per cui alcuni – spesso i meno giovani – sono all’interno del mercato del lavoro e altri – i più giovani – fuori. Questa circostanza contribuisce a generare due fattori negativi per tutti. Primo: una grave improduttività a fronte di bassi salari, che conduce nel tempo all’insostenibilità della situazione per tutte le parti in gioco. Secondo: un’insicurezza devastante soprattutto per i più giovani che restano fuori dal mercato del lavoro e per chi non riesce più a rientrarvi. Questo fatto costituisce un’ulteriore segnale dell’incapacità del nostro sistema ad investire e comporta una grave interruzione della catena di solidarietà intergenerazionale. Il tema da affrontare e risolvere è quindi questo dualismo, non tanto quello del mantenimento o meno dell’articolo 18. Il contratto unico è un possibile strumento utile a questo scopo: è necessario però leggere nel dettaglio come verrà concepito. Con la proposta Boeri-Garibaldi, ad esempio, ci si avvicina allo scopo di rendere flessibile il contratto di lavoro ma il rischio è che, così configurato, si posticipi semplicemente il problema di tre anni. Abbiamo purtroppo vari esempi in questo senso: nella somministrazione c’è l’obbligo di stabilizzare a certe condizioni dopo tre anni presso l’azienda; l’esito è che molti lasciano a casa il lavoratore dopo tre anni.

E che differenze ci sarebbero invece con il testo unico dell’apprendistato, fortemente voluto dall’ex ministro Maurizio Sacconi?
Il contratto di apprendistato è caratterizzato dal fare formazione. Se viene usato come contratto d’inserimento per poi lasciare a casa la persona senza investire su formazione efficace, evidentemente non va bene. Non è qui che si deve cercare la flessibilità. Sono due cose diverse. La differenza tra contratto unico e contratto di apprendistato è certamente che quest’ultimo si può rescindere solo a scadenza, ma soprattutto che l’apprendistato è un contratto esplicitamente formativo, dove l’investimento da parte dell’imprenditore in formazione, se ben fatto, è cospicuo: è anche per questo che non viene prevista una cifra da destinare alla persona in caso di decisione di non continuare la collaborazione dopo aver assolto l’obbligo formativo, che comunque costituisce una qualifica utile per l’apprendista. Contratto unico e apprendistato non sono in contrapposizione, sono anzi entrambi potenzialmente molto utili se ben utilizzati.

Il ministro Fornero vorrebbe introdurre anche i contratti a termine con salari minimi da 25 mila euro. Cosa ne pensa?
Questa ipotesi, da quanto si apprende, è legata al fatto che si vogliono mantenere contratti a termine solo in caso di professionalità elevate. Si ritiene probabilmente che la flessibilità sia compatibile o con una certa professionalità o con effettive esigenze di stagionalità e picchi di lavoro. Ed è probabilmente per questo che si introduce una cifra minima: per disincentivare all’utilizzo di contratti a termine ed eventuali abusi. Attenzione però: le aziende hanno bisogno di lavoro a termine anche sotto la soglia retributiva indicata. Se invece si intende che le aziende devono avvalersi di più delle agenzie per il lavoro per il contratto in somministrazione affinché le persone siano pienamente garantite, allora che i contratti a termine diretti siano ridotti è un’indicazione da prendere sul serio. Credo però che più che una cifra minima la soluzione stia in una corretta concezione dell’utilizzo dei contratti a termine, nell’ambito di una riforma completa, come accennavo nella prima risposta. Vorrei sottolineare che il contratto a tempo indeterminato deve essere concepito e realizzato per attrarre le imprese al suo utilizzo, rendendolo il “sistema normale” della relazione lavorativa. Invece l’odierno contratto a tempo indeterminato, a causa dell’inamovibilità a cui spesso conduce, non incentiva l’azienda a questa scelta e costituisce una forte causa del dualismo. La storia insegna che l’inamovibilità del singolo non aiuta gli investimenti perché tende a deresponsabilizzare la persona e spaventa l’azienda. Il punto di forza delle persone nel mercato del lavoro non è costituito dall’inamovibilità del contratto ma dalla propria occupabilità. A livello di sistema bisogna dunque puntare a creare risorse più occupabili, produttive e responsabili.

Come sostenere allora un livello adeguato di sicurezza per il lavoratore, in un mondo flessibile?
Rafforzando le politiche attive ed in particolare il supporto alla ricollocazione professionale, coinvolgendo le aziende in una logica assicurativa attraverso l’utilizzo di fondi interprofessionali secondo una concezione per cui chi, in qualche modo, crea il problema contribuisce anche a risolverlo facendosene carico. Il tutto insieme a politiche di sostegno al reddito opportunamente limitate nel tempo e chiaramente rivolte ad una responsabilizzazione delle persone; la finanziabilità di queste necessarie iniziative deve derivare da imprese, enti previdenziali e pubblica amministrazione. Le politiche attive andrebbero concepite in una logica di collaborazione pubblico-privato per supportare innanzitutto la ricollocazione di quei lavoratori che non hanno “sponsor”, o perché non hanno un contratto stabile o perché si trovano all’interno di aziende fallite (e dunque non in grado di attivare servizi di outplacement). In questi casi sistemi quali i voucher o le doti, sperimentati da diverse amministrazioni locali e basati sulla premialità dei risultati raggiunti, se rivolti a soggetti ben identificati e corresponsabilmente coinvolti, rappresentano casi di successo e dunque indicano una strada da perseguire per un welfare moderno. A patto che vi sia un’accurata selezione di interlocutori competenti, autorizzati e monitorati nel tempo. Analogamente potrebbero essere realizzati interventi per orientare i giovani anche con l’utilizzo di risorse pubbliche. Anche in questo caso dovrebbero però essere adottate logiche di premialità. Con un contratto a tempo indeterminato in grado di consentire una certa mobilità delle risorse nel mercato del lavoro diminuirebbe la necessità di utilizzo di forme diverse di contratto per gestire i rapporti di lavoro dipendenti. Verrebbero così meno forme di lavoro non subordinato, spesso usate impropriamente e a discapito delle persone, col solo obiettivo di spendere di meno e non incappare nel problema dell’inamovibilità delle risorse. Gli impieghi a termine a questo punto potrebbero essere utilizzati solo per esigenze effettivamente temporanee e le Agenzie per il Lavoro svolgerebbero sempre più l’importante ruolo di garantire al lavoratore temporaneo un adeguato supporto allo sviluppo professionale e di carriera che l’azienda utilizzatrice non sarebbe in grado di perseguire. Una maggiore flexicurity significa la possibilità per tutti di accedere a percorsi professionali in una prospettiva di continuità anche dove il presupposto del rapporto di lavoro è temporaneo.

Cosa ne pensa del reddito minimo di disoccupazione?
Penso che il punto di forza sia sicuramente un aiuto al reddito in momenti difficili per la persona. Attenzione però che l’applicabilità di una tale soluzione deve andare di pari passo con l’effettiva capacità dello Stato di far funzionare le politiche attive, cioè di investire risorse perché realtà specializzate affianchino le persone per ridurne al minimo i tempi di non occupazione. Inoltre il reddito minimo di disoccupazione deve durare un tempo massimo, salvo anomalie particolari. Altrimenti il rischio è che si ricada nell’assistenzialismo. Bisogna inoltre che vi siano efficaci controlli su eventuali rinunce di opportunità da parte dei lavoratori.

Andiamo verso il salario minimo garantito, offerto da altri paesi d’Europa, e ulteriori ammortizzatori?
Gli ammortizzatori sono positivi e hanno avuto un ruolo importante. E la posizione dei sindacati è comprensibile. Purchè si sviluppino politiche attive e flessibilità in uscita. Il salario minimo garantito è positivo, se sostenibile, a condizione che vada a supportare solo un breve periodo di inattività per chi non ha più il posto di lavoro. La cassa integrazione può essere applicata solo per poco tempo e in relazione all’utilizzo di politiche attive che vanno sviluppate e rese efficaci. Le politiche passive intese come rete di sostegno vanno concepite come qualcosa che supporta e integra serie politiche attive volte alla riduzione dei tempi di inserimento professionale.

Perché in materia di ammortizzatori il precedente governo non è mai intervenuto?
Non è solo il precedente governo a non essere intervenuto, è dalla riforma Treu del 1997 che se ne parla! Oggi siamo nelle condizioni di dover ripensare a fondo tutto il sistema e, da questo punto di vista, la crisi si sta rivelando come una grossa opportunità. L’impressione è che il sistema bipolare non favorisca il decisionismo e che certi provvedimenti potenzialmente impopolari la politica faccia fatica a realizzarli. Sembra che il governo tecnico, ahimé, abbia qualche ostacolo minore, ad indicare che l’attuale sistema probabilmente non supporta adeguatamente la classe politica nel riformare il Paese.

Tags: cassa integrazionecgilcislcontratto unicodisoccupazioneelsa fornerogi groupLavoroluigi angelettiprecariRaffaele BonanniStefano Colli LanziSusanna Camussouilwelfare
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