«Vogliamo la libertà!». Si è alzato un grido in tutta la Cina

Di Leone Grotti
28 Novembre 2022
Decine di migliaia di persone sono scese in piazza nelle più importanti città della Cina per protestare contro il lockdown e la politica "Zero Covid" di Xi Jinping. Una simile manifestazione di scontento non si vedeva dai tempi di Piazza Tienanmen
Proteste a Pechino, in Cina, contro la politica zero Covid del Partito comunista cinese e di Xi Jinping

Da 20 anni a questa parte la Cina ha sempre contato decine di migliaia di proteste all’anno per i motivi più disparati: furto di terre, stipendi non pagati, falde acquifere inquinate, diritti non rispettati. Ma nessuna è paragonabile a quella scoppiata negli ultimi due giorni nelle città più importanti del paese al grido di «Xi Jinping dimettiti!».

«Non vogliamo il partito comunista in Cina»

A Shanghai, Pechino, Chengdu, Chongqing, Wuhan, Xi’an, Urumqi migliaia di persone sono scese in piazza per protestare contro il lockdown e la draconiana politica “zero Covid”. A Shanghai, dove decine di persone sono state arrestate dopo essersi scontrate con la polizia, i manifestanti hanno gridato a più riprese: «Xi Jinping dimettiti! Non vogliamo il partito comunista al potere».

L’ondata di proteste, le più ampie e organizzate dai tempi di quella di Piazza Tienanmen, arrivano a un mese dal XX Congresso del partito comunista cinese, durante il quale Xi Jinping è stato confermato per la terza volta segretario del partito, diventando così il leader più potente dai tempi di Mao Zedong.

L’incendio a Urumqi che ha innescato la protesta

Dopo due anni e mezzo di lockdown, tamponi di massa e detenzione obbligatoria in centri per la quarantena, durante i quali i cittadini sono stati sigillati in casa dall’esterno e interi quartieri chiusi da recinzioni di metallo o plastica alte fino a tre metri, il tutto per una manciata di innocui casi positivi di Covid-19, la goccia che ha fatto traboccare il vaso dello scontento popolare è caduta giovedì.

Nella capitale regionale del Xinjiang, Urumqi, in lockdown da tre mesi, un incendio è scoppiato in un palazzo uccidendo 10 persone e ferendone altre nove. Secondo le notizie diffuse online dagli utenti cinesi, le restrizioni imposte dalle autorità per frenare la diffusione del virus hanno impedito ai vigili del fuoco di intervenire celermente, abbandonando alle fiamme i residenti.

Quanti morti causati dal lockdown

È impossibile affermare con certezza, e in assenza di indagini interne, se davvero i posti di blocco e le restrizioni con cui i cittadini di Urumqi si sono ormai abituati a vivere hanno impedito l’arrivo dei soccorsi. Di sicuro non è la prima volta che accade. Quando a settembre Chengdu, capoluogo del Sichuan, è stata colpita da un terremoto di magnitudo 6.8, i responsabili di molti comitati residenziali della città in lockdown hanno impedito ai cittadini di uscire di casa per non violare il dogma anti-Covid. Allora andò bene, ma sarebbe potuta avvenire una strage.

Di singole tragedie, però, in questi anni se ne sono verificate a centinaia. L’ultima nota è quella di Tuo Wenxuan, bambino di appena tre anni, morto a Lanzhou dopo che l’ambulanza ha tardato ore a rispondere alla chiamata di aiuto del padre a causa dei vincoli e delle lentezze ascrivibili alle restrizioni pandemiche.

Proteste senza precedenti a Pechino e Shanghai

Nella capitale Pechino centinaia di persone domenica si sono riunite per protestare contro la politica “zero Covid” voluta da Xi Jinping e imposta dal partito comunista. Molti hanno manifestato sollevando cartelli bianchi per denunciare la censura del regime, altri hanno gridato: «Basta lockdown. Vogliamo libertà di espressione, vogliamo la libertà». Durante la giornata, la protesta aveva invaso anche l’università Tsinghua, dove gli studenti del campus hanno intonato l’inno nazionale marciando in modo pacifico.

La rabbia è esplosa anche a Shanghai, dove la popolazione è rimasta vittima di una delle forme più crudeli e prolungate di lockdown, che ha anche danneggiato l’economia mondiale. La polizia ha arrestato decine di persone: dopo aver intonato cori contro Xi Jinping, infatti, i manifestanti si sono scontrati con gli agenti. In un video si sente una donna gridare: «Non abbiamo soldi, non possiamo lavorare, non abbiamo da mangiare».

A Wuhan la popolazione scesa in strada ha distrutto le recinzioni e le barriere che isolavano ermeticamente interi quartieri. Video postati sui social media cinesi mostrano che simili proteste sono avvenute anche nella capitale culturale della Cina, Xi’an, e nel sud del paese, a Chengdu e a Chongqing.

«Non siamo schiavi, siamo cittadini»

Il regime comunista sta giocando col fuoco in Cina. Convinto di avere il controllo totale sulla popolazione, sta continuando ad applicare una politica che di sanitario non ha nulla e che da oltre due anni ha effetti catastrofici sulla vita di 1,4 miliardi di persone.

Le proteste degli ultimi due giorni assomigliano molto nei contenuti a quella solitaria di Peng Lifa, il “Bridge Man” che alla vigilia del XX Congresso ha appeso questo striscione sul ponte “Sitong Qiao” di Pechino:

«Non vogliamo fare test per il Covid, vogliamo mangiare. Non vogliamo essere controllati, vogliamo la libertà. Non vogliamo bugie, vogliamo dignità. Non vogliamo la Rivoluzione Culturale, vogliamo riforme. Non vogliamo un leader, vogliamo votare. Non siamo schiavi, siamo cittadini. Studenti, scioperate! Lavoratori, scioperate! Rimuoviamo il dittatore, il traditore Xi Jinping!».

@LeoneGrotti

Foto Ansa

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