Via alla causa di beatificazione per Bisagno. Ecco chi era “il primo partigiano d’Italia”

Di Redazione
13 Giugno 2019
La notizia dell'autorizzazione al processo per Aldo Gastaldi concessa dal cardinale Bagnasco. E le nostre interviste a Pansa e al regista Gandolfo su di lui
Aldo

Può iniziare la causa di beatificazione e canonizzazione di Aldo Gastaldi, il “primo partigiano d’Italia”, medaglia d’oro della Resistenza, meglio conosciuto come “Bisagno”. Ad autorizzare il processo è stato il cardinale Angelo Bagnasco, come riferisce la curia arcivescovile di Genova attraverso il settimanale diocesano Il Cittadino.

Qui il breve profilo biografico di Bisagno fornito dall’Ansa a corredo della notizia:

«Gastaldi nacque a Genova il 17 settembre 1921. Dopo gli studi e una breve esperienza lavorativa nel 1941 ricevette la chiamata alle armi e il 15 agosto del 1942 prese servizio come sottotenente nel 15/esimo Reggimento Genio a Chiavari. Dopo l’8 settembre ’43 iniziò l’avventura partigiana. Nei pressi di Cichero, sulle pendici del Monte Ramaceto, nell’inverno del 1943, diede il via, insieme con altri compagni, al primo nucleo di quella che da lì a qualche mese sarebbe diventata la Divisione Cichero, la più famosa e temuta operante nella zona. Fervente cattolico, senza alcuna connotazione partitica, morì neppure un mese dopo la liberazione a Desenzano del Garda, il 21 maggio 1945».

Naturalmente la grandezza di quest’uomo non può essere esaurita in una “breve” di cronaca, e a dimostrazione di questa grandezza sta proprio il fatto che la Chiesa abbia accettato di vagliare attraverso un processo formale la solidità della sua fede e la sua “fama di santità”. Nei mesi scorsi, i lettori di Tempi hanno avuto modo di conoscere un po’ meglio la figura di Aldo Gastaldi.

«UN UOMO CERTO IN UN’EPOCA DI INCERTEZZE»

Di Bisagno, infatti, abbiamo parlato di nuovo il 25 aprile scorso, in occasione della festa della Liberazione. Ma soprattutto abbiamo fatto parlare l’anno scorso Marco Gandolfo, autore di un importante documentario su di lui. Ecco come il regista racconta il “primo partigiano d’Italia” (qui l’intervista integrale):

«Era un sottotenente nel 15° Reggimento Genio presso la caserma di Chiavari. In seguito all’armistizio dell’8 settembre, con un gruppo di uomini decise di stabilirsi a Cichero, alle pendici del monte Ramaceto. Rifugiatosi in montagna, si distinse non solo per il coraggio, ma anche per la fermezza con cui guidava i suoi uomini, non concedendo a nessuno di loro né di vessare la popolazione né di accanirsi sui nemici. Quando poteva, infatti, evitava le fucilazioni, le angherie, i soprusi. Era cattolico e apartitico e questo, certo, gli attirò le antipatie di quanti, nelle fila partigiane, sognavano di piegare la lotta di Liberazione ai propri scopi politici. Bisagno non lo avrebbe mai permesso. Dopo il 25 aprile, anche a rischio della propria vita, fu determinato nell’opporsi ai regolamenti di conti che insanguinavano l’Italia, tanto che, per garantire l’incolumità di alcuni suoi partigiani, ex alpini originari del Veneto e della Lombardia, li accompagnò personalmente fino a casa. Fu così che trovò la morte il 21 maggio 1945 a Desenzano del Garda. Secondo la versione ufficiale, cadendo dal camion su cui stava viaggiando, ma da subito in molti pensarono ad un omicidio. Bisagno era amatissimo dalla popolazione tanto che al suo funerale a Genova partecipò una folla impressionante. È per questo che gli è stato attribuito il titolo di “primo partigiano d’Italia”».

«La fama di Bisagno era quella di un ragazzo piuttosto silenzioso, di poche parole. Le lettere, invece, ci restituiscono la personalità di un uomo dalla grande profondità d’animo e dalla grande fede. Si è sempre ricordato che anche i fascisti, così come i comunisti, erano, innanzitutto, uomini. Ha sempre cercato di abbracciare tutti, evitando inutili stragi».

«Dalle lettere si capisce che la sua fede era semplice e dolce insieme. Quelle missive le ho lette e rilette più volte: in tutte Bisagno partiva da quel che gli accadeva per farsi domande importanti sul senso della vita e su Dio. Era un uomo certo, in un periodo di estrema incertezza. Era saldo perché appoggiato su qualcosa di saldo, di più forte e più grande di lui».

«UN PERSONAGGIO ANOMALO»

Anche Giampaolo Pansa si è occupato approfonditamente di Gastaldi, dedicandogli perfino un libro, Uccidete il comandante bianco. Il giornalista, specializzato nel disseppellire le tante ingiustizie dimenticate della Resistenza e della “guerra civile italiana”, è rimasto molto affascinato dalla figura di questo partigiano cattolico, e non crede alla versione della morte per incidente. Di seguito qualche battuta della sua chiacchierata con Tempi:

«È un personaggio anomalo, da favola, una sorta di re Artù. Un ragazzo bellissimo, molto religioso, primo di cinque figli. Era un apolitico, e certamente non era un comunista».

«Io l’ho definito un monaco atletico, un Gesù Cristo con il fucile a tracolla, il ragazzo dell’oratorio diventato capo ribelle. Era di un coraggio spericolato e, al tempo stesso, capace di tenere fede ai princìpi in cui credeva. In guerra non si fanno le serenate, si spara, eppure lui si comportò quasi da santo. Ai suoi compagni della Cichero aveva imposto un regolamento secondo cui non si doveva bestemmiare, non si dovevano molestare le ragazze, non bisognava importunare i contadini. Ci pensa? Capisce cosa significava allora, in quella situazione?».

Ed ecco come riassume Pansa le ragioni per cui sospetta che non sia stato un incidente a uccidere Bisagno:

«Ci pensi un attimo: aveva combattuto con loro per due anni, conosceva tutti i segreti della Sesta zona ligure, un caposaldo del Pci nel corso della guerra civile. Aveva visto come agivano, come avevano vessato la popolazione, come conducevano sommariamente i processi, a cosa realmente miravano dopo il 25 aprile. Bisagno non poteva rimanere in vita, era un testimone troppo scomodo».

[liga]

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