Bisagno, il mio re Artù della Val Trebbia

Di Emanuele Boffi
19 Aprile 2018
Il comandante bianco fu ucciso dai comunisti che dopo il 25 aprile «volevano instaurare la dittatura. E lui era un testimone scomodo». Intervista a Giampaolo Pansa

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Tempi, l’associazione Esserci e il Centro culturale Rosetum organizzano la proiezione del documentario “Bisagno”. Seguirà un incontro con il regista Marco Gandolfo (qui l’intervista). L’appuntamento è per lunedì 23 aprile, ore 21.00, Centro Rosetum, via Pisanello 1, Milano. Ingresso libero.

«Ne avevo già parlato nella mia tesi di laurea, ma erano diversi anni che desideravo concentrarmi su una figura straordinaria come Aldo Gastaldi detto Bisagno, “il leone della Val Trebbia”». L’interesse di Giampaolo Pansa per Gastaldi parte da lontano, da quel lavoro di laurea in cui raccontava La guerra partigiana tra Genova e il Po (trasformato poi nel 1967 in un libro da Laterza) e con cui vinse il premio Einaudi (500 mila lire) e un contratto come giornalista alla Stampa. L’interesse per la Resistenza è sempre stato al centro della carriera di questo grande giornalista che oggi scrive per La verità, il quotidiano diretto da Maurizio Belpietro. «Ma io – racconta a Tempi – sarò ricordato per Il sangue dei vinti, il libro con cui ho raccontato il lato oscuro della lotta partigiana in Italia. Che non è stata solo una guerra di liberazione, ma anche una guerra civile. Non sono stato il primo a provarci, qualcosa fece Giorgio Pisanò, ma l’operazione non gli riuscì, nessuno gli credeva. Sa, siccome io sono sempre stato fatto passare come un presunto ragazzo di sinistra… mi leggevano».

La leggevano, ma la contestavano.
Certo! Quando è uscito Il sangue dei vinti, che ormai ha venduto un milione di copie, mi sono reso conto che, all’alba del 2003, la sinistra italiana non era mai cambiata. Mi hanno insultato in tutti i modi immaginabili e possibili, ma io non mi sono mai avvilito. Anzi, ogni insulto che ricevevo mi rendeva ancora più determinato a raccontare quel che nessuno voleva ascoltare. Niente mi rende più felice che seguire la mia coscienza, e la mia coscienza mi dice che la verità va affermata anche se pochi la vogliono riconoscere.

E qual è questa verità?
Che per le bande comuniste prima andavano sconfitti i fascisti, ma poi si doveva instaurare la dittatura del proletariato, sotto l’ala di Mosca. Dire questo, ancora oggi, è un tabù, perché quelle stesse bande si sono rese responsabili di crimini orribili. Il Pci ha sempre vietato di parlarne. La storiografia italiana, che è sempre stata di sinistra, ha sempre ignorato le testimonianze che incrinavano il mito di una Resistenza dedita alla sola liberazione.

Torniamo a Bisagno. Cosa l’ha colpita di questo giovane partigiano?
È un personaggio anomalo, da favola, una sorta di re Artù. Un ragazzo bellissimo, molto religioso, primo di cinque figli. Era un apolitico, e certamente non era un comunista.

Era un cattolico.
Oh sì, su questo non c’è il minimo dubbio. Io l’ho definito un monaco atletico, un Gesù Cristo con il fucile a tracolla, il ragazzo dell’oratorio diventato capo ribelle. Era di un coraggio spericolato e, al tempo stesso, capace di tenere fede ai princìpi in cui credeva. In guerra non si fanno le serenate, si spara, eppure lui si comportò quasi da santo. Ai suoi compagni della Cichero aveva imposto un regolamento secondo cui non si doveva bestemmiare, non si dovevano molestare le ragazze, non bisognava importunare i contadini. Ci pensa? Capisce cosa significava allora, in quella situazione? Arrivò alla morte vergine, al contrario di quell’Anton Ukmar, l’uomo del Comintern in Liguria che doveva preparare la strada alla rivoluzione comunista, che invece era un codardo e un gran puttaniere.

Nel suo libro, lei si dice convinto del fatto che Gastaldi sia stato ucciso dai partigiani rossi.
Come sa, questa non è la versione ufficiale, che parla di una caduta accidentale da un camion. Ma è una versione che non mi convince. Innanzitutto perché, già diverse volte, Bisagno era stato minacciato dai comunisti. In secondo luogo, perché nulla spiega come mai un comandante esperto come lui si fosse messo in una situazione di così grande pericolo affrontando un viaggio sul tetto di un camion. Una scelta incomprensibile, a meno che non fosse stato preventivamente avvelenato. Ma a non vederci chiaro non sono solo io, ma molti dei suoi compagni che bene sapevano quanto lo odiassero i comunisti.

Perché lo odiavano tanto?
Ci pensi un attimo: aveva combattuto con loro per due anni, conosceva tutti i segreti della Sesta zona ligure, un caposaldo del Pci nel corso della guerra civile. Aveva visto come agivano, come avevano vessato la popolazione, come conducevano sommariamente i processi, a cosa realmente miravano dopo il 25 aprile. Bisagno non poteva rimanere in vita, era un testimone troppo scomodo.

Foto Ansa

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