Tentar (un giudizio) non nuoce
Celebrare il 25 aprile, oltre ogni retorica di parte
Anche quest’anno ho partecipato, come di consueto, alle celebrazioni del 25 aprile, nella mia città, Varese. È stata un’occasione importante per riflettere sul significato di questa ricorrenza ad un anno dalle celebrazioni per l’ottantesimo anniversario. È dunque venuto il momento di chiedersi qual è il senso di questa ricorrenza che festeggia la liberazione dal nazi-fascismo, la fine della guerra, la fuoriuscita da un periodo di privazione della libertà che enormi danni ha portato al nostro Paese, con un numero di vittime esorbitanti, errori ed orrori indicibili. Talvolta non serve occultare, basta non far menzione.
La memoria non è un dono immutabile, acquisito o insito nel genere umano. Per viverla c’è bisogno di esercizio, di persone capaci di prenderla per mano, recuperandola dagli anfratti più nascosti, dall’abbandono e dalla trascuratezza. Non basta ricordare. Non è sufficiente. Serve aggrapparsi alla genesi, far scavo nella propria intima sofferenza, lasciar che le ferite guariscano al vento. Ci vuole cura per la memoria, passione per l’umano e sfrontatezza. Non è mai un coraggio effimero, quello che si rende d’obbligo al cospetto del passato. È un’audacia necessaria quella richiesta dalla narrazione. Facendolo si rischia di impattare sui nervi scoperti di quella Storia con la “s” maiuscola che oramai appare ai più come l’incisione di una moneta antica, stretta tra incudine e punzone, forgiata e resa impermeabile a qualsiasi erosione. Eppure, il divenire non possiede quella sicurezza incontrovertibile che un conio di elettro parrebbe possedere. Ma noi, uomini del terzo millennio, siamo proprio sul crinale, laddove si pone l’ultima sfida tra reminiscenza ed oblio. Tra qualche decennio scompariranno le ultime voci di coloro che hanno vissuto le violenze del Novecento, la vita agra delle campagne e la povertà rudimentale e disadorna dei paesi di provincia. Rimarranno solo le tracce di quel tempo, trascritte nei riassunti catalogati per decenni.
Non basta il richiamo ai valori
Ebbene, le celebrazioni non posso diventare retorica di parte. Non ce lo possiamo più permettere in un Paese, come il nostro, dove tornano a udirsi, come non accadeva da tempo, rumori di guerra e violenza diffusa. Non possiamo limitarci all’elogio dei valori costituzionali e della Resistenza, che pure sono elementi imprescindibili e che meritano il nostro riconoscimento. Dobbiamo fare lo sforzo di domandarci, quanto le celebrazioni parlino al nostro presente, quanto la memoria possa illuminare e offrire insegnamento al nostro quotidiano.
Certo, il nostro Paese oggi non è in guerra, i rumori dei conflitti si fanno vicini ma non ci toccano, per ora, direttamente, ma, al tempo stesso, la cronaca quotidiana ci parla, sempre più drammaticamente, di episodi di prevaricazioni, di femminicidi, di morti sul lavoro e di reazioni giovanili che al cospetto di una diaspora hanno risposte esasperate che si tramutano immediatamente nello sfogo violento. Non possiamo negare come sia latente nella società contemporanea una cultura che sembra aver sdoganato il regolamento di conti, con forme dispotiche, che ritenevamo di aver ripudiato quali modalità per la risoluzione dei conflitti.
Da un lato, questo ci ricorda che l’uomo è sempre lo stesso, pieno di limiti e contraddizioni, bestiale ed angelico assieme. Dall’altro, tutto ciò deve interrogare la politica.
L’origine del sacrificio
Sullo scenario globale ritornano ad impennarsi le spese militari ed ombre di possibili conflitti internazionali, che tutti ritenevano sorpassati, stanno facendo la loro oscura ricomparsa. In questo contesto, non possiamo ritenere “normali” o “trascurabili” tutte quelle forme intimidatorie che nelle Università, tendono a far prevalere le proprie posizioni attraverso l’opposizione violenta.
Dobbiamo porci la domanda su cosa oggi può fondare, o rifondare, quello slancio morale, fatto di pensiero ma anche di azione concreta, che ha reso possibile ottant’anni fa la liberazione dal nazi-fascismo. Io credo che sia questo l’insegnamento che dobbiamo trarre e trattenere come giudizio e guida.
Occorre ritornare all’origine di quel sacrificio che è costato la vita a molte persone. Ripensare a quello spirito di libertà che ha permesso alla democrazia di prevalere sui regimi, al dialogo sulla violenza, al rispetto sulla prevaricazione.
Anticorpi di popolo
Per farlo abbiamo due strumenti: la memoria, come ricordato, e l’educazione. Le celebrazioni del 25 aprile sono sempre state per me un momento significativo, di approfondimento e apprendimento dei fatti che hanno segnato il secolo breve. Mi domando però quanti oggi, nelle nostre scuole, ma anche tra gli adulti, nelle nostre città, conoscano ancora quella storia e siano consapevoli di cosa ha rappresentato.
Se non ritorniamo ad una condivisione di valori, frutto di un’educazione diffusa e di una sensibilità condivisa, quello che oggi celebriamo in pompa magna potremmo presto perderlo nella concretezza della vita. Dunque, chi davvero desidera la libertà e si proclama antifascista, sostenendo i valori della democrazia scolpiti nella nostra Costituzione, non può esimersi da questo compito educativo, da questa responsabilità storica.
La consapevolezza di quanto accaduto, gli anticorpi che abbiamo prodotto, come singoli e come popolo, hanno la necessità di essere protetti e conservati per tutti coloro che verranno dopo di noi. Diversamente, le generazioni future rischieranno di vivere la cesoia sommaria del tempo come dato naturale, senza accorgersi che oltre al proprio vissuto e alla contingenza del presente, gli orizzonti della verità sconfinano ben oltre la crina. Offrire un atto d’omaggio alla giornata del 25 aprile, vuole dire proprio questo: non la retorica delle belle bandiere, ma la responsabilità di educare al sogno e alla libertà.
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