Usa, il flop più clamoroso alle primarie dem è quello del New York Times

Di Leone Grotti
05 Marzo 2020
Bloomberg ha speso mezzo miliardo per vincere 12 delegati nel Super Tuesday. Ma il vero tonfo è dei candidati appoggiati dai grandi giornali e snobbati dagli elettori
primarie democratici usa

«God Bless Super Tuesday»: è proprio il caso di dirlo. Finalmente l’appuntamento più atteso delle primarie democratiche americane è arrivato e in una sola notte ha spazzato via tutta la fuffa e i quintali di articoli, ricchi di politicamente corretto e poveri di realtà, che i grandi giornali Usa e di conseguenza quelli italiani ci hanno propinato per mesi. Il voto in 14 Stati americani, più le Samoa americane e i democratici all’estero, ha distribuito tra i candidati un terzo del totale dei delegati (1.357 su 3.979) e impartito diverse lezioni di realtà da non dimenticare.

I SOLDI CONTANO MA NON SONO TUTTO

Uno dei risultati più eclatanti del Super martedì è il tonfo fragoroso di Mike Bloomberg. Il miliardario, ex sindaco di New York, aveva snobbato le primarie nei primi Stati per concentrarsi sul bersaglio grosso. Bene, a fronte di un investimento «colossale» (Nyt) da mezzo miliardo di dollari non ha vinto neanche un singolo Stato e ha portato a casa soltanto 12 delegati. Persino in Virginia, dove si era speso in prima persona per finanziare una campagna contro il possesso di armi e aiutare l’elezione di figure femminili al Congresso, ha ottenuto appena il 10 per cento delle preferenze.

L’unico successo che può vantare è nelle Samoa americane, dove i suoi sostenitori si sono fatti notare perché, dopo aver votato, sono andati a pulire i parchi del territorio, autodefinendosi «i protettori della Terra». «Insieme eleggeremo un presidente che crede nel cambiamento climatico», twittava trionfante Bloomberg. Un po’ poco per convincere gli elettori americani, che l’hanno letteralmente ignorato. Bloomberg ha scommesso tutto sul fallimento di Joe Biden, dipingendosi in campagna elettorale come la vera alternativa a Bernie Sanders. Nonostante i milioni investiti, ha clamorosamente fallito e ieri ha abbandonato ufficialmente la corsa: «Biden è il migliore».

NON BASTANO I MEDIA PER ESSERE POPOLARI

Il Super martedì ha certificato, se ancora ce ne fosse bisogno, lo scollamento tra i grandi giornali e l’America reale. Emblematico il sostegno esplicito che nei mesi scorsi il board editoriale del New York Times ha dato a due donne, sottolineando l’importanza della loro presenza rispetto ai soliti candidati «maschi e bianchi»: Elizabeth Warren e Amy Klobuchar. Già il fatto che le candidate sponsorizzate fossero due suggeriva che qualcosa non andava. Ora il voto l’ha confermato.

Klobuchar, nonostante il dignitoso terzo posto ottenuto nel New Hampshire, si è ritirata a inizio settimana dalla corsa presidenziale, annunciando il suo sostegno a Biden. La senatrice 60enne del Minnesota ha rivendicato spesso come punto di forza di essere nipote di immigrati, aveva annunciato la sua candidatura 13 mesi fa in mezzo a una tormenta di neve, da progressista moderata sognava di giocarsela con Biden, ma nonostante il sostegno adorante dei media non ha combinato granché ed è tornata presto nelle retrovie del partito.

Anche la Warren coltivava sogni di gloria, sperando di strappare a Sanders lo scettro di principe degli estremisti. Ma il Super martedì l’ha relegata terza con 36 delegati, a distanza siderale dai due favoriti e dal suo diretto concorrente. Non solo non ha vinto neanche uno Stato, ma ha raggiunto un imbarazzante terzo posto nel suo Massachusetts. In alcuni Stati ha fatto addirittura peggio di Bloomberg, il che è tutto dire. Come scrive l’Associated Press, che non le rende neanche l’onore delle armi, «i suoi sostenitori sperano che accumuli abbastanza delegati per giocare un ruolo di primo piano nelle trattative alla convention. Ma i candidati corrono per diventare presidenti, non negoziatori alla convention».

Se, a conti fatti, i risultati dimostrano che non basta essere donne per vincere, la verità è che non è neanche sufficiente essere giovani e omosessuali. L’ex sindaco di South Bend (Indiana) Pete Buttigieg, che ha fatto delle due caratteristiche i suoi punti di forza, esaltato come una delle «sorprese» delle primarie e sognato dal Nyt come il «primo presidente gay», si è ritirato dalla corsa domenica, annunciando «il mio endorsement a favore di Biden». Non basta essere osannati dai media, insomma, per essere genuinamente popolari.

LA VERA SFIDA

Ora che il campo è libero dai tanti sogni di una notte di mezza estate, può cominciare la vera battaglia nel Partito democratico tra i due sfidanti, entrambi maschi, bianchi e attempati (con buona pace dei giornali): il campione dei moderati e dell’establishment dem, Joe Biden, e quello dei radicali, Bernie Sanders. Il primo ieri ha conquistato 9 Stati e 390 delegati, il secondo rispettivamente 4 e 330. Se resta in bilico il Maine, i due candidati si sono divisi anche le due prede più ambite: il Texas è andato a Biden, la California a Sanders.

Fino a una settimana fa la resurrezione dell’ex vicepresidente di Barack Obama, in origine considerato da tutto il “front runner” delle primarie poi caduto in disgrazia, sembrava impensabile. Gli elettori democratici hanno dimostrato invece, nonostante tutto e sulla scorta della decisione di tre candidati di sostenerlo, di ritenerlo l’uomo con più chance di battere Donald Trump. Il suo ritorno è stato commentato così dallo sfidante, Sanders: «C’è un enorme tentativo in atto per fermarmi. Non è un segreto per nessuno. Perché dovrei sorprendermi del fatto che i candidati dell’establishment si coalizzino contro di me?». E lo stesso Trump è sembrato infastidito: «È una congiura contro Sanders!».

Ora si prospetta una «lunga battaglia Stato per Stato tra i due, che hanno visioni totalmente differenti di che cosa i democratici debbano fare per sconfiggere Trump», scrive l’Ap. Qualche esempio: Sanders vuole una sanità all’europea, con l’estensione a ogni cittadino del programma Medicare, che oggi fornisce assistenza sanitaria pubblica gratuita solo agli anziani; Biden invece vorrebbe permettere a tutti di mantenere la propria assicurazione, pur con qualche modifica. Sanders vuole alzare drasticamente le tasse ai più abbienti e alzare il salario minimo, Biden propone aumenti più contenuti per favorire la classe media. Se tutti i candidati propongono di rendere più difficile l’acquisto di armi, abolire le politiche di Trump in materia di immigrazione e realizzare costosissimi piani per abbattere le emissioni di Co2, sul fronte dell’educazione Sanders vuole rendere le università pubbliche gratuite per tutti e azzerare il debito totale contratto dagli studenti per iscriversi all’università, mentre Biden è contrario alla cancellazione del debito e favorevole a una rinegoziazione a tassi più agevoli.

@LeoneGrotti

Foto Ansa

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