Non per menar gramo, ma la prima grande espansione islamica fuori dalla penisola arabica, quella che ebbe luogo fra il 632 e il 661, fu resa possibile da una congiuntura storica molto particolare: la crisi contemporanea dei due grandi imperi dell’area, quello bizantino e quello persiano, esausti dopo un secolo di guerre combattute fra di loro. I fino ad allora militarmente insignificanti predoni beduini divennero un’armata di conquistatori inarrestabili grazie al combinato disposto della loro integrazione politica, religiosa e militare nell’islam e del dissanguamento finanziario e militare di persiani e bizantini. Vedere oggi la Nato e la Russia agitarsi sul ciglio del burrone ucraino, esposte alla mossa falsa che potrebbe trascinarle in una guerra rovinosa, mentre sull’altra sponda del Mediterraneo appaiono le prime bandiere nere fedeli al Califfato proclamato otto mesi fa in Iraq, qualche brivido lo fa venire. Sembra la ripetizione della coincidenza storica che quattordici secoli fa favorì l’ascesa del Califfato, quello vero. Sembra.
Il logoramento reciproco fra imperi stanchi che apre le porte all’imprevisto storico di un nuovo sistema politico, religioso e militare barbaro – a quel tempo la barbarie fu solo iniziale, seguì una fiorente civiltà; cosa succederebbe oggi è meglio non pensarci – può essere un’illusione ottica o una suggestione giornalistica. Invece l’ennesima dinamica di dis-integrazione europea che l’azzardo ucraino ha messo in moto è un’evidenza sotto gli occhi di tutti. Non è colpa della Mogherini o di Donald Tusk se le massime cariche dell’Unione Europea sono state completamente ignorate da Angela Merkel quando settimana scorsa la cancelliera tedesca ha preso in mano le redini della gestione della crisi ucraina e ha incontrato gli attori decisivi del conflitto a Kiev, Mosca e Washington, condizione inevitabile di una mediazione che portasse al cessate il fuoco. Per salvare le apparenze di una certa qual solidarietà e leadership collettiva europea si è portata dietro (a Mosca ma non a Washington) François Hollande, imbarazzato nel ruolo della spalla francese del primattore tedesco. Ma stavolta nessuno può accusare la Germania di arroganza: solo il paese guida dell’Unione poteva prendere l’iniziativa, perché a Bruxelles non c’è affatto unanimità sulla linea da seguire.
Tutti e 28 i paesi a suo tempo incoraggiarono l’accordo di associazione con l’Ucraina e ignorarono i mal di pancia russi. Ma adesso che l’accordo è firmato ed è già costato la secessione di una regione (la Crimea), un’insurrezione separatista in altre due (il Donbass) e il coinvolgimento delle forze armate russe nella crisi, l’Unione Europea si spacca come una mela sul da farsi. Si ripropone, con pochi cambiamenti di allineamento, il dualismo fra paesi della Vecchia Europa e paesi della Nuova Europa che tormentò l’Unione al tempo dell’intervento anglo-americano in Iraq. Ci sono i falchi che vorrebbero armare l’esercito ucraino e magari inviare reparti Nato sul posto per fermare quella che definiscono un’aggressione russa; e ci sono le colombe che vorrebbero fare concessioni alla Russia per mettere fine alla crisi il prima possibile. Nel primo elenco compaiono Polonia, i tre paesi baltici, Finlandia, Svezia, Norvegia (che non è Ue ma è Nato), Danimarca, Olanda, Regno Unito e Romania; nel secondo Germania, Francia, Italia, Spagna, Ungheria, Austria, Slovacchia, Repubblica Ceca, Grecia, Cipro e Bulgaria.
Dividere gli europei e giocarli gli uni contro gli altri è sempre stato lo sport preferito di americani e russi (e sovietici prima di loro); Washington e Mosca amano l’Europa unita solo nella misura in cui quell’unità può essere usata per relativizzare la potenza del rispettivo avversario egemonico. Ma al di là delle logiche delle superpotenze (o ex superpotenze) c’è il dato di fatto che la crisi ucraina ha rivelato una linea di faglia obiettiva all’interno dell’Unione Europea per quanto riguarda i rapporti con la Russia: per le grandi economie dell’Europa centro-occidentale (Germania, Francia, Italia, Spagna) Mosca rappresenta una grande opportunità di sviluppo economico nell’ottica dello scambio energia-prodotti industriali finiti, e di riequilibrio strategico del rapporto di dipendenza dagli Stati Uniti; per Polonia, Finlandia, paesi baltici, Ucraina e Romania, invece, la Russia semplicemente non dovrebbe esistere come centro politico e militare, perché questa sarebbe l’unica vera garanzia di esistenza duratura dei loro paesi nella forma dello Stato nazione indipendente. Che governino gli zar, i bolscevichi oppure Putin, non cambia nulla: per loro la Russia è il paese che prima o poi cercherà di espandere la propria schiacciante influenza o i propri confini dentro ai loro territori. La Storia è lì a giustificare questa convinzione.
Il dramma dell’Unione Europa è che la dinamica di disintegrazione messa in moto dalla questione del rapporto con la Russia va ad aggiungersi ad altre dinamiche di disintegrazione che potrebbero toccare il loro acme tutte nel corso del 2015: la disintegrazione finanziaria (vedi la Grecia a rischio di default e di uscita dall’euro), la disintegrazione politica (vedi l’indizione di un referendum per l’uscita del Regno Unito da Bruxelles nel 2017 se il governo conservatore uscente di David Cameron vincerà le elezioni politiche quest’anno) e la disintegrazione militare (vedi l’uscita della Spagna dalla Nato se Podemos vincerà le elezioni del prossimo novembre). Gli ottimisti dichiarano che, anche nella peggiore delle ipotesi (cioè il contemporaneo avverarsi di Grexit, preludio del Brexit e vittoria di Podemos in Spagna), il nucleo restante di Unione Europea uscirebbe rafforzato dalla cura di dimagrimento, perché «risulterebbe meno arduo porre in essere politiche comuni», come ha scritto Giuseppe Sacco su Limes dell’ottobre scorso. Ma con la svalutazione dello yuan cinese alle porte, il braccio di ferro con Mosca in corso, l’Isis affacciato sulla sponda sud del Mediterraneo è molto più facile che disintegrazione produca altra disintegrazione.
L’afflusso di immigrati clandestini attraverso il Mediterraneo non è mai stato un argomento che abbia favorito l’integrazione europea, anzi: l’Italia e Bruxelles da sempre tirano a fregarsi, la seconda trattando il fenomeno come un affare principalmente italiano in ragione del dettato della convenzione di Dublino, la prima lasciando passare sul suo territorio senza controlli centinaia di migliaia di stranieri che hanno per meta finale non il Belpaese ma le aree nordiche. Il peggioramento della situazione in Libia non farà che acuire le tensioni, gli appelli alla solidarietà continentale di fronte alla minaccia del consolidamento delle posizioni dello Stato islamico sulle coste libiche gioveranno a poco. Minaccia che in realtà è sbarcata da tempo sul suolo europeo. Non solo sotto forma di terroristi isolati che colpiscono dalla Francia alla Danimarca (più quelli coinvolti negli attacchi sventati in una mezza dozzina di paesi), ma di controllo del territorio: è di dieci giorni fa la notizia delle bandiere dell’Isis issate sopra le case del villaggio di Gornja Maoca, nel nord-est della Bosnia.
Bosnia significa Balcani. Ed è qui – e non nella regione dei paesi baltici, come tanti, compresa la Nato, pronosticano – che dobbiamo aspettarci l’avvio di nuovi processi di disintegrazione favoriti dalla Russia per ritorsione all’accordo di associazione dell’Ucraina all’Unione Europea. Lo hanno capito bene i tedeschi, i più interessati all’integrazione dei Balcani nell’Unione. Ha spiegato Elmar Brock, l’europarlamentare della Cdu presidente della Commissione affari Esteri: «Lo scopo di Putin è di esercitare sugli stati balcanici una pressione sufficiente a farli rinunciare all’adesione a Bruxelles, oppure a far sì che, una volta membri, influenzino le risoluzioni europee in senso pro-russo».
Serbia, Bosnia e Montenegro, candidati all’accesso all’Unione, sono al centro delle attenzioni di Mosca che le corteggia con un misto di retorica panslavista, memoria storica antinazista e investimenti imprenditoriali e infrastrutturali. Questi ultimi significano che un terzo delle imprese del Montenegro è di proprietà di soggetti russi e che in Serbia l’ammodernamento del sistema ferroviario, la gestione delle stazioni di servizio del carburante per autoveicoli e le forniture di gas sono in mani russe. Ma soprattutto lo sono i cuori e le menti: nell’ottobre scorso a Belgrado le celebrazioni per la liberazione dall’occupazione nazista sono state anticipate di quattro giorni per farle coincidere con la visita di Stato di Vladimir Putin, il quale è stato insignito della più alta onorificenza dello stato. Tutto ciò all’indomani dell’annessione della Crimea alla Russia, che la Serbia ha formalmente condannato e per la quale approva il regime di sanzioni europee contro Mosca.
La pazienza strategica
Infine c’è il cavallo di Troia della Russia nell’Unione Europea: la Bulgaria. Il paese dipende da Mosca per l’85 per cento delle sue forniture di gas e per il totale di quelle di energia nucleare; la Lukoil possiede l’unica raffineria del paese e 300 mila russi hanno acquistato proprietà immobiliari nel paese negli ultimi anni. Se Sofia pone il veto, politiche energetiche europee volte a ridurre la dipendenza europea dal gas russo restano al palo.
Di fronte alle sfide attuali la politica promossa dalla Germania coincide con la «pazienza strategica» recentemente predicata da Obama: l’Europa deve convincere greci e britannici, spagnoli e balcanici, che l’integrazione europea resta la scelta migliore per difendere il loro interesse nazionale. E in Ucraina deve congelare il conflitto e puntare sullo sviluppo economico e istituzionale di Kiev per mostrare ai separatisti del Donbass che la loro scelta filo-russa è sbagliata. Resta il fatto che la crisi ucraina vede la responsabilità di Berlino in primo piano: sono stati i tedeschi, e non gli americani, ad accelerare il processo di associazione dell’Ucraina all’Unione, per potersi accaparrare quel mercato sottraendolo a Mosca. Ancora una volta l’egoismo nazionale tedesco ha danneggiato l’integrazione europea.
Foto vertice Putin-Poroshenko, foto vertice Nato e foto Tsipras da Shutterstock