
Tutte vedove dell’Accordo di Parigi. Ma sul clima Trump ha ragione

Se Biden ha usato gli ordini esecutivi per cancellare la lavagna del trumpismo, Trump ha ricambiato il favore. Tra i decreti – un centinaio firmati tra Campidoglio e Capital One Arena per eliminare i 78 del predecessore – anche l’uscita (scontata) dall’Accordo di Parigi. Che stando alle regole della climatocrazia delle Nazioni Unite potrà essere effettiva solo dal prossimo anno: gli Usa saranno allora liberi dagli obblighi di ridurre le emissioni di gas serra.
Peccato tocchi ribadire ancora una volta che l’Accordo di Parigi non obbliga proprio a nulla. Non è in alcun modo vincolante, ogni paese ha sottoposto liberamente le proprie promesse sul taglio delle emissioni per contenere l’aumento delle temperature globali entro gli 1,5 gradi rispetto all’era preindustriale. Nessuno può pretendere che i paesi rispettino gli impegni presi e nessuna penalità o punizione è prevista per chi si tira indietro o non fa quanto promesso.
Le misure manifesto di Parigi e quelle di Biden
Non a caso, quando già nel 2017 Trump decise che l’America non avrebbe rispettato gli impegni presi da Barack Obama (decisione che non entrò in vigore fino a novembre 2020 sempre a causa delle complicate regole delle Nazioni Unite), il New York Times lo invitò a ripensarci con una semplice argomentazione: stare nell’Accordo non costa nulla. Basta al limite, in base agli umori della politica interna, modellare le misure da prendere al ribasso oppure disattenderle del tutto. Agli aderenti non è richiesto che presentare ogni cinque anni dei documenti chiamati “Intended Nationally Determined Contributions” (Indc), nei quali i governi dichiarano cosa faranno per ridurre le emissioni: di più, di meno, in ogni caso faranno quello che vogliono. Solo il Regno Unito ha reso i suoi Indc legalmente vincolanti.
Ben consapevole che Trump avrebbe sfasciato tutto, Joe Biden si era dato dunque, poco prima dell’insediamento, obiettivi più ambiziosi: ridurre i gas serra tra il 61 e il 66 per cento entro il 2035 rispetto ai livelli del 2005, raggiungere la neutralità entro il 2050.
L’Accordo di Parigi? Meno di 0,05 gradi entro il 2100
Un Indc “simbolico”: la Cina ha promesso di raggiungere il picco delle sue emissioni di CO2 nel 2030 e la neutralità carbonica nel 2060, ma come ha ben scritto il Nyt «negli ultimi tre decenni ha costruito più di 1.000 centrali elettriche a carbone, mentre la sua economia è cresciuta di oltre 40 volte. Il paese è diventato di gran lunga il più grande emettitore annuale di gas serra al mondo […] e l’anno scorso ha superato per la prima volta l’Europa diventando il secondo maggiore emettitore storico». Dopo gli Usa, naturalmente, dove Biden s’è dato alla call to action di stati e agenzie per non lasciare in pasto allo studio ovale occupato da Trump la “più audace agenda climatica”.
Un Indc “simbolico” soprattutto perché, se anche tutti gli Indc stipulati nell’ambito dell’accordo di Parigi venissero rispettati, l’impatto globale sarebbe quello di ridurre le temperature di meno di 0,05 gradi Celsius entro il 2100. I calcoli sono dell’economista del clima Bjørn Lomborg, un impatto così minuscolo che sarebbe impossibile da misurare. E «puoi onestamente affermare che, tra 75 anni, i tuoi nipoti saprebbero distinguere la differenza tra un giorno con 15,21 gradi e uno con 15,26 gradi?», provoca (ma non troppo) lo scrittore scientifico britannico Matt Ridley su Spiked, ripercorrendo la farsa di tutti i vertici sul clima precedenti e successivi quel grande calderone di promesse non vincolanti che è l’accordo sul clima di Parigi.
Un «giorno storico» per Obama (la Cina ringrazia)
Firmato da 195 paesi, l’Accordo è stato celebrato dall’Unione europea all’Onu, da Greenpeace ai vip come Leonardo di Caprio, quale uno “spartiacque”, un “trionfo”. «Oggi è un giorno storico nella lotta per proteggere il nostro pianeta per le generazioni future», disse l’allora presidente degli Stati Uniti Barack Obama, «Se rispetteremo gli impegni come l’accordo prevede, la storia lo giudicherà come un punto di svolta per il pianeta».
Una celebrazione che fraintende completamente cosa dice l’Accordo di Parigi (chiunque pensa davvero che la fine sia vicina e il cambiamento climatico sia davvero la più grande minaccia per l’umanità avrebbe dovuto ribattezzarlo “fregatura”), e che da dieci anni marcia sull’equivoco per cui i paesi in via di sviluppo non solo possono continuare a emettere gas serra senza un tetto e a bruciare petrolio e carbone, ma possono farlo senza contribuire economicamente allo sforzo globale per la transizione. Perché, ci chiediamo a ogni vertice sul clima, considerare in questo senso Cina e Arabia Saudita paesi in via di sviluppo?
Cop29, delirio sui fondi salva-clima e Trump capro espiatorio
La Cop29 in questo senso è stato un tale, eclatante «tripudio di contraddizioni» che sarebbe difficile continuare a vaneggiare sulle colpe di Trump. Alla snobbatissima conferenza sul clima di Baku, in Azerbaigian (paese che vive di petrolio e gas), che si piccava di raccogliere ben 1.000 miliardi di dollari all’anno per la transizione, era tutto già visto.
Deliri sui fondi salva-clima (l’agenda green “net zero”, calcolava ancora Lomborg su Tempi, costerà probabilmente 27 mila miliardi di dollari all’anno per tutto il secolo, Cina, l’India e molti altri paesi in crescita e in via di sviluppo la abbandoneranno), allarmi, promesse, ipocrisie e il solito capro espiatorio: Trump che avrebbe rovinato tutto.
I “climatocrati” piangono i loro jet privati
Poco importa se in barba a tante promesse il mondo sta bruciando più petrolio, gas naturale e carbone di sempre, se esiste fortunatamente un modo migliore e più economico per affrontare il cambiamento climatico, se ovunque è partita la crisi di rigetto green e se – repetita iuvant – durante il primo mandato di Trump le emissioni di carbonio pro capite degli Stati Uniti erano scese dalle 16,1 tonnellate a persona del 2016 alle 14,9 del 2021, e se il suo ormai braccio destro (e teso), Elon Musk, sia uno dei più importanti produttori di auto elettriche al mondo.
«La decisione di Trump di ritirarsi dall’accordo di Parigi causerà grandi sofferenze, ma solo tra i “climatocrati”», commenta Ridley usando questo neologismo per definire quelli che «si sono abituati a viaggiare in business class in tutto il mondo, a provare il servizio in camera in hotel a quattro stelle e a chiacchierare fino a tarda notte sorseggiando single malt, per lo più a spese dei contribuenti». Non è uno sfottò a caso: «Il numero di jet privati atterrati a Baku nel periodo della conferenza dell’anno scorso era il doppio del solito. Se tutto questo ridicolo circo dovesse finire, ironicamente, ci sarebbero risparmi di emissioni degni di essere celebrati».
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