Si è raffreddato l’allarme sul clima

Di Bjørn Lomborg
14 Novembre 2024
Così tra catastrofismo insensato e politiche ambientali insostenibili è partita la crisi di “rigetto green”. Idee alternative per una ecologia intelligente
Protesta di Fridays for Future davanti alla sede della cancelleria a Berlino contro un nuovo piano di trivellazioni nel Mare del Nord, 16 agosto 2024 (foto Ansa)
Protesta di Fridays for Future davanti alla sede della cancelleria a Berlino contro un nuovo piano di trivellazioni nel Mare del Nord, 16 agosto 2024 (foto Ansa)

Mano a mano che le politiche climatiche continuano a far lievitare il costo della vita a fronte di risultati pressoché inesistenti, gli elettori diventano sempre più diffidenti nei confronti delle promesse ecologiche troppo espansive. Possiamo solo sperare che questo contraccolpo possa portare a misure migliori, più economiche e più efficaci.

È inevitabile che gli elettori guardino alle politiche climatiche con maggiore scetticismo, dopo aver avuto a che fare con attivisti che bloccano le strade e che si incollano all’asfalto, con celebrità che viaggiano su jet privati mentre ci impartiscono lezioni sull’uso dell’autobus e con provvedimenti che costano un mondo ma servono a poco. In occasione delle elezioni europee questo mutamento di opinioni si è tradotto in diversi paesi in una svolta a destra e nella percezione diffusa di un “rigetto green” [green backlash, ndt].

Come è noto in Germania era stato promesso che le politiche energetiche sarebbero costate ai cittadini appena l’equivalente di una pallina di gelato al mese. Oggi il prezzo pro capite sembra più paragonabile a quello dell’intero furgoncino dei gelati, visto che i costi hanno superato di gran lunga il mezzo trilione di euro. Analogamente, nel Regno Unito, in Germania e negli Stati Uniti è divenuto chiaro quanto siano opprimenti i costi per le famiglie di misure come la sostituzione di stufe o caldaie a gas, cosa che ha portato a ripetuti rovesciamenti politici.

In generale, il fenomeno a cui stiamo assistendo conferma ciò su cui gli economisti del clima ci mettevano in guardia da tempo: le politiche finalizzate alla transizione verso un’energia più verde sono per loro natura costose.

Non è la fine del mondo

McKinsey calcola che il costo di una transizione dai combustibili fossili all’energia verde ammonterebbe a più di 5 mila miliardi di dollari all’anno, e recenti stime economiche indicano che il conseguente rallentamento della crescita potrebbe rendere il suo impatto economico reale cinque volte superiore. Questo si traduce per i contribuenti delle nazioni più ricche nella insostenibile somma di 10-25 mila dollari pro capite all’anno. Non sorprende che Kamala Harris abbia sostanzialmente evitato di parlare di politiche climatiche durante la sua campagna presidenziale, dal momento che gli elettori sono sempre più consapevoli del loro costo esorbitante.

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Al tempo stesso, le politiche climatiche stanno sortendo effetti molto inferiori a quelli promessi. L’Inflation Reduction Act di Biden è stato acclamato per la sua capacità potenziale di ridurre drasticamente e rapidamente le emissioni già nel decennio in corso, al costo di circa 360 miliardi di dollari. Poi si è scoperto che il prezzo in realtà potrebbe aggirarsi sulle migliaia di miliardi, e che l’impatto sulle temperature è molto più contenuto. In Germania, la legge epocale per la transizione all’energia verde non ha raggiunto quasi nessun risultato: nel 2010, il 79,6 per cento dell’energia tedesca era alimentata da combustibili fossili; dodici anni dopo la percentuale era diminuita di soli 0,3 punti, scendendo al 79,3 per cento.

L’esasperazione degli elettori

La maggior parte dei paesi è decisamente concentrata sull’uscita dalla povertà, il che ha determinato un forte aumento delle emissioni da parte di Cina, India e Africa. L’anno scorso si sono registrate le emissioni globali più alte di sempre e i nuovi dati mostrano che l’Accordo di Parigi non ha fatto in pratica alcuna differenza nella velocità con cui il mondo si sta decarbonizzando.

Lo stridore del catastrofismo climatico esaspera anche gli elettori. È vero che il cambiamento climatico è un problema reale e di origine antropica, tuttavia i continui proclami sulla fine del mondo da parte dei media e degli attivisti sopravvalutano enormemente la situazione. E l’economia climatica indica che l’effetto complessivo del riscaldamento globale è negativo, certo, ma il suo impatto totale probabilmente equivarrà a una o due recessioni nel resto di questo secolo: è un problema, ma non è neanche lontanamente la fine del mondo.

Inoltre gli elettori naturalmente sono alle prese con molti altri problemi: inflazione, sanità, educazione e sicurezza. I risultati dei sondaggi evidenziano un cambiamento nel loro “sentiment”. Prima delle elezioni europee, per esempio, tra gli elettori tedeschi è emerso un netto calo delle preoccupazioni per il clima. E questo calo di preoccupazione non è limitato alla Germania, ma fa parte di una tendenza più ampia osservata in diversi paesi, tra i quali gli Stati Uniti, dove il cambiamento climatico si colloca ormai al di sotto della maggior parte delle altre questioni nella lista delle priorità degli elettori.

La forza dell’innovazione

C’è davvero bisogno di politiche climatiche più intelligenti e concrete. Ma ciò di cui abbiamo più bisogno è l’innovazione. Nel corso della storia, l’umanità ha affrontato le sfide più importanti non imponendo restrizioni, ma sviluppando tecnologie trasformative. Non abbiamo risposto al problema dell’inquinamento atmosferico mettendo al bando le automobili; abbiamo creato la marmitta catalitica, che ha ridotto le emissioni in modo significativo. Allo stesso modo, non abbiamo combattuto la fame spingendo le persone a mangiare meno; è stata la rivoluzione verde a mettere gli agricoltori in condizione di produrre molto più cibo.

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Negli ultimi trent’anni, tuttavia, l’innovazione nel campo dell’energia pulita è stata gravemente trascurata. Nel 1980 i paesi sviluppati destinavano alle tecnologie a basse emissioni di anidride carbonica oltre 8 centesimi di dollaro su 100 di Pil. Quando però si è cominciato a spostare le politiche climatiche verso l’aumento del costo dei combustibili fossili, la spesa per la ricerca green si è dimezzata, scendendo a meno di 4 centesimi su 100 dollari. È dimostrato che gli investimenti nella ricerca sulle fonti di energia pulita producono benefici significativi. Gli studi indicano che ogni dollaro investito in ricerca e sviluppo green potrebbe prevenire 11 dollari di danni climatici a lungo termine, fatto che la rende verosimilmente la più efficace strategia globale per il clima che abbiamo a disposizione.

La spinta di cui abbiamo bisogno

Quando la ricerca e lo sviluppo porteranno il costo dell’energia pulita al di sotto di quello dei combustibili fossili, tutti faranno la transizione, non solo i paesi ricchi, ma anche Cina, India e Africa.

La pazienza nei confronti delle attuali costosissime ma inefficaci politiche climatiche si sta esaurendo. Fortunatamente, però, proprio questa potrebbe essere la spinta di cui abbiamo bisogno per cambiare rotta e concentrarci su un’innovazione molto più economica che potrebbe davvero risolvere il problema del cambiamento climatico.

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Una versione di questo articolo è pubblicata nel numero di novembre 2024 di Tempi. Il contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

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