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Sono pazzi questi identitari

«I movimenti Lgbt, femministi e antirazzisti hanno vinto su tutta la linea, ma non basta: ottenuta l’uguaglianza, vogliono il privilegio. Ecco perché adesso ce l’hanno con chiunque non la veda come loro». Il dissenso di Douglas Murray, giornalista gay e firma dello Spectator

Rodolfo Casadei
10/08/2020 - 0:10
Magazine
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Manifestazione di Black Lgbtq Lives Matter

Articolo tratto dal numero di agosto 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

Commentatore dello Spectator, giornalista conservatore, gay e “ateo cristiano”, Douglas Murray, è l’autore de La pazzia delle folle, un saggio che fa il punto sulle contraddizioni e le minacce poste dai movimenti antirazzisti, femministi radicali e pro Lgbt che incarnano la politica identitaria. Ci ha rilasciato questa intervista sui temi contenuti nel suo libro recentemente edito in Italia.

Nel libro La pazzia delle folle lei mostra che i militanti e i fiancheggiatori dei gruppi identitari esprimono grande risentimento e hanno comportamenti persecutori nei confronti di coloro che non condividono la loro visione del mondo su ogni minima questione riguardante razza, sesso, identità di genere. Dipende forse dal fatto che ogni società ha bisogno di capri espiatori per continuare ad esistere, come ha spiegato René Girard?

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Sì, penso che ci sia un elemento “girardiano” in tutto questo, ma cominciamo dall’inizio. Io credo anzitutto che i gruppi identitari stiano soffrendo il fatto di avere vinto su tutta la linea. I diritti che chiedevano di vedersi riconosciuti sono stati ottenuti, molta gente ha avuto quello che voleva. Ora costoro si sentono come san Giorgio dopo che ha ucciso il drago. Vorrebbero provare di nuovo l’esaltazione della lotta contro il drago, ma il drago non c’è più, e loro cominciano a lottare contro draghi sempre più piccoli, con maggiore ferocia di quella che avevano contro il drago vero. Le cose non sono mai andate meglio per le persone Lgbt, eppure molte di loro presentano la situazione attuale come se le cose andassero sempre peggio, lo stesso dicasi delle femministe: hanno ottenuto quello che chiedevano, ma si comportano come se le cose fossero peggiorate anziché migliorate. Certo, ci sono ancora paesi dove i diritti umani non sono rispettati, ma in generale per quanto riguarda argomenti come la questione razziale, le persone Lgbt, i rapporti fra i sessi, storicamente ci troviamo in una posizione assolutamente migliore del passato. Eppure i gruppi organizzati presentano le cose come se non ci fosse stata alcuna vittoria. C’è un secondo fenomeno, ed è la crescente tendenza della nostra epoca a trattare come vittime sacrificali le persone che dicono cose che fino a qualche tempo fa erano comunemente accettate come vere. Per esempio se un uomo dice qualcosa riguardo alle donne che non coincide al 100 per cento col discorso ritenuto accettabile al giorno d’oggi, l’intera comunità colpirà quella persona con incredibile ferocia, e non perché ha detto qualcosa di totalmente falso, ma perché ha detto qualcosa che tutti sanno contenere una piccola parte di verità. Ogni deflagrazione nelle cosiddette “guerre culturali” provoca vittime in questo modo. Ed essa coincide con l’esigenza “girardiana” di far espiare i peccati a un singolo individuo, specialmente se quell’individuo ha fatto qualcosa per stimolare la pazzia delle folle. 

Il suo libro è stato pubblicato prima degli eventi che sono seguiti all’uccisione di George Floyd negli Stati Uniti e delle proteste che hanno visto anche attacchi a “monumenti razzisti” in tutto il mondo. Cosa pensa di queste proteste? Hanno a che fare con gli argomenti trattati nel suo libro?

Sì, tantissimo. Sono rimasto colpito dai collegamenti fra i fatti del Minnesota e quello che avevo scritto nel capitolo sulla razza. Ci sono i fatti: il terribile fatto di un’uccisione ripresa da una videocamera, al quale si sovrappongono in successione l’odio ossessivo che alcuni nutrono per l’America e per estensione a tutte le società occidentali e per estensione a tutti i bianchi. L’uccisione di George Floyd non è semplicemente un orribile incidente di cui sono responsabili i poliziotti che l’hanno causato e per il quale andranno a processo. No: essa rappresenta il momento in cui vediamo il vero volto del razzismo di tutti i bianchi, la lente attraverso cui si comprendono tutte le questioni razziali. La morte di George Floyd è diventata il catalizzatore di un modo di comprendere il mondo che è stato promosso dalle università americane e che dice che il problema del mondo è il razzismo dei bianchi. I quali, proprio quando dichiarano di non essere razzisti, dimostrano di essere permeati di razzismo, come spiega Robin DiAngelo nel libro White Fragility. Questo modo di vedere le cose è stato inculcato alle nuove generazioni, e uno dei fattori più evidenti è il suo voler fare “guerra alla storia”. Perché l’uccisione di un afroamericano in Minnesota produce sommosse a Bruxelles, saccheggi a Stoccolma e l’abbattimento di statue di personalità del XVIII secolo in Inghilterra? È una manifestazione di quella che nel libro definisco come la credenza nella necessità dell’eccesso di correzione: se veramente crediamo che tutta la storia è caratterizzata dal razzismo dei bianchi contro i neri, diventa opportuno correggere questo con un razzismo antibianco almeno per un certo periodo; trattare i bianchi male come loro hanno trattato i neri. E se crediamo, come è stato insegnato alla mia generazione, che la storia dell’Occidente può essere compresa solo attraverso la presenza di imperi che commerciavano schiavi, allora è normale guardare al passato in termini di rappresaglia e vendetta. Quel che più mi preoccupa di tutto questo è che assistiamo a un ritorno delle politiche basate sulla razza in nome dell’antirazzismo. Questo è molto pericoloso ed è ciò da cui metto in guardia.

In Italia ancora non si utilizzano alcuni concetti ed espressioni del suo libro, come quella di “intersezionalità” per descrivere la convergenza di identità di gruppo e discriminazioni. Per indicare un certo tipo di attivismo politico parliamo più genericamente di correttezza politica e di politicamente corretto. Lei presenta queste forze come espressione del “marxismo culturale”. 

Non basta parlare di correttezza politica per identificare le guerre culturali in corso nel mondo anglosassone. Pc, “politicamente corretto”, è un termine ambiguo, significa parecchie cose: sempre più spesso è usato nel senso di “buona educazione”, o per indicare che siamo tutti d’accordo nel dire una bugia. Il politicamente corretto non accetta la discussione, sottintende che ci sono cose che possono essere vere, ma che ferirebbero le persone, perciò non dobbiamo accettarle come vere. Vediamo per esempio l’attuale dibattito sui transessuali: il PC direbbe che è cosa educata dire ai trans che sono veramente persone del sesso che loro affermano di essere. Qualcuno potrebbe dire: ma non è la verità, non nego la dignità di queste persone ma dire che appartengono al sesso che dichiarano non è la verità. I fautori del Pc risponderanno: non importa, quel che importa è essere educati nei confronti dei trans. Però ci sono anche persone che lo fanno perché convinte che anche questo faccia parte delle guerre culturali. C’è una probabilità del cento per cento che chi è d’accordo con qualsiasi richiesta da parte dei trans, fosse pure quella che le donne transessuali possano competere alle Olimpiadi nelle gare con le donne biologiche, siano persone decise a mettere in discussione l’intero edificio sociale. In questo c’è un forte elemento marxista, e nel libro faccio l’esempio di filosofi come Ernesto Laclau e Chantal Mouffe, che dicono apertamente che è necessario fare ricorso alle minoranze sessuali e razziali e alle donne come avanguardia della rivoluzione, perché la classe operaia ha disertato la lotta. Alcuni, non solo fra gli studiosi, lo dicono apertamente. Ma c’è un gruppo più ampio di persone che affrontano l’argomento in maniera tendenziosa e lo discutono in modo deformato. Capiscono che fingere che i cromosomi non esistano è così profondamente disorientante per una società, che se riesci a far dire questo e a farlo credere, dopo di questo puoi far credere alla gente qualsiasi cosa. E questo è il sottofondo di molto di ciò che sta accadendo. Perciò sì, c’è un elemento di marxismo, che si manifesta ancora di più nel caso di Blm, il movimento Black Lives Matter. I fondatori e gli organizzatori di tale movimento sono marxisti per loro stessa ammissione. Questo non mi stupisce per nulla, e non perché io veda marxisti dappertutto, ma perché c’è un accento comune al modo in cui certe persone si organizzano. Quando una persona dichiara di essere favorevole a qualsiasi diritto rivendicato dai trans, potete essere certi che quella persona crede anche che il sistema capitalista deve essere decostruito e abbattuto. Lo stesso vale per Blm: i suoi organizzatori e fondatori dicono sempre che il razzismo strutturale che esiste nelle nostre società non può essere eliminato finché non si elimina anche il capitalismo. 

Che si tratti di marxisti oppure no, lei sembra convinto che la pazzia delle folle distruggerà la libertà di parola e di pensiero. Tre anni fa un intellettuale polacco, Ryszard Legutko, ha scritto un saggio intitolato The Demon in Democracy: Totalitarian Temptations in Free Societies, dove si sostiene che la liberaldemocrazia si sta trasformando in totalitarismo. Lo pensa anche lei? In futuro ci troveremo a dover scegliere esclusivamente fra estremi politici?

È possibile, e la cosa mi preoccupa. Ma credo anche che non sia inevitabile. La democrazia dipende dal popolo, e il popolo viene formato nelle istituzioni educative. Oggi siamo molto preoccupati perché le università sono incubatori di princìpi marxisti e quasi marxisti che producono una quantità sproporzionata di persone della nuova generazione che hanno subìto un lavaggio del cervello. Se invece noi producessimo persone brillanti e impegnate con una mentalità liberale nel vero senso del termine, tutto sarebbe differente. Non credo che abbiamo in noi una tendenza naturale al totalitarismo, credo invece che sia vero quello che scrive George Steiner nel suo La nostalgia dell’assoluto: i postmarxisti e i fautori della politica identitaria hanno idee assolutiste circa la nostra società. I loro tentativi sono pericolosi perciò come quelli precedenti, perché anche costoro pensano che la vita debba essere interamente politicizzata. Si è arrivati a pretendere che i figli disconoscano i padri e i nonni se questi non correggono i loro punti di vista. Non sto esagerando: in America recentemente si sono cominciati a fare test non agli studenti, ma ai loro genitori, per appurare le loro credenziali antirazziste prima di ammettere i figli nell’istituto. Quando dico questo, alcuni reagiscono scandalizzati: “Douglas, come puoi paragonare i combattenti per la giustizia sociale ai comunisti?”. Costoro dimenticano una costante della storia: coloro che cercano il potere e vogliono che siate d’accordo con loro, dicono di farlo nel nome del bene, non del male. Anche i fascisti e i comunisti agivano così. Lo stesso accade con i sostenitori dell’intersezionalità, che dicono: se tutti si schierassero con noi, e ripetessero le cose che noi diciamo, e sono cose che ogni uomo assennato dovrebbe ripetere, tutti sarebbero felici e buoni. Possiamo evitare questo nuovo totalitarismo se abbastanza persone con una vera mentalità liberale affermeranno seriamente il diritto a parlare sulla base dei fatti, a dibattere le idee e non a cancellarle, come è stato fatto in questi tempi da parte di persone che pretendono che chiunque si opponga a loro sia un razzista, un omofobo, un misogino e altro ancora. 

Lei pensa che omosessuali e transessuali abbiano bisogno di leggi contro l’omofobia e la transfobia nella forma di norme che li proteggono da “atti discriminatori”, senza che sia specificato nella legge in cosa consista una discriminazione? Si tratta della situazione che stiamo vivendo in Italia.

So che c’è una discussione su questo, non la conosco nei dettagli. Sono estremamente cauto per quanto riguarda il legiferare su questa materia. Non dico che non debbano esistere, ma sono estremamente cauto, sarebbe addirittura meglio farne a meno a causa del potenziale che presentano di uso improprio. Ci saranno sempre richieste di diritti in competizione fra di loro sulla base di queste norme. A meno che non ci siano clausole molto precise nella legge, si creerà una costante tensione fra i diritti delle minoranze sessuali e i diritti della libertà religiosa. Questo è successo in tutti i paesi dove queste leggi sono state introdotte e bisogna essere enormemente prudenti per affrontare tali situazioni. Sono stato fra i fautori del matrimonio gay di rito civile nel mio paese. Ho sostenuto che lo Stato deve poter riconoscere relazioni stabili a prescindere dall’orientamento sessuale dei contraenti. Ho influenzato la posizione di David Cameron, quando era primo ministro, su questo argomento. Ma un aspetto cruciale è che nessuna istituzione religiosa dovrebbe essere punita se non è d’accordo con questi matrimoni. Si tratta di uno dei più importanti assetti del moderno Stato secolare: lo Stato non può imporre a chi è religioso cosa deve credere, e in cambio la Chiesa non può esercitare competenze su persone che non sono suoi membri affiliati. Questo è l’accordo a cui siamo pervenuti nei nostri paesi occidentali, e credo che sia un’ottima soluzione. Le leggi pro Lgbt mettono a repentaglio questo accordo, e anzi lo capovolgono: si arriva a discriminare le persone religiose come in passato si discriminavano le persone Lgbt. Ci sono protezioni che sono necessarie: un gay deve poter ricorrere in giudizio se qualcuno lo licenzia solo per il fatto che è gay. Io stesso sono gay, e credo che le persone Lgbt abbiamo diritto all’eguaglianza di trattamento, ma determinare che cos’è questa uguaglianza richiede molto equilibrio. Molti gruppi Lgbt, come pure femministi e delle minoranze razziali, intendono andare al di là dell’uguaglianza per approdare al privilegio. E questo è un corso delle cose che non è accettabile al resto della popolazione, e penso che provocherà significativi problemi negli anni a venire. Se un’agenzia cattolica per le adozioni non è disposta a fornire i suoi servizi a coppie dello stesso sesso a motivo delle sue convinzioni religiose, credo che lo Stato non debba costringere quell’agenzia a cambiare le sue convinzioni.

È quello che è successo in Inghilterra, e le agenzie cattoliche si sono viste costrette a chiudere le loro attività.

Lo so, ed è una cosa intollerabile, è una cosa assolutamente sbagliata.

Lei definisce la nuova ideologia una religione, e dagli esempi che ne dà appare come una religione fanatica. Nell’ultima parte del libro suggerisce il perdono come unica via d’uscita dal risentimento e dalla guerra civile strisciante che stiamo vivendo, e cita a questo proposito l’Hannah Arendt di Vita activa. Il perdono ha a che fare con la religione. Abbiamo bisogno delle religioni della varietà tradizionale per contrastare il culto fanatico della giustizia e dell’uguaglianza?

Il mio punto di vista è che tutti i movimenti possono tendere al fanatismo e all’assolutismo. E la religione, storicamente parlando, non è innocente al riguardo. Ma ciò che è preoccupante della nuova religione che descrivo è che è priva di meccanismi per il perdono. La religione cristiana dispone di un istituto del perdono molto forte, questa è una delle grandi cose del cristianesimo. Una religione senza perdono sarebbe terribile, ed è ciò che vediamo sorgere: se metti un passo in fallo, ne sarai responsabile per sempre, non c’è modo di espiare. Così funzionano i social media, e i giovani ne sono terrorizzati, perché sanno che un solo passo falso può significare la totale distruzione di ogni prospettiva di felicità, e questa è una follia. Bisogna trovare una risposta, e la risposta non è il ritorno alla società cristiana. La risposta è una società concentrata sull’eguaglianza dei diritti e sulla libertà di pensiero. Ma se vediamo i risultati del movimento della politica identitaria, mi viene in mente una citazione da Eric Hoffer: «Ogni grande causa comincia come un movimento, diventa un business, e infine degenera in un racket». Questi movimenti dovrebbero accettare la loro vittoria con sobrietà e non costringerci a giocare un gioco intollerante dove nessuno può vincere.

@RodolfoCasadei

Foto Ansa

Tags: antirazzismoblack lives matterddl ZanDouglas MurrayGeorge Floydidentity politicslgbtmarxismoOmofobiaPoliticamente Correttorazzismotempi agosto 2020
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