«E il settimo giorno, cessò il Santo Benedetto Egli sia, ogni sua opera e si riposò». Ki vo shavat mikol melachtò. Shavat in ebraico significa “cessare” e Shabbat, dalla stessa radice grammaticale, è il nostro Sabato: il Sabato del Popolo ebraico. Shabbat e D-o sono rappresentati come due sposi, come due innamorati che si incontrano una volta ogni sei giorni ed è gioia, è festa, la delizia sublime di un Re che anela alla sua Regina lontana e al suo amore. E questa settimana il nostro è stato uno Shabbat speciale. Un evento. Qualche anno fa, in una gita nel deserto, ci imbattemmo in un uomo ferito che, a causa del suo peso, una mole enorme, era stato abbandonato nell’anfratto di un wadi, nella gola di un canion. Dagli abiti neri, il cappello e i boccoli ai lati delle orecchie capimmo che era un religioso ortodosso e chiedemmo se avesse bisogno di aiuto. Lui ci guardò sconsolato: per risalire la montagna mancavano perlomeno 15 chilometri a piedi. Yehuda, il mio compagno, con un sorriso gli mostrò la corda da montagna con tutti gli attrezzi da rocciatore e con lo slancio muto e sereno dei sabre nati nell’incerto costante, si caricò quei 150 chilogrammi sulle spalle e si arrampicò su per trenta metri di parete rocciosa. L’uomo, ancora sotto shock per aver partecipato in prima persona a un’azione esemplare del tipo “teste di cuoio” chiese con le lacrime agli occhi il nome, l’indirizzo e tutti i particolari del suo “Salvatore”. Quando Yehuda risponde che era nato e viveva nel kibbutz Sasa è come se di colpo l’uomo fosse ricaduto nello strapiombo. «Kibbutz Sasa? Ma è un Kibbutz laico e per di più comunista!». Col solito sorriso serafico, Yehuda lo guardò e non disse nulla. Che avrebbe potuto dire? Conosce gli stereotipi qui in Israele e nel mondo, le demonizzazioni, le generalizzazioni. Non c’è da offendersi o stupirsi più di tanto. C’è solo da far in modo di rimanere chi si è con i propri valori, le proprie verità. Se una persona è in difficoltà fa differenza da dove venga? Chi sia?
Un Shabbat diverso
Per Efraim, di Gerusalemme, padre di 9 figli, è nata una nuova era. Diveniamo i suoi ospiti d’onore negli avvenimenti di famiglia e più volte ci invita a trascorrere uno Shabbat, la massima espressione della santità, a casa loro, con tutta la famiglia a Gerusalemme. Uno Shabbat diverso, da ebrei religiosi. E questa settimana, finalmente partiamo. La tavola è già imbandita con quattordici coperti, sembra che tutto brilli intorno: ci sono le due candele dello Shabbat e una candela per ognuno dei figli. Accanto a ogni piatto un piccolo libro di salmi e di canti di pace, di angeli e di luce. Non so se sia più grande l’emozione di avere in casa un “Salvatore” in carne ed ossa o quella di avere un agnostico vero in carne ed ossa, tutti ci girano intorno, chiedono del nostro lungo viaggio dalla Galilea a lì, si complimentano col fatto che siamo riusciti ad arrivare prima che scendesse il sole per non profanare la santità del Sabato. Con grande emozione ci chiedono se ci farebbe piacere accompagnarli in Sinagoga. Figuriamoci. Pensavano che non vi avessimo mai messo piede. Ci separiamo: gli uomini con gli uomini, le donne con le donne. Io, in un attimo corro ad indossare una gonna lunga, con una camicetta a maniche lunghe e copro accuratamente il capo e i capelli (elemento, per loro, di grande seduzione e quindi assolutamente vietato da mostrare) con un foulard… e via per la strada, una via lunga agli estremi della quale due sbarre impediscono a qualunque veicolo di entrare. Ogni due palazzi c’è una Sinagoga. Si sentono i canti, le stesse parole in ritmi e tradizioni diverse, quelli allegri dei Hassidim della Volinia, quelli appassionati dei rabbini della Lituania. Poi, il primo pasto, con la santificazione del vino, i canti, e tutti i simboli: la challà, il pane del Sabato dal quale è stato tolto un pezzettino e bruciato in ricordo della distruzione del grande santuario, il pesce, simbolo della vita, la lettura del brano della Bibbia della settimana. Efraim conduce con dolcezza in un viaggio fantastico nella logica esegetica, Rivki e Haia (prima e terza elementare) due delle sue figlie, che spiegano, rispondendo alle sue domande ciò che è scritto nella Genesi riguardo ad Abramo quando si accinge a comprare la tomba di Hevron per seppellire la sua Sara e dice «Io sono straniero in questa terra e abitante nello stesso tempo». «Cosi è oggi il nostro popolo qui in questa terra d’Israele – spiega Efraim – siamo passeggeri e abitanti nello stesso tempo, la terra può essere veramente nostra solo se la meriteremo, se sapremo rispettare le Leggi che D-o ci ha dato. L’essere stati scelti dal Signore è una responsabilità ardua!». Ogni momento della serata è dedicato a uno dei figli. I ragazzi benedicono, le bimbe distribuiscono il pane. Aaron, 12 anni, spiega alla famiglia un versetto del Talmud, dai suoi studi nella yeshivà, dove è scritto: nella grotta di Machpelà a Hevron vi erano sei tombe per seppellire i pii dopo la loro morte e una tomba per un morto che non era stato pio. E con un sorriso bellissimo che smaschera una fossetta e dei denti bianchissimi, precisa: «Chi è pio nella vita e fa buone azioni ha veramente vissuto ma l’empio è come se fosse vissuto come un morto!». Alla fine del pasto il capo di casa e tutti i figli inneggiano alla mamma «chi troverà una donna di valore?». E lei, Ruth, nascondendo un sorriso modesto e fugace, mi racconta che ogni mattino del Sabato alle cinque si reca al Muro Occidentale per le preghiere. Quando le chiedo di aggregarmi, l’espressione incredula di chi pensa di non aver capito bene la domanda le si disegna in volto. «Andremo a piedi, con delle amiche, ci sono 50 minuti di cammino, fa freddo, e si passa per la porta di Damasco, proprio nel quartiere arabo. Non hai paura?». Penso in cuore che D-o sarà d’accordo a proteggere anche me. Ma dico: «Anch’io i miei Hezbollah a due passi dalla finestra lassù vicino al Libano… Penso che ce la farò!».
Davanti al Muro
E al mattino, a due minuti alle cinque siamo in strada, la via è buia ma non deserta: uomini avvolti nei grandi scialli bianchi camminano frettolosamente nella stessa nostra direzione. E a piedi, attraverso Mea Shearim, il quartiere ortodosso, l’unico rumore sono i nostri passi. Parliamo di precetti, di matrimoni combinati, del motivo per cui lei e Dvora, la figlia maggiore, indossano parrucche e non cantano con tutti intorno al tavolo: «Nel Cantico dei Cantici è scritto: “Fammi sentire la tua voce oh amata, perché la tua voce risveglia il mio amore”. Come i capelli, la voce di una donna è dedicata solo al suo uomo». Davanti alla porta di Damasco, sotto quegli sguardi strani ho un attimo di panico. «Non prenderanno come una provocazione il fatto che entriamo nella città vecchia proprio da qui?». «Perché? Non stiamo ballando o cantando, non ci siamo accampati, stiamo solo passando per andare a pregare! Se volessero passare per il nostro quartiere saremmo ben contenti. Noi non facciamo nulla di male. Perché dovrebbero farcene a noi?». Poi parliamo delle disgrazie che stanno abbattendosi sul popolo ebraico e su tutto il mondo e con calma mi dice che tutto questo non avviene per caso. Queste terribili sofferenze che il mondo sta vivendo dovranno finire. Forse sono solo le doglie per dare luce al Messia. Dobbiamo credere che sia così per non spegnerci di angoscia! È vero, molti, troppi non arriveranno a quel momento benedetto ma come è scritto nel Cantico dei Cantici: «Sono sceso nel giardino per cogliere le rose più belle… D-o ha voluto con sé le rose più belle… Molti sono già accanto a D-o!». Entriamo nei vicoli, passiamo davanti alla terza tappa della Via Dolorosa. Era un anno, dal mio ultimo viaggio con i pellegrini, che non tornavo più qui. Giù per l’ultimo vicolo, forse il più buio di tutti, improvvisamente, come un fascio di luce, appare la piazza del Muro. Mancano cinque minuti alle sei. Il cielo è di fuoco e per un attimo un silenzio pieno di santità ci avvolge: è il Nez Achamà, la prima scintilla di sole che illumina tutto e la preghiera ha inizio. Prendo un Libro dei Salmi, lo apro a caso come faccio spesso: nella testa e nel cuore un milione di emozioni. Mi sembra di parlare direttamente con D-o, guardo il Muro in tutta la sua maestosità, mi sembra di sentire nelle viscere la voce di Gal, il mio primogenito, che si arruolerà all’esercito fra poco. Mi guardo intorno, vengo travolta da questa pace, da questo silenzio. Possibile che nessuno si preoccupi? Che nessuno pensi che da un momento all’altro potrebbero spararci dall’alto? Che Bin Laden ha la bomba atomica? Che in qualche lettera potrebbe esserci l’antrace? È come se tutto fosse fermo. Fermo in questo Shabbat benedetto dove c’è D-o che vede, che sa, che cura, raccoglie, protegge i suoi fiori. Lui sa il perché di ogni cosa. E noi possiamo solo cercare di vivere nel modo migliore possibile, più positivamente, generosamente, responsabilmente possibile. Alla sera ci congediamo dallo Shabbat cantando. «Questo è il momento in cui i due innamorati sembrano amarsi di più… il momento della separazione» dice Efraim. Poi benediciamo con una piccola colomba di ceramica che sprigiona profumi di lavanda. «Quando l’anima dello Shabbat esce e ti abbandona, ti sembra di svenire, hai bisogno di forze. Questo profumo ti da un po’ di energia, per tutta la settimana a venire». E con quel profumo e quell’energia ce ne andiamo, ritorniamo sul nostro confine verso nord e ci lasciamo dietro una Gerusalemme scintillante di luci. E anche di speranza. Una Gerusalemme di tutti, dove brillano cupole d’oro di moschee, dove rintoccano campane di chiese e dove c’è una sinagoga a ogni angolo. Perché così deve essere. Ed è giusto che sia così!