
«I morti palestinesi ci sono utili». Il doppio calcolo cinico del leader di Hamas

Da otto mesi nella guerra più lunga mai combattuta da Israele si aggiungono ogni giorno dei capitoli. Giungono sempre nuove notizie dal fronte e le voci che filtrano dalle stanze dove i mediatori internazionali tessono piani di pace ogni volta vengono, puntualmente, smentite e i loro progetti smantellati.
È un mosaico intriso di sangue, bombe e massacri, a cui manca sempre qualche tessera. Un puzzle infinito che dovrebbe comporre un disegno, se non di pace, almeno che tracci le linee di una tregua. Di un cessate il fuoco tutti parlano, ma nessuno se ne vuole assumere la responsabilità: nessuno vuole deporre le armi per primo. I piccoli passi, gli aggiustamenti, i dettagli da chiarire di volta in volta sono in realtà macigni.
Ogni pagina che si apre viene subito chiusa da nuove condizioni. Le mediazioni si infrangono nel continuo rimbalzo di messaggi tra Il Cairo, Doha e Gaza.
«Il segretario di Stato Usa Anthony Blinken non è la soluzione, è parte del problema», dice ora Osama Hamdan, portavoce di Hamas in Libano e membro dell’ufficio politico che, pochi giorni fa, sembrava favorevole al piano proposto dagli Stati Uniti. I motivi sono chiari: per il governo israeliano è impensabile una trattativa che comporti il riconoscimento di Hamas come controparte (e forza combattente che potrà ambire a continuare ad esercitare il controllo futuro di Gaza). Di contro, per Hamas è altrettanto impensabile una tregua che abbia come condizione il proprio smantellamento. Per entrambi sarebbe ben più di una sconfitta. Israele non crede che Hamas rinunci al terrorismo e Hamas sa che dovrebbe abbandonare le armi e i suoi capi lasciare la Striscia.

«I morti ci sono utili»
Il piano del presidente statunitense Joe Biden prevede in tre fasi la liberazione degli ostaggi, il ritiro delle truppe israeliane, l’ingresso di nuovi aiuti umanitari fino al cessare il fuoco permanente e la ricostruzione di Gaza (il piano sostenuto dalla mozione approvata dell’Onu). Ma qualunque siano le correzioni a questa road map, le conseguenze sono semplicemente due: Israele rimette il calendario indietro al 6 ottobre del 2023 e, più o meno, tacitamente, si comporta come se Hamas fosse una milizia, sia pur nemica, e non una orda di terroristi stupratori e assassini. E, specularmente, Hamas accetta di scomparire dalla scena e i suoi capi se ne vanno in Qatar o in Turchia o in Iran, dove hanno basi e consistenti fondi, lasciando il campo ad una nuova rappresentanza palestinese.
Tutto sembra possibile, ma questo no. Yahya Sinwar, il vero capo di Hamas a Gaza, lo ha detto chiaramente dopo l’attacco israeliano che ha permesso la liberazione di quattro ostaggi in cui sono rimasti uccisi oltre duecento palestinesi e un solo israeliano: «Questi morti ci sono utili», ha scritto ai leader di Hamas che stanno a Doha, ricordando le centinaia di morti nelle guerra di Algeria e rafforzando il parallelo tra le guerre arabe di liberazione anticolonialiste e «il fronte della resistenza anti israeliano, che accumuna Hezbollah e Hamas sotto l’egida iraniana». È un messaggio che punta ad allargare l’orizzonte del mondo islamico chiamato a combattere contro l’Occidente di cui Israele sarebbe la longa manus in Medio Oriente.
Nella visione di Sinwar c’è un mondo dominato da potenze guidate da Stati Uniti ed Europa che sfrutta i «diseredati della terra» (espressione cara ai fondamentalisti islamici) con la complicità dei paesi arabi moderati le cui élite si sono formate nei college inglesi e americani. Secondo il leader che comanda sul campo le truppe di Hamas, «finché i combattenti saranno ancora in piedi e non avremo perso la guerra, i negoziati dovrebbero essere immediatamente interrotti. Abbiamo le capacità per continuare a combattere per mesi».

Prestigio internazionale
Sono dichiarazioni riportate da fonti di intelligence e pubblicate sul Wall Street Journal, che da mesi sembra disporre di informazioni di prima mano sulla strategia di Hamas. È una strategia che punta a far dimenticare al mondo l’orrore del 7 ottobre, mostrando ogni giorno le devastazioni di Gaza ad opera dell’esercito israeliano e che mira ad accendere la miccia delle proteste neoglobal e propal in Occidente e nelle stesso palazzo dell’Onu. Gli effetti li stiamo vedendo.
Yahya Sinwar ad ogni nuova proposta di accordo, puntualmente rinviata, sembra uscire rafforzato nel suo ruolo di nuovo leader del mondo islamista, perché può contare sempre più, pur essendo a capo di una formazione sunnita, sull’appoggio degli sciiti iraniani. Lo ha riconosciuto in modo esplicito il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, dopo che da alcuni leader di Hamas erano venuti segnali di consenso al piano Biden: «La sola parola che conta è quella di Sinwar».
Ironia della sorte perché Sinwar sa bene il valore della trattativa, visto che nel 2011 fu rilasciato dalle carceri israeliane, dov’era detenuto per terrorismo, in cambio del soldato israeliano Gilad Shalit, rapito da Hamas. Una trattativa durata cinque anni in cui Israele scambiò Shalit con il rilascio di oltre mille palestinesi. Sinwar è convinto che più alza la posta più ottiene non solo in termini di scambi di prigionieri, ma soprattutto in prestigio internazionale. Un calcolo cinico, al pari di quello sulle «morti utili» dei palestinesi.
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