Le nazioni occidentali nell’ultima settimana hanno imposto le sanzioni economiche più radicali nei confronti di un grande paese da diversi decenni a questa parte, una mossa che sembra avere la forza di paralizzare l’economia russa e aumentare notevolmente i costi dell’invasione dell’Ucraina. Secondo sempre più esperti, tuttavia, è poco probabile che tutto ciò basti a indurre il presidente russo Vladimir Putin a ritirare le sue truppe dall’Ucraina, o anche soltanto a indebolire il suo potere.
Le sanzioni basteranno a fermare Putin?
In una lunga analisi storica il Wall Street Journal spiega che «le sanzioni hanno precedenti contrastanti, spesso non riescono a causare un drastico cambiamento di comportamento, in particolare in paesi autoritari come la Russia». Quando si tratta «di obiettivi come il cambio di regime o l’annullamento di un’azione militare contro un altro paese, le sanzioni funzionano solo nel 5 per cento circa delle volte». Il tema è dibattuto, l’Economist fino a qualche settimana fa sosteneva che la Russia avrebbe saputo reggere alle conseguenze economiche di una guerra mentre oggi ammette che molti dati fanno pensare al contrario.
Nonostante tutti i loro limiti, però, osserva il quotidiano conservatore americano, le sanzioni restano decisamente una mossa «migliore di non fare niente, cosa che probabilmente incoraggerebbe un comportamento più aggressivo da parte della Russia e forse di altri paesi come la Cina, affermano molti scienziati politici. E più a lungo si trascina l’occupazione russa dell’Ucraina, più le sanzioni aumentano i costi per Putin».
Le preoccupazioni della Casa Bianca
È proprio qui però che nasce un dilemma raccontato venerdì dal New York Times in un pezzo in cui alcune fonti all’interno della Casa Bianca spiegano che gli alti funzionari del governo americano che decidono la strategia per affrontare la Russia sono preoccupati dal fatto che la valanga di sanzioni dirette a Mosca, stia effettivamente mettendo alle strette Vladimir Putin tanto da rischiare di spingerlo a «scatenarsi», addirittura espandendo il conflitto oltre l’Ucraina. La tendenza del presidente russo, sostengono i funzionari dell’intelligence americana alla Casa Bianca e al Congresso, è quella di raddoppiare gli sforzi quando si sente intrappolato dai suoi stessi eccessi.
Le sue possibili reazioni, scrive il Nyt, «vanno dal bombardamento indiscriminato delle città ucraine per compensare gli errori commessi a inizio invasione, agli attacchi informatici diretti al sistema finanziario americano, a più minacce nucleari e forse mosse per portare la guerra oltre i confini dell’Ucraina». Gli Stati Uniti non escludono nessuna ipotesi (nemmeno quella, decisamente parziale, sullo stato mentale di Putin alterato dal Covid) ma osservano con sempre maggiore preoccupazione il cosiddetto “problema di Putin messo alle strette”.
La presa di posizione di Lukoil
Queste preoccupazioni partono da una serie di annunci recenti: il ritiro delle compagnie petrolifere come Exxon e Shell dallo sviluppo dei giacimenti petroliferi russi, le mosse contro la banca centrale russa che ha fatto precipitare il rublo e l’annuncio a sorpresa della Germania che avrebbe ritirato il divieto di inviare armi alle forze ucraine e aumentare la spesa per la difesa. Non solo, giovedì Lukoil, la seconda compagnia petrolifera russa, si è apertamente schierata contro la guerra, chiedendo «una rapida fine del conflitto armato attraverso un processo di negoziazione». Il presidente americano, Joe Biden, ha annunciato nuove sanzioni che colpiscono gli oligarchi russi e ha spiegato che hanno avuto «già un profondo impatto».
Ma Putin continua ad attaccare
Le sanzioni faranno male alla Russia, anche se – come spiegava lo Spectator – il modo definitivo per colpire economicamente Mosca sarebbe quello di smettere di acquistare il gas. Sulla carta Putin non ha le forze per resistere nel medio periodo alle misure adottate dall’occidente nei suoi confronti, eppure prosegue la sua marcia verso Kiev e intensifica gli attacchi militari. Non è quindi questo il momento per ridurre le sanzioni, anche se la fonte interna al Dipartimento di Stato sentita dal New York Times parla di «sfumature» e di possibili vie d’uscita per il leader russo. «La politica americana non era quella di cercare un cambio di regime in Russia, ma solo di influenzare le azioni di Putin», conclude il Nyt. E le sanzioni non sono pensate come punizione, ma come leva per porre fine alla guerra. Aumenteranno se Putin intensificherà gli attacchi, saranno ricalibrate se li diminuirà. E viceversa, però.