Ripartire con la memoria di un tempo che non è stato “sospeso”, ma “nuovo”

Di Giancarlo Cesana
16 Giugno 2020
Con il Covid abbiamo imparato che non siamo né indipendenti, né onnipotenti; che la realtà ci si può rivoltare contro; che abbiamo bisogno di essere aiutati e sostenuti. Bisognerebbe dire salvati
Visita a un anziano genitore in casa di riposo durante l'emergenza coronavirus

Articolo tratto dal numero di giugno 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

Quindi abbiamo riaperto, ricominciato. Ricominciato cosa? La domanda è meno peregrina di quanto sembri. 

“Ricominciato a uscire”, verrebbe da rispondere immediatamente. Anche prima andavamo fuori all’aria aperta, in giardino i più fortunati, per una passeggiatina i più coraggiosi, visti i pericoli di contagio, i limiti e le sanzioni, per lavorare quelli che non potevano farne a meno. Adesso c’è più libertà: ci si può allontanare oltre i 200 metri da casa, si può fare jogging e ciclismo, ci si può incontrare con cautela e mascherina con altri, pochi e per poco tempo. È diverso da prima, ma è anche una novità piccola, non entusiasmante se non per i dipendenti dall’attività fisica, che non sono pochi a vivere tra lo sport e il telefonino che certifica e celebra i loro primati. 

“Abbiamo ricominciato a lavorare”, si potrebbe rispondere in termini più pesanti e impegnativi. Effettivamente i più lavoravano anche prima, a casa, con il cosiddetto smart working, che significa “lavoro intelligente”. Però un lavoro è intelligente non se si fa a casa, ma se il suo contenuto non è bolso e burocraticamente ripetitivo. Di fatto i lavori che si possono fare da casa sono soprattutto questi ultimi. Sì, ci sono lavori creativi, per esempio di progettazione, che si possono fare da casa, nel proprio studio, perché lì si facevano anche prima: non c’era bisogno del coronavirus. I lavori in cui bisogna muovere le mani su oggetti e mezzi, bisogna farli dove questi oggetti e mezzi stanno, e quindi fuori. Riguardano le persone che hanno continuato ad andare a lavorare durante il lockdown. Infine ci sono quelli che, chiusi in casa, hanno fatto poco o nulla, perché in cassa integrazione – il licenziamento adesso dovrebbe essere proibito. Non sono pochi e per loro ricominciare a lavorare può essere assai incerto e problematico; a questi possiamo aggiungere i disoccupati, già da prima. 

Fin qui, con Qoelet, libro della Bibbia altrimenti noto come Ecclesiaste, potremmo dire «niente di nuovo sotto il sole». In fondo è tutto come prima: la “ripartenza” è solo un’illusione, falsa aspettativa in una vita che in fondo è sempre uguale. 

Invece no. Tutti, eccetto chi ha la sensibilità del sasso, sappiamo che non è così. Come suggerisce il recente e-book di Julián Carrón, presidente di Comunione e Liberazione, Il risveglio dell’umano (Bur Rizzoli), il Covid ha cambiato, eccome, le nostre vite. Durante le ristrettezze dell’epidemia non siamo stati senza far nulla. Magari non abbiamo lavorato e siamo poco usciti ufficialmente, ma ci siamo dati da fare molto dentro e, per quello che abbiamo potuto ed è stato necessario, anche fuori. Abbiamo avuto paura di una malattia grave e potenzialmente mortale. In molti, soprattutto qui in Lombardia, abbiamo perso persone care, che sono improvvisamente scomparse dalla nostra vista, morendo soffocate in solitudine; abbiamo pregato, abbiamo pianto con chi si poteva. C’è chi, anziano, si è trovato solo, isolato, con il cibo consegnato fuori dalla porta, senza poter incontrare i figli o coloro che gli erano solitamente vicini. Chi non aveva nemmeno questi si è sentito semplicemente solo, abbandonato in una condizione di minaccia ingigantita. 

Domandare a qualcuno

Poi ci sono state situazioni più allegramente insolite ed educative: mamme che non erano mai state così a lungo con i loro bambini, conoscendo meglio i loro insegnanti; papà che hanno dovuto fare lo stesso, obbligati a guardare in faccia le loro mogli o compagne, e viceversa. Chi ha potuto, o aveva predisposizione, ha trovato sfogo nel giardinaggio, o nel canto sul balcone, o nell’esposizione della bandiera italiana e arcobaleno.

Insomma, non si può dire che durante la chiusura per epidemia non si è fatto nulla. Anzi abbiamo fatto molto, diverso da prima, ma molto. Abbiamo pensato a noi stessi, a quelli che abbiamo in casa, ai vicini isolati, alle sirene delle ambulanze che avvisavano della precarietà della vita, agli ospedali superaffollati dove mancava il respiro, ai medici e agli infermieri, che, per quanto impotenti, facevano di tutto per assistere. Per giorni, abbiamo lasciato spazio, come raramente era successo prima, a domande sul destino nostro e del mondo, a una preoccupazione non solo economica (anche!) per il futuro. Magari abbiamo cercato risposte. Abbiamo cercato qualcuno a cui chiedere perché più cosciente di una strada da percorrere insieme. Senza questo qualcuno, infatti, le domande o se ne vanno come un respiro profondo ma breve, o permangono come un grido che a lungo si dispera. 

Non ripartiamo adesso. Per quanto con fragile consapevolezza, siamo ripartiti veramente durante il lockdown, o almeno ci siamo svegliati dal sonno di un’abitudine in cui tutto, comprese le preoccupazioni, era uguale e scontato. Se non abbiamo vissuto inutilmente chiusi in casa per oltre due mesi – speriamo proprio di no – ripartire adesso è innanzitutto conservare la memoria, la maggior coscienza di noi stessi che abbiamo acquisito proprio attraverso interrogativi, timori, attività e rapporti insoliti. Questi ultimi, in particolare, sono stati tali non solo perché troppo distanziati, schermati da un video, o troppo vicini, circoscritti nelle tre stanze e anche meno di un appartamento, ma perché ricercati nel primo caso o subiti nel secondo. E le due condizioni sono solo apparentemente opposte. 

In guerra con se stessi

Per metterci in contatto attraverso un computer o un telefonino abbiamo dovuto volerlo; per non esplodere di fronte alla persistenza fisica del limite altrui, abbiamo dovuto accettarlo e quindi, per quanto a malincuore, volerlo. Mai siamo stati attivi nel giudizio come nei giorni oscuri della pandemia. Un mio amico magistrato mi ha detto che era impressionato dal notevole calo delle denunce per litigi e violenze domestiche. Un altro amico ha sornionamente commentato che, dovendo convivere, prendersi a botte non conviene. Appunto, il giudizio è necessario e concorre alla pace, magari armata, ma sempre pace. Paul Claudel nell’Annuncio a Maria dice che «la pace, chi la conosce, sa che la gioia e il dolore in parti uguali la compongono», e don Luigi Giussani aggiunge che la pace non è un atteggiamento irenico, la contemplazione soddisfatta di un mondo dove tutto va bene, ma è una guerra con se stessi, con l’egoismo ostinato che danna noi e quelli con cui abbiamo a che fare. Riaprire e ricominciare, come sta avvenendo in questi giorni, chiede di non spegnere, bensì di continuare con maggiore decisione tale guerra. Tutti dicono che ci vorranno sacrifici, evidentemente anche nostri, non solo degli altri. E sacrificio significa amare la verità più di se stessi, non per masochismo, ma perché senza verità nemmeno è possibile la nostra realizzazione. 

Con il Covid abbiamo imparato, se mai ce ne fosse bisogno, che non siamo né indipendenti, né onnipotenti; che la realtà, apparentemente controllata, ci si può rivoltare contro mettendoci in ginocchio; che abbiamo bisogno costantemente di essere aiutati e sostenuti. Se non fosse una parola troppo corrosa dal pregiudizio e dal cinismo, abbiamo bisogno di essere salvati e non in nome di una verità astratta, discorso o analisi sociale, ma della verità che è una presenza amica e concreta. Quando siamo seriamente ammalati non bastano le teorie diagnostiche e la telemedicina, ci vogliono mani che operino, braccia che sollevino e soprattutto un cuore dedicato. Come è successo! 

Il Vangelo dice che non c’è amico più grande di chi dà la vita per un altro – come è successo, lo ripeto, per alcuni operatori sanitari, qualunque fosse la loro consapevolezza. Dare la vita significa spenderla, metterla a disposizione di un bene, individuale e collettivo, che si realizza nell’amicizia, come stima reciproca, secondo non la convenienza ma la tensione al destino per cui tutti siamo fatti. È il lavoro che si deve fare per stare meglio: il primo e più banale compenso è il salario o stipendio, che assicura il pane, come si diceva una volta – adesso ci vuole ben altro. L’altro compenso è la costruzione di una comunità in cui sia protagonista la persona, rispettata nella sua dignità e capacità di fare, da sola o insieme ad altri. 

Il compito dello Stato

Se lo Stato, il nostro Stato italiano, non valorizzerà e non sosterrà l’iniziativa dei cittadini nell’educazione, soprattutto, e poi nell’impresa che produce lavoro, difficilmente troverà le risorse per ricostituirsi. Le distinzioni pubblico/privato, profit/non profit, di fronte al bene comune ricercato e promosso, non dovranno essere freni agli interventi. Lo Stato italiano è povero nel personale politico e della pubblica amministrazione, nell’economia e nei servizi. La sua ricchezza sono i cittadini, le famiglie e la multiformità delle associazioni. Questi soggetti, lo Stato deve rispettare e mobilitare. Questi soggetti a loro volta debbono riscoprire che il primo movente del lavoro è la gratuità, un impegno per la verità di sé e di tutti, costante e irriducibile, anche se non è pagato. C’è un’attenzione che dobbiamo a noi stessi senza badare al costo delle nostre energie e del nostro impegno. I progetti, i piani di azione e le riforme verranno secondo le possibilità, i compromessi e la convenienza politica dettati dalla situazione italiana e internazionale. Potranno essere poco o tanto a favore, ma, se noi saremo al lavoro, anche per realizzare un sostanziale confronto democratico, saranno nel tempo adattabili e correggibili. 

Tutto può cambiare. 

Foto Ansa

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