Alcuni lettori non proprio simpatizzanti di Tempi si sono lamentati del mio commento sulle stragi del 13 novembre perché ho scritto che i terroristi «hanno assalito direttamente il non-senso della vita degli infedeli, l’idolatria rappresentata dalla partecipazione di massa, liturgica e rituale, alle partite di calcio allo stadio e ai concerti di musica rock » e che «uccidere gli spettatori di una partita di calcio, o di un concerto di musica irreligiosa, o coloro che vivono e lavorano tutta la settimana solo per uscire e fare bagordi fra il venerdì sera e la domenica pomeriggio, è uccidere dei già-morti, dei non-più-umani: gente che non conosce il vero senso della vita, che sta negando la natura divina della vita umana, avendola abbassata al livello di quella degli animali, dominata dall’istintività e dalla ricerca del piacere sensoriale».
Sono stato accusato di mancanza di rispetto verso le vittime e i loro cari e di essermi dimostrato un bacchettone e un bigotto. Sono sicuro che la maggioranza dei lettori, che antipatizzante non è, ha compreso che stavo cercando di accompagnarli a capire il punto di vista dei terroristi, il modo in cui loro guardano a noi e ci giudicano, le ragioni per cui arrivano a condannarci a morte e a eseguire la sentenza. Personalmente non demonizzo né gli stadi affollati per una partita di calcio né i concerti di musica rock o di altro genere non classico. Ma nemmeno li ammiro come un’espressione esemplare della libertà occidentale: sono diventati da molto tempo ingranaggi della società consumista di massa, prodotti standardizzati dell’industria del divertimento, e chi paga il biglietto per gli uni o per gli altri rischia di partecipare a liturgie alienanti.
Non vorrei che, in nome della solidarietà con le vittime e della chiamata alla difesa dello stile di vita rilassato europeo fatta coincidere con la lotta per la nostra libertà tout court, si cominciasse a negare il diritto di criticare la società di massa, il nichilismo e gli stili di vita distruttivi. Oppure dovessimo vedere applicato un doppio standard per cui se Vasco Rossi canta «voglio trovare un senso a questa vita, anche se questa vita un senso non ce l’ha», cattolici e non cattolici si abbracciano commossi e pensosi, ma se alla questione del non-senso della vita nella cultura contemporanea allude Tempi o chi scrive su Tempi, allora bisogna sospettare qualche programma di moralizzazione coattiva. Il non-senso della vita occidentale deve starsene chiuso nelle pagine di Eugenio Montale o di Henry Miller, può diventare il titolo di un blog di Piergiorgio Odifreddi, ma i cattolici non ancora addomesticati, no: loro devono sempre e solo vedere il positivo dappertutto, guai se suggeriscono un esame di coscienza al loro prossimo.
Quanto alla débauche e alla deriva esistenziale consapevole, anche queste esaltate come esiti apicali della riflessiva civiltà europea, che gli emuli odierni di Rimbaud e di Verlaine siano anch’essi dei veggenti e dei “ladri di fuoco” come i due giovani autodistruttivi poeti, tocca a loro dimostrarlo, loro è l’onere della prova. Non basta frequentare tutti gli alcool nei week-end e procurarsi avventure sessuali di tutti i tipi per atteggiarsi a genî maledetti ed esploratori delle più pericolose frontiere dell’umano. Ci vuole un po’ di creatività, ci vuole un certo senso del tragico per essere scambiati non dico per dei redivivi Rimbaud, ma almeno per un Charles Bukowski («Su questa terra/ alcuni di noi scopano più di quanto/ si muoia/ ma i più di noi muoiono/ meglio di quanto si scopi,/ e moriamo a pezzo a pezzo anche –/ nei parchi/ mangiando gelato, o/ in igloo/ di demenza,/ o su pagliericci/ o sopra amori/ sbarcati/ o/ o»). E da questo punto di vista, il disegnino della Marianna nuda che solleva una bottiglia di vino e nell’altra mano tiene le cuffie stereofoniche e lancia il messaggio (chissà perché in inglese) «Go out, drink, listen to music, dance, eat, speak, make love, go naked, be free», che ha trovato spazio nell’edizione elettronica del Corriere della Sera, suona come una patetica ribellione adolescenziale, non un guanto di sfida lanciato contro il terrore. Quando qualcuno sul New York Times si è azzardato a pubblicare una difesa di Parigi dello stesso tono, Jêrome Ferrari (romanziere neo-esistenzialista alla Camus, non alla Sartre, Premio Goncourt) l’ha fulminata come raccolta «dei clichés più grotteschi» sulla Francia, dimostrazione che «l’emozione non impedisce che da una tragedia vengano tratti benefici narcisistici».
Saremmo dei farisei ai quali non verrà perdonato nulla nell’altro mondo se giudicassimo i 90 giovani che sono stati trucidati al Bataclan di Parigi sulla base del fatto che i folli di Dio li hanno falciati mentre cantavano insieme alla loro band preferita “Kiss the devil on his tongue”. Ma saremmo degli stupidi ai quali non verrà perdonato nulla in questo mondo se nelle modalità e nelle circostanze della strage non cogliessimo un segno.
Premesso tutto questo, una discussione su quali siano i valori europei che meritano di essere difesi contro l’Isis e quali siano le libertà rispetto alle quali non possiamo arretrare e quali invece quelle sacrificabili è assolutamente superflua. A chi mi dice che la libertà di ubriacarsi e dissacrare religioni e codici morali con vignette, presunte opere d’arte e spettacoli di varia natura è importante tanto quanto la libertà religiosa, di stampa, opinione e attività politica e sindacale, così come a chi mi dice di essere interessato solo a difendere la libertas Ecclesiae e quel che resta della cristianità, e imporrebbe volentieri un giro di vite alle libertà libertine, io pongo la stessa medesima domanda: cosa sei disposto a sacrificare per la libertà che ti sta a cuore? Fin dove sei pronto a spingerti? Non mi interessa discutere sulla serietà o vacuità o illusorietà dei tuoi ideali o dei tuoi stili di vita, voglio solo sapere se per essi sei disposto a dare la vita.
Chi pensa che solo uomini religiosi molto credenti possano esporsi al martirio in nome di un Assoluto sbaglia: anche un nichilista può esserne capace. È stato il caso di Stéphane Charbonnier, il direttore di Charlie Hebdo assassinato insieme ad altre 11 persone all’interno della redazione il 7 gennaio scorso, che un paio di anni prima, già minacciato per le vignette del suo giornale dedicate a Maometto, aveva affermato: «Preferisco morire in piedi che vivere in ginocchio». Giudico assolutamente deleteria la satira di Charlie Hebdo (mentre ovviamente non chiedo di censurarla), ma con un uomo che dice questo e che agisce coerentemente con quel che dice, provo una profonda affinità. Di questi tempi, però, questo non è ancora abbastanza: dagli altri vorremmo sapere non solo se sono pronti a morire per difendere la loro propria libertà, ma se sono disponibili a morire per la nostra.
«Moriresti per me?». Quella che era una domanda riservata ai colloqui fra amanti in estasi fusionale, improvvisamente è diventata una domanda pertinente alla quotidianità: ciascuno di noi sa di essere il potenziale bersaglio di un esercito di assassini, e vuole sapere su chi può contare per la propria sopravvivenza. E pochi fra noi si fidano di chi dice di essere pronto a morire per la libertà, per la democrazia, per la laicità, per l’Europa cristiana, per il vitalismo: conosciamo dal di dentro la società liquida, post-moderna, post-ideologica, del pensiero debole e delle lealtà cangianti. Abbiamo visto troppi amici e fratelli voltar gabbana, tradirci, trasformarsi in sfacciati paraculi pur di restare un po’ sulla cresta dell’onda – onda sempre più piccola e sempre meno invitante, prossima a svanire.
Sì, qualcuno disposto a morire per la patria o per dirigere un giornale satirico ancora c’è, ma si contano a decine, non certo a battaglioni, non certo a corpi d’armata. Mentre invece c’è ancora tantissima gente che darebbe la vita, se necessario, per qualche persona cara. Perciò capisco perfettamente che nella società frammentata e faziosa di oggi chi è favorevole al matrimonio fra persone dello stesso sesso con figli prodotti da uteri in affitto non sia disposto a morire per me e per la mia libertà di battermi contro l’introduzione di cose come quella nel mio paese. Così come io non ho nessuna voglia di morire per lui, e nemmeno per quei cattolici addomesticati che mi hanno dato dell’”ideologico” (proprio loro! Il bue che dà del cornuto all’asino!) e mi hanno fatto dispetti perché sono sceso in piazza il 20 giugno contro l’introduzione di leggi ingiuste e liberticide. Però sia io che l’attivista gay che il cattolico addomesticato abbiamo qualcuno che morirebbe per noi, e abbiamo qualcuno per cui moriremmo. E questo basta.
Se ogni europeo ha qualcuno per cui morirebbe, e ha qualcuno che morirebbe per lui, l’Europa non è ancora sottomessa, l’Europa non è ancora morta. Se ognuno è pronto a sacrificarsi per i suoi, sommate insieme tutte queste disponibilità compongono una magica muraglia, uno scudo smisurato.
Agli Esercizi della Fraternità di Cl dell’aprile scorso è stato proiettato un intervento di don Giussani del 1994. Diceva a un certo punto: «Da questa ricchezza deriva una capacità di fecondità che nessuno ha; fecondità che è comunicazione della propria natura, della propria ricchezza, della propria intelligenza, della propria volontà, del proprio cuore, del proprio tempo, della propria vita. È dire: “Ci lascerei la pelle per ognuno di voi”; ognuno di noi per ognuno degli altri lo direbbe, lo dice. Se non lo dice è perché non ci ha mai pensato, se non ci ha mai pensato è perché non ha mai pensato accorgendosi della presenza di Cristo. Se parte da questo, lo dice: “Darei anche la pelle” – Gesù aiutami però, eh! ». Io non sono ancora così santo. Cristo ha dato la vita per tutti, Giussani sono sicuro che l’avrebbe data. Io per adesso non riesco a dire che ci lascerei la pelle per tutti. Ma per tanti, non solo per i miei consanguinei (chi non darebbe la vita per i figli, per la loro madre e per la propria madre?), ma per molti che sono diventati mia famiglia come se fossimo consanguinei: oh, sì!
Debbo questa maturata disponibilità alla frequentazione, in questi ultimi nove anni, dei cristiani perseguitati in Medio Oriente e in Africa. La contemplazione e la memoria del loro sacrificio, della loro consapevole decisione di salire sulla croce con Cristo, mi sta convertendo. E quindi sì, oltre che per i miei consanguinei della parentesi sopra, darei la pelle per i miei operosi colleghi di Tempi, per la gente che era al ritiro di Avvento domenica scorsa, per i cristiani perseguitati dell’Iraq e della Siria, per Talal e la sua famiglia, che il Natale scorso a Erbil mi hanno ospitato nella loro baracca di profughi cristiani fuggiti da Mosul, e per Farhad, il mio amico musulmano profugo dall’Afghanistan in missione per conto di Dio.
Ringraziamo di dover vivere questi tempi terribili, perché sono la grande occasione che ci è offerta per realizzare in noi le parole del Vangelo secondo Giovanni: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la propria vita per gli amici». E se a qualcuno la prospettiva sembra troppo cupa, vorrei fargli notare una cosa che lo rinfrancherà: quando ti accorgi che sei disponibile a morire per qualcuno, è perché già stai dando la vita per lui, stai vivendo per lui. Chi è pronto a morire per noi, già sta vivendo per noi, e continuerà a farlo per tutto il tempo della vita. Altrimenti non sarebbe amore. Il bello di tutta la faccenda sta proprio lì.