La strategia è chiara e inequivocabile, l’aveva già spiegata Gilles Kepel all’indomani degli attacchi del 13 gennaio contro Charlie Hebdo e il supermercato Hyper Cacher, e gli esperti di antiterrorismo francese avevano annunciato che si stava minacciosamente avvicinando il momento in cui sarebbe stata messa in atto: l’Isis e probabilmente anche Al Qaeda (ci sono molti indizi che le due organizzazioni si stanno riavvicinando) vogliono scatenare una guerra civile di religione in Francia che vedrebbe contrapposte delle enclave territoriali musulmane alle forze dello stato francese. Gli attacchi si ripeteranno e saranno sempre più sanguinosi e indiscriminati per provocare rappresaglie altrettanto indiscriminate da parte di gruppi islamofobi francesi contro gli immigrati musulmani e i loro luoghi di aggregazione. Un numero crescente di francesi musulmani diventerà simpatizzante e fiancheggiatore dei terroristi jihadisti, e un numero crescente di francesi “de souche” diventerà condiscendente verso forme di repressione indiscriminata ed extragiudiziale e verso forme di punizione collettiva contro le comunità musulmane dei quartieri da cui provengono i terroristi. Ciò trasformerà la Francia in un paese dove l’autorità formale dello Stato e quella di fatto dell’opposizione armata islamista si contenderanno il controllo del territorio abitato dagli immigrati musulmani, che come è noto in Francia vivono in maggioranza concentrati in località e quartieri bene identificabili.
La strategia vuole provocare anche l’intervento militare dei paesi occidentali in Medio Oriente con truppe di terra. Con due obiettivi. Il primo è la radicalizzazione e l’assorbimento nel jihadismo dei musulmani attualmente moderati, che verrebbero suggestionati dalla propaganda sui nuovi crociati e sul ritorno dei colonialisti. Il secondo è quello di logorare le risorse materiali, umane e psicologiche dei governi europei costringendoli a combattere su due fronti: il fronte interno rappresentato da un terrorismo che tende a trasformarsi in guerra civile a sfondo religioso, e il fronte esterno rappresentato dallo sforzo militare “imperialista” in terra araba e musulmana.
Che fare dunque? Molti pensano che, se questa analisi è corretta, la soluzione del problema è abbastanza facile: basta non cadere nella trappola tesa dallo Stato Islamico. Manteniamo la calma, respingiamo le provocazioni, evitiamo di creare milizie di autodifesa o di mandare al governo forze xenofobe, ricorriamo alla diplomazia più che alle cannoniere e ai corpi di spedizione in Medio Oriente, e la crisi un po’ alla volta si risolverà. Purtroppo le cose sono molto più complicate. Purtroppo, ma anche giustamente, ma anche ontologicamente. Le questioni antropologiche, le questioni esistenziali, le questioni spirituali che i fatti di gennaio a Parigi avevano sollevato sono ancora lì, senza risposta. Stavolta i terroristi non hanno ucciso ebrei e blasfemi, nemici designati del Profeta e meritevoli di morte secondo la loro interpretazione del Corano. Stavolta hanno assalito direttamente il non-senso della vita degli infedeli, l’idolatria rappresentata dalla partecipazione di massa, liturgica e rituale, alle partite di calcio allo stadio e ai concerti di musica rock (in questo caso heavy metal). L’occidentale medio ha sostituito il culto del divertimento al culto dovuto solo a Dio. Così facendo offende Dio tanto quanto i vignettisti e gli ebrei colpiti a gennaio, e offende la sua propria natura umana, perché l’uomo non è stato creato per disperdersi in piaceri volgari, materiali e fatui, ma per onorare il Creatore e combattere tutte le guerre, da quella spirituale dentro al proprio cuore per migliorarsi moralmente a quelle esteriori militari contro i nemici della vera fede per privarli del potere politico, che Dio chiede all’uomo giusto di combattere.
Uccidere gli spettatori di una partita di calcio, o di un concerto di musica irreligiosa, o coloro che vivono e lavorano tutta la settimana solo per uscire e fare bagordi fra il venerdì sera e la domenica pomeriggio, è uccidere dei già-morti, dei non-più-umani: gente che non conosce il vero senso della vita, che sta negando la natura divina della vita umana, avendola abbassata al livello di quella degli animali, dominata dall’istintività e dalla ricerca del piacere sensoriale. Quando si conosceranno i nomi e le biografie degli attentatori, si scoprirà che la maggioranza di loro è nata e cresciuta in Europa. Hanno avuto a disposizione più o meno le opportunità e le libertà che hanno tutti i giovani europei. Le hanno trovate inadeguate alla loro domanda di assoluto, alla loro ricerca di un senso per la vita più grande e più profondo dell’edonismo a buon mercato fatto di sesso, droga e rock and roll. E siccome nessuno ha proposto loro qualcosa di più profondo e vero in termini umanamente attraenti, nessuno ha provocato la loro libertà con una proposta di senso integrale e corrispondente all’attesa del cuore umano, hanno rabbiosamente cercato e trovato la risposta nella loro tradizione religiosa, debitamente rivisitata e aggiornata per farne uno strumento che permette di passare dal senso di impotenza al senso di onnipotenza. E qui si innesta il secondo fattore di difficoltà insuperabile di soluzione della crisi.
Quattordici anni fa Jean Baudrillard fece scandalo quando, all’indomani degli attacchi dell’11 settembre, a proposito della distruzione delle torri del World Trade Center con tutte le persone che ci lavoravano dentro scrisse che «l’ascesa in potenza della potenza finisce con l’esacerbare la volontà di distruggerla. Questa ascesa stessa è complice della propria distruzione. Quando le due torri sono crollate, si e avuta l’impressione che rispondessero al suicidio degli aerei-suicidi con il loro stesso suicidio. L’Occidente, in posizione di Dio, diviene suicida e dichiara guerra a se stesso». Ci si è scandalizzati giustamente del moralismo con cui Baudrillard, fingendosi un asettico decostruzionista, in realtà getta la croce della colpa sulle vittime, qualificate come responsabili del male che è stato loro fatto. Ma su un punto Baudrillard non sbaglia: la potenza attira l’invidia inevitabilmente. Non si assurge impunemente alla potenza, non si può avere pace se si ha ricchezza, sotto qualunque forma. Subito dopo intervenne René Girard, l’incommensurabile antropologo che è morto appena dieci giorni fa, e precisò: «L’errore di sempre è di ragionare secondo le categorie della “differenza”, mentre invece la radice dei conflitti è piuttosto quella della “concorrenza”, la rivalità mimetica tra gli esseri, i Paesi, le culture. La concorrenza, ossia il desiderio di imitare l’altro per ottenere la stessa cosa che ha lui, all’occorrenza anche tramite la violenza». La rivalità mimetica è la chiave di tutto: il desiderio di avere quello che l’altro ha, di prendere il posto suo, di essere come lui. «Questa concorrenza mimetica, quando è infelice, fuoriesce sempre, ad un momento dato, in forma violenta». A partire dall’omicidio di Abele da parte di Caino, la rivalità mimetica provoca delitti fra i singoli, fra i partiti, fra i popoli. Fino al 13 novembre di Parigi. E qui bisogna dire qualcosa sulla questione dell’immigrazione, col rischio di essere fraintesi nel clima odierno polarizzato fra sovradosaggi di retorica buonista e soprassalti di xenofobia belluina.
È evidente che non bisogna cadere nella trappola dell’Isis e colpevolizzare gli immigrati musulmani per le azioni dei terroristi, ma occorre mettere a fuoco le questioni che la retorica buonista, spesso per niente disinteressata, cerca di sottrarre alla riflessione critica. Sono solidale coi profughi dalla Siria, anche perché ho toccato con mano i pericoli ai quali chi vive in quel disgraziato paese è quotidianamente esposto. Ma non posso non notare che molti profughi siriani, le cui ragioni dell’esodo dal paese di cui sono cittadini sono più che legittime, non si limitano a cercare un approdo sicuro alla loro fuga: vogliono andare a vivere in Germania, e in subordine in un altro paese nordeuropeo. Cioè sono attratti non semplicemente dalla sicurezza, ma dalle migliori prospettive di benessere. E questo vale anche per la maggioranza degli africani, che emigrano in Europa per motivi prettamente economici: vengono da paesi come la Nigeria e la Costa d’Avorio, che hanno tassi di crescita del Pil dell’8 per cento annuo. Certo, si tratta di una crescita che contiene molte diseguaglianze, ma non si può dire che non ci siano prospettive.
La verità è, come ha scritto lo Spectator alla fine di ottobre, che «le persone che prima erano troppo povere per pensare di emigrare, adesso hanno abbastanza denaro per intraprendere il viaggio. Hanno smartphones e sanno come si vive all’estero. La velocità a cui la povertà globale si sta riducendo ha messo in movimento milioni di persone». È così: non la fame, ma la rivalità mimetica spinge le persone a emigrare in Europa. Questo loro spostamento di massa risolve problemi e crea problemi contemporaneamente. Risolve i problemi di rendere di nuovo concorrenziali i prodotti europei attraverso l’abbassamento del costo del lavoro, di riavviare la crescita economica attraverso un aumento della domanda e di tamponare, benché solo temporaneamente, i deficit dei bilanci del welfare e della spesa pensionistica. Crea i problemi di sradicamento di milioni di persone che vivono il lutto affettivo e l’impoverimento antropologico di essere strappati dai luoghi in cui sono nati e cresciuti, di abbassamento dei salari e delle garanzie per gli europei meno qualificati, di creazione di ghetti etnici e religiosi dove gli estremisti possono pescare a piene mani reclute per i loro progetti rivoluzionari, del tipo di quello che l’Isis sta attuando in Francia.
Perciò per favore, smettiamola di dire che le migrazioni di massa costituiscono l’inizio di una nuova epoca nella quale ogni uomo sarà spinto ad aprirsi all’altro uomo e l’umanità sarà costretta a governarsi come un solo popolo. Le migrazioni di massa sono, come scrive Henri Hude, «un aspetto della mondializzazione economica liberale. Alla libertà di circolazione di beni, servizi, materie prime e capitali attraverso il mondo e alla loro messa in concorrenza sui mercati globali, corrisponde necessariamente la libertà di circolazione della manodopera e la messa in concorrenza di tutti i lavoratori e gruppi di lavoratori in un unico mercato globale del lavoro». E in termini antropologici, sono una manifestazione di rivalità mimetica. Nel bene e nel male, nessuno riuscirà a fermarle, nemmeno i partiti politici che ce l’hanno nel programma, finché la struttura economica mondiale e i valori culturali dominanti resteranno quelli oggi prevalenti.
L’unico modo per tenere lontano dall’Europa il terrorismo jihadista e l’emigrazione di massa sarebbe un mutamento di paradigma di civiltà. Convivialità, modestia, sobrietà al posto di consumismo, opulenza e ossessione della produttività; primato della contemplazione sul sapere strumentale; gratitudine per ciò che la natura ci offre e gli antenati ci hanno tramandato anziché risentimento che ci obbliga a piegare la natura ai nostri mutevoli desideri e a gettare lontano da noi o stravolgere l’eredità di istituzioni, valori e modi di vita che chi ha vissuto prima di noi ci ha lasciato. Se il volto dell’Europa cominciasse a riflettere qualcuno di questi tratti, ecciterebbe molto meno la rivalità mimetica altrui. Non attirerebbe più terroristi che vogliono abbatterla per impadronirsi del suo potere e masse di infelici migranti deculturati che finiranno di deculturarla. Ma forse è troppo tardi.
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