Lettere al direttore

Dopo la lettera sul Papa a Verona, ci scrive Arena di Pace. Risposta

Di Emanuele Boffi
14 Maggio 2024
Gli organizzatori dell'evento con Francesco precisano che i documenti pubblicati sul loro sito non sono «programmatici». Bene, anche perché si tratta di contributi "politici" che nulla hanno a che fare col tema trattato

Egregio direttore, con molta sorpresa abbiamo letto la lettera pubblicata sulla vostra rivista a proposito della visita di papa Francesco per l’Arena di Pace.

Anzitutto va rilevato che l’evento è promosso dalla diocesi di Verona, da Fondazione Nigrizia dei padri comboniani e dalla tradizionale rete di movimenti formatasi ancora nel 1986 che hanno a cuore la pace.

Per sua esplicita volontà, papa Francesco al tema della pace, ha associato il primo raduno nazionale dei movimenti popolari che concretamente e “dal basso”, in dialogo con tutti e quindi, anche tra credenti e non, con la creatività e genialità che nasce dalla cultura della pace, stanno portando avanti progetti e azioni al servizio concreto di persone “ai margini” e del bene comune.

Il documento cui si fa riferimento nella lettera è uno dei contributi discussi nel tavolo di lavoro democrazia e diritti umani. Non è la sintesi di Arena di Pace, né il documento programmatico.

La diocesi e la segreteria di Arena di Pace si sono offerte, come indicato da papa Francesco, quale spazio di dialogo e di confronto. Per tutti.

Distinti saluti

Segreteria Arena di Pace

don Renzo Beghini
fr. Antonio Soffientini
Arch. Marta Bobbio

Fatichiamo a capire la vostra sorpresa, dato che, ci pare di intendere, non smentite i contenuti riportati nella lettera che abbiamo pubblicato sul nostro sito. Lì non si mettono in dubbio né le intenzioni di papa Francesco né l’importanza del raduno. I nostri lettori, in verità, si stupivano che nei documenti che sono pubblicati sul vostro sito vi siano espressioni e giudizi che poco hanno a che fare sia col tema della pace sia con ciò che papa Francesco ha detto in questi anni. Quelle presenti nel documento sono valutazioni critiche dal forte connotato politico: sul premierato, l’autonomia differenziata, il decreto Caivano, il ddl Zan, i diritti Lgbt…

Benissimo che Arena di Pace sia uno spazio di dialogo con tutti, ma per “dialogare” di cosa? Del ddl Zan o della pace? È chiaro che se nel documento si leggono frasi come questa («la destra al governo vuole l’uomo solo o la donna sola al comando: la democrazia e tutt’altra cosa»), un semplice cittadino, credente o meno che sia, tenderà a farsi una certa idea dell’incontro. E potrebbe sospettare che, a un mese dalle elezioni europee, si voglia strumentalizzare la presenza del Santo Padre per fare propaganda politica (che, ovviamente, sarebbe stata “propaganda” anche se fosse stata di segno politico opposto).

In ogni caso, registriamo, come da voi scritto, che il documento citato «non è la sintesi né il documento programmatico di Arena di Pace».

E notiamo anche che avete modificato la presentazione dei suddetti testi.
Se prima della pubblicazione della lettera su Tempi si leggeva:

«Documenti del tavolo di lavoro DIRITTI E DEMOCRAZIA:
Democrazia e legalità costituzionale
Sintesi tavolo democrazia
Documento pace e diritti – Comunità capi Agesci».

Ora si legge:

«Contributi al dialogo del tavolo di lavoro DIRITTI E DEMOCRAZIA:
Democrazia e legalità costituzionale – Contributo personale di un membro del tavolo
Documento pace e diritti – Comunità capi Agesci
Sintesi 1^ fase – tavolo democrazia».

Di tutto questo ce ne rallegriamo e vi auguriamo il meglio per il vostro incontro.

***

Caro direttore, ieri sera in tv bazzicavo l’Eurovision, per quello strano masochismo di chi si tocca con la lingua l’afta che gli fa male. Mi sono accorto che ormai non mi scandalizza più nulla e forse questo dovrebbe scandalizzarmi. Lo scenario tardoantico era da paganesimo totale: travestiti e personaggi conciati da demoni (satanismo più o meno soft, ma pur sempre satanismo) in una ridda di bandiere della pace-lgbt-trans-non-binary, mentre giungevano in diretta meravigliose inquadrature dalle capitali europee, una più bella dell’altra, dove signore e signorine in splendidi abiti da sera attribuivano il massimo dei punti all’Elagabalo che cantava per i colori svizzeri, e che alla fine ha trionfato contro l’antagonista Massimino il Trace from Croatia. (Mi sono chiesto se un terrorista islamico, vedendo tutto questo, avrebbe avuto più voglia di ammazzarci tutti, o si sarebbe messo a ridere).

Il cantante svizzero risultato vincitore e oggi sugli altari, più che per il suo brano, per essere la prima “persona non binaria” a vincere l’Eurovision, ha attirato la mia attenzione, più che per la gonnella rosa e le gambine da bambina, per il suo nome, Nemo, che ha catturato il mio sesto senso da classicista, perché è il nome che Odisseo dà al Ciclope quando lo vuole ingannare: “Io sono Nemo”, cioè Nessuno.

Sono andato a informarmi se fosse un nome d’arte, e invece ti scopro che è proprio il nome anagrafico datogli da papà Markus, inventore, e mamma Nadja, giornalista, i quali fin da quando il pargolo aveva tre anni lo hanno condotto a studiare violino, pianoforte, batteria e poi canto lirico; e, come ha spiegato Nemo stesso in una intervista concessa trovandosi in El Salvador, «i miei genitori pensavano che se non fossi stato nessuno, avrei potuto diventare tutto».

Fu così che i due – presumo – non poveri né ignoranti genitori svizzeri diedero al mondo un bambino augurandogli di essere nessuno per diventare qualsiasi cosa; non qualcuno. Infatti sul palco sembrava più una bambola che un uomo, non fosse per quel bel sorriso e gli occhi un po’ allucinati un po’ commossi che ne rivelavano la natura profondamente umana.

Odisseo fa un po’ po’ di viaggio per tornare a Itaca e tornare ad essere lui stesso: re, padre, figlio, marito. Poi il poema finisce.

Anche a Nemo auguro di diventare qualcuno. Essere il primo non-binary ad aver vinto l’Eurovision non credo che in fin dei conti gli basti.

Carlo Simone

***

Caro direttore, nel suo famoso libro “Il senso religioso”, il profetico genio dei nostri tempi, il servo di Dio don Luigi Giussani, descrive in modo analitico la grande dimenticanza dell’uomo moderno, che ha dapprima escluso Dio dal proprio pensiero e dalla propria vita e quindi ha fatto di tutto per sopprimere anche solo la domanda di infinito che comunque è presente in ogni essere umano. Strutturalmente l’uomo è costituito da una domanda che non lo abbandona mai, in quanto il “senso religioso” è una sua ineliminabile dimensione, che esiste da sempre nel tempo ed in ogni luogo. Ciò dovrebbe essere una evidenza altrettanto strutturale per tutti. Ma, scrive don Giussani in alcuni lucidissimi capitoli di tale libro, l’uomo moderno si lascia trascinare da “atteggiamenti irragionevoli”, cioè disumani, che lo portano a svuotare tale imperiosa domanda oppure a ridurla in modo tale da renderla ininfluente. Sono varie le modalità con cui tale svuotamento avviene, ma tutte producono risultati devastanti per l’educazione di un intero popolo e, in particolare, dei giovani. Il libro indica tali risultati nella “rottura col passato”, nella “incomunicabilità e solitudine”, nella “perdita della libertà”. Don Giussani ha scritto questo libro quasi settanta anni fa, quando questa tendenza era agli inizi. Ma si tratta di un libro modernissimo, che descrive la situazione di oggi, quando vediamo realizzarsi i frutti amari e anche tragici della dimenticanza descritta: i profeti vedono la sostanza e la verità delle cose con molto anticipo rispetto al comune sentire.

Ho capito l’attualità di quanto scritto da don Giussani leggendo un paginone scritto su La Repubblica del 29 aprile e dedicato al drammatico disagio vissuto attualmente dai giovani, disagio che il servizio riferiva soprattutto al rapporto dei giovani con la scuola. I dati riportati sono effettivamente drammatici. Due milioni sono gli adolescenti italiani tra i 10 ed i 20 anni che soffrono di disturbi mentali; il 75% degli studenti soffre per episodi di stress e ansia, pare causati dalla scuola; il 44% degli studenti si sente inadeguato e insicuro, pare per l’eccessiva competizione che si vive a scuola; il 67% non sopporta i giudizi dati a scuola, mentre il 34% vorrebbe lasciare la scuola. Il dato più tragico sta nel fatto che il suicidio è “la seconda causa di morte nei giovani tra i 15 e i 25 anni”. A fronte di questa descrizione sconfortante della situazione, molte sono, sempre nel citato servizio, le cause ed i rimedi indicati. La colpa sarebbe della scuola, totalmente inadeguata rispetto alle esigenze dei giovani; oppure sarebbe del covid, che per due anni ha isolato tanti giovani; oppure sarebbe degli insegnanti, che mettono ansia negli studenti ed usano linguaggi non più comprensibili dai giovani oppure sarebbe nel numero enorme di famiglie separate. I rimedi dovrebbero riguardare una diversa preparazione dei docenti e, soprattutto, una presenza più massiccia di psicologi e psichiatri. Tantissime sono le analisi che cercano di capire questo preoccupante fenomeno, che, generalmente viene ridotto ad un problema sanitario: l’unica risposta che generalmente si intravede rispetto all’angoscia dei giovani studenti rimane, tutto sommato, nell’ordine sanitario. Questo dramma, cioè, rimarrebbe un problema di salute.

Tra tutte questa cause e tutti i rimedi indicati non solo dal servizio pubblicato da La Repubblica, ma anche dal pensiero dominante che circola negli altri media e nei talk show televisivi, c’è, appunto una grande assenza. Nessuno, dico nessuno, si pone la domanda se, per caso, questo drammatico disagio giovanile non sia anche causa del fatto che ai giovani non viene più proposta una direzione che dia senso alla loro vita. Tutti gli analisti, cioè, si trovano dentro la bolla della dimenticanza denunciata da don Giussani. Penso, invece, che alla radice di tante angosce giovanili vi sia proprio il fatto che il clima culturale generale che essi respirano ha totalmente censurato la domanda di fondo che essi hanno e che soprattutto la scuola nasconde loro (tranne lodevolissime eccezioni, naturalmente). Noi siamo nati per un destino buono pieno di fascino e di bellezza e ciascuno di noi porta in sé questo desiderio e, quindi, questa domanda. Il nascondere questa domanda non può non portare a forme di angoscia, che può trasformarsi anche in malattia. Il pensiero moderno non vuole più accettare che questa domanda venga posta, anche perché sarebbe scomodo il farlo. Ma senza la risposta a questa domanda è inevitabile che subentri una sorta di depressione, un pessimismo senza speranza. È inevitabile che subentri un appiattimento che toglie ogni desiderio di iniziativa e di costruzione. La cultura dominante, che per anni ha seminato nichilismo e cinismo, non deve ora meravigliarsi dei frutti amari prodotti da tale impostazione. Persino nel servizio qui citato, uno studente interrogato esclama: “I prof vedono soltanto il programma, noi vorremmo che fossero educatori”. Una espressione del genere dimostra che i giovani hanno nostalgia di trovare adulti che, pieni di speranza, li guidino verso una strada positiva. Il che significa che la domanda di fondo esiste ancora nel loro cuore: sono gli adulti che hanno perso il coraggio della proposta, anche perché dovrebbero sconfessare un pensiero divenuto purtroppo dominante: è inutile, secondo tale pensiero, porsi il problema del senso della vita.

Caro direttore, tutto ciò mi ha fatto capire nuovamente la immensa responsabilità che noi cristiani abbiamo verso tutti, a partire dai più giovani. La responsabilità è quella di non accodarsi al pensiero negativo dominante, ma di rimettersi ad annunciare a tutti la novità positiva costituita dal fatto che il senso della vita, cioè Dio stesso, è venuto tra di noi e ci ha donato una compagnia che ci accompagna in ogni momento della nostra esistenza. Dobbiamo tornare ad avere l’umiltà, la stessa vissuta da don Giussani quando è andato ad insegnare nelle scuole, di riconoscere che solo seguendo le orme di Cristo ci viene donato il “centuplo” in ogni aspetto della nostra vita. Ed allora, basta con le analisi deprimenti: torniamo a dire ai giovani che esiste una strada per superare i disagi e le angosce e le ansie e ogni debolezza. Ci sono dei luoghi in cui questa esperienza è già in atto e riempie la vita di chi vi partecipa. Torniamo a dire ai giovani di venire a vedere. Molti di loro non dipenderebbero più solo dagli psicologi e da rimedi che non hanno nulla a che fare con la domanda originale. Già 70 anni fa don Giussani aveva indicato questa strada.

Peppino Zola

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