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Pescatori di plastica

Se i nostri mari sono diventati una colossale discarica, la colpa è anche della burocrazia. Il caso del volenteroso Giorgio Fabris

Francesca Santolini
06/08/2017 - 4:00
Società
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rifiuti-plastica

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – C’era una volta un pescatore di plastica. A Chioggia, nel Golfo di Venezia, Giorgio Fabris naviga dall’età di quattordici anni e oggi, con il suo peschereccio “Gionni Alberto”, ogni giorno pesca tra i duecento e i trecento chili di rifiuti, perché di pesce, soprattutto in quelle zone, ce n’è sempre meno. La maggior parte dei rifiuti pescati da Giorgio è plastica: secondo un recente rapporto dell’Unep, il programma Onu per l’ambiente, ogni giorno finiscono nel Mediterraneo 731 tonnellate di rifiuti, il 95 per cento dei quali è plastica. La parte più rilevante si trova nei fondali, in alcuni punti ce ne sarebbero centomila pezzi per chilometro quadrato: una densità tra le più alte del mondo. Negli ultimi decenni il mare è diventato la più grande discarica di rifiuti prodotti dall’uomo: liquami, spazzatura, rifiuti ingombranti, e la maggior parte di questi, riversati in mare, affonda, sparendo alla vista. Solo una piccola quantità rimane in superficie.

Per questo, i pescatori sono diventati i principali attori della pulizia del mare, veri e propri spazzini che con le loro reti arrivano dove nessun altro può spingersi. Nasce così l’idea della pesca dei rifiuti, “fishing for litter”, una pratica diffusa da circa dieci anni in Nord Europa che si basa sull’incentivazione (soprattutto dal punto di vista della sensibilizzazione e della semplificazione amministrativa) dello smaltimento a terra da parte dei pescatori dei rifiuti marini che tirano a bordo accidentalmente durante l’attività di pesca, e che altrimenti verrebbero rigettati in mare. Tuttavia nel Mediterraneo e in particolare in Italia, questa pratica fa ancora fatica a diffondersi, e tra i motivi principali, ça va sans dire, c’è la burocrazia. Attualmente infatti il rifiuto issato a bordo viene classificato per legge come “rifiuto speciale”, che si tratti di una busta di plastica, una bottiglia, un mozzicone di sigaretta o un pezzo di legno. Così il pescatore è identificato come il suo produttore, e deve accollarsi i costi di smaltimento. Un forte disincentivo che spinge l’interessato a ributtare tutto in mare suo malgrado. Bisogna cambiare la legge, perché le regole coinvolgano i pescatori nella pulizia del mare, invece di scoraggiarli. Da questa consapevolezza è nato il progetto europeo DeFishGear (con Ispra e ministero dell’Ambiente come partner), a cui hanno partecipato, tra il 2014 e il 2016, cinque paesi adriatici, otto porti, tra cui quello di Chioggia. In due anni sono state raccolte dai pescatori più di 140 tonnellate di rifiuti, di cui 29 solo a Chioggia, dove tra i pescherecci coinvolti c’era anche quello di Giorgio, oggi l’unico che continua a raccogliere e portare a terra i rifiuti che pesca.

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Ftalati a colazione
Quel che preoccupa di più è che oltre alla plastica che s’incaglia nelle reti c’è quella che finisce nello stomaco dei pesci. Il processo di frammentazione delle plastiche gettate in mare produce particelle microscopiche dette microplastiche, polimeri di dimensioni inferiori ai 5 millimetri, simili al plancton, che possono essere ingerite dai pesci, con effetti tossici non ancora del tutto noti, ma che possono trasmettersi lungo la catena alimentare fino all’uomo.

Ma da dove viene tutta questa plastica? Una delle principali cause dell’invasione della plastica in mare è l’aumento della sua produzione: siamo passati da 1,5 milioni di tonnellate nel 1950 agli attuali 300 milioni. Il 40 per cento è packaging, ha vita brevissima, diventa rapidamente rifiuto: i sacchetti di plastica servono in media per quindici minuti e ne vengono utilizzati 500 miliardi all’anno, un milione al minuto. Se oggi è evidente l’impatto di questa impressionante quantità di plastica sull’ecosistema marino, ancora non è chiaro quali siano le conseguenze sull’uomo. L’obiettivo dei ricercatori è capire come si comportano gli ftalati, agenti chimici presenti nei pezzi di plastica che, inghiottiti dai pesci, sono poi assimilati dal loro organismo, finendo nel muscolo dell’animale. Gli ftalati sono distruttori endocrini, ossia agenti altamente patogeni per l’animale. E per noi? Non esistono ancora informazioni scientifiche definitive, occorrerà altra ricerca per capire se e come avviene il passaggio successivo, quello dal pesce all’uomo. In ogni caso è certo che quella della plastica in mare è generalmente riconosciuta come una delle maggiori minacce ambientali del nostro tempo.

Tags: inquinamentomareplasticarifiuti
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