L’autrice di questo articolo, Anna Monia Alfieri, è presidente della Federazione istituti di attività educative (Fidae) Lombardia.
La scuola è un bene comune. Un diritto di ciascun cittadino e un dovere per lo Stato. Per il ministro Giannini, «garantirlo a tutti alle medesime condizioni e senza distinzioni, è il segno più convincente della libertà di educazione». Dunque, non sarebbe ora che l’Italia diventasse “europea” anche quando va a scuola?
Bizzarro: mentre sul palcoscenico italiano il dibattito ideologico tiene ancora banco, in Europa, ad eccezione di Grecia e Scozia, è previsto, secondo forme e criteri diversi da paese a paese, il finanziamento pubblico della scuola non statale o delle famiglie, a garanzia del diritto di scelta della scuola da parte dei genitori, in un contesto di pluralità e di libertà di offerta formativa. Per esempio, paesi che hanno fatto della laicità la propria bandiera, come Francia e Spagna, ritengono di dover sostenere con fondi adeguati anche la scuola non statale, compresa quella cattolica, assumendosi senza batter ciglio i costi del personale e, in alcuni casi, anche del funzionamento e rendendo, in questo caso, davvero simbolico il pagamento di una retta. E ancora: i paesi dell’Unione Europea che vantano i minori tassi di abbandono scolastico sono quelli postcomunisti, nei quali la parità è stata introdotta in modo pieno.
Il caso dei paesi del Nord
D’altronde è proprio nella libertà scolastica che l’Europa ha fissato il criterio per valutare l’importanza della cultura nei paesi membri: Slovenia, Slovacchia, Repubblica Ceca, Polonia. Nessuna scelta confessionale: per esempio la Repubblica Ceca, come è noto, è definito il paese più ateo del mondo. Ma i genitori cattolici sono liberi di scegliere. In Francia, contrariamente ai luoghi comuni, le pubbliche non statali, per la maggior parte cattoliche, sono custodite e valorizzate proprio dalla laïcité, grazie al riconoscimento del diritto d’insegnamento privato come “principio fondamentale” di civiltà. Gli insegnanti sono pagati dallo Stato, come nella scuola pubblica statale, mentre gli enti locali coprono una parte degli altri costi, permettendo così ai singoli istituti di proporre rette accessibili per i genitori. Questa forte garanzia costituzionale suscita ormai un largo consenso repubblicano ed è contestata solo dall’estrema sinistra, tacitata dalla minaccia di milioni di francesi in piazza… A favore della scuola pubblica non statale.
Ma la scuola europea, purtroppo, non fa scuola. Infatti, assistiamo all’importazione tout court di princìpi europei chiaramente in dissonanza con la realtà italiana. Un esempio per tutti. Sulla base di un regolamento europeo le scuole pubbliche statali non sono tenute al pagamento dell’Imu; le scuole pubbliche paritarie – «se non erogate a titolo gratuito o con un prezzo simbolico», secondo il principio contenuto nel regolamento Ue 200/2012 – devono versare l’Imu. È chiaro il paradosso: il principio europeo, fatto proprio dal governo Monti e dal Consiglio di Stato italiano, non prende in considerazione un particolare molto importante: in Italia la parità scolastica è solo sulla “carta” (lo Stato spende per un allievo della scuola paritaria 500 euro annui contro i 7.319,00 per un allievo della scuola statale). Al contrario, le scuole pubbliche paritarie, nei diversi paesi europei, possono tranquillamente applicare il regolamento Ue 200/2012 perché godono di un finanziamento pubblico e quindi si trovano nella fortunata situazione di non dover richiedere alcuna retta, oppure di applicarne una di tipo puramente simbolico ad integrazione del contributo statale.
Conclusione: l’Italia applica in modo erroneo i princìpi europei al contesto della nostra parità scolastica. Ma è semplicemente un “errore” o è qualcosa di ben più grave l’atto con cui il governo italiano, da una parte nasconde una illegittima forma di aiuto statale (nessuna Imu alle scuole già totalmente finanziate dallo Stato), dall’altra contraddice le sue stesse leggi (vedi legge sulla parità scolastica 62/2000), ribadendo così una disparità di trattamento e, dunque, continuando a perpetrare una ingiustizia sociale? Da ciò ne consegue una libertà non liberata. Unici in Europa, gli italiani che vogliono esercitare il diritto alla libertà di scelta di istruzione e di educazione garantiti dalla Costituzione italiana e riconosciuti dalle leggi italiane sono costretti a pagare allo Stato tre tasse: quelle che finanziano la gratuità completa della scuola pubblica statale; quelle per la scuola pubblica paritaria; quelle congiunturali a cui la scuola pubblica paritaria viene sottoposta a causa della crescita della spesa pubblica e del debito di bilancio dello Stato.
Non è una battaglia di parte
Perché non si vuole riflettere e agire di conseguenza davanti a una realtà di scuole pubbliche paritarie che fanno risparmiare oltre 6 miliardi di euro all’anno allo Stato italiano e accolgono oltre un milione di studenti studenti, pari al 12 per cento dell’intera popolazione scolastica? Si abbia perciò il coraggio di guardare alla realtà in cui siamo. L’Italia, paese dove, per prima cosa: una persona non può esercitare il più elementare e naturale dei diritti, la libertà di scelta educativa; secondo: lo Stato non rispetta le sue proprie leggi, né i diritti che in via teorica riconosce. In conseguenza di ciò l’Italia è un paese dove il diritto alla libertà di insegnamento è sempre più compromesso con il progressivo collasso del pluralismo educativo; b) il collasso delle scuole pubbliche paritarie produce via via ogni anno un appesantimento dei conti pubblici, poiché via via le scuole paritarie chiudono, lo Stato deve sostituirsi ad esse pagando un prezzo altissimo.
È necessario fare in fretta
Non c’è più tempo: se non si vuole che la scuola trascini a picco se stessa e l’intero sistema Italia occorre fare in fretta. Fare in fretta per fare cosa? Per fare – né più, né meno – quanto lo stesso presidente del Consiglio Renzi ha prefigurato dal primo giorno in cui è salito al vertice di Palazzo Chigi dicendo che la scuola «è un punto di partenza» per le riforme. Parole che sono state poi confermate dalle dichiarazioni inequivocabili del ministro all’Istruzione Stefania Giannini: «È fondamentale garantire la libertà di scelta educativa», «valorizzare l’autonomia delle scuole», «riconoscere piena dignità alla paritaria», «considerare le spese per l’istruzione non come costi ma come investimenti in capitale umano».
Dunque, se queste non sono solo parole come crediamo e, come ha detto Matteo Renzi all’indomani del trionfo alle europee, «ora non ci sono più alibi, bisogna correre per fare le riforme», per far ripartire la scuola e, con essa l’Italia, basta fare poche cose, buone e già riconosciute dalla legislazione italiane. Basta completare la Legge 62/2000 su all’autonomia scolastica e individuare il costo standard per studente, affinché lo Stato risparmi in spesa pubblica e alle famiglie italiane sia data (sotto forma di bonus, detrazioni di imposta o qualunque altra formula) l’effettiva possibilità di scegliere tra buona scuola pubblica statale e buona scuola pubblica paritaria.