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Papa Francesco, il teologo immarcabile che gioca con Repubblica per segnare di tacco nella porta di Scalfari

Analisi tattico-dottrinale della "lettera ai non credenti", riuscitissima incursione in campo avverso che ha mandato in cortocircuito tutti gli schieramenti

Antonio Gurrado
21/09/2013 - 3:50
Chiesa
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Forse un giorno lontano verrà uno storico delle religioni e spiegherà che quando è comparsa la lettera di papa Francesco a Eugenio Scalfari siamo tutti andati in cortocircuito perché abbiamo confuso tre piani che non andavano mischiati: l’operazione editoriale, la forma e i contenuti. L’operazione editoriale è perfettamente riuscita, salvo essere sfuggita di mano ai republicones: l’eminenza grigia del quotidiano scrive una lettera al Papa per farla leggere soprattutto alla conventicola dei suoi lettori; il Papa la legge davvero e risponde, ed è uno scoop, ma rispondendo spariglia. Ora infatti i lettori del quotidiano, i republichiños, devono prendere in considerazione un’autorità se non altro pari a quella del Fondatore, uno che si permette di rispondergli con un’articolessa al cubo; loro intanto non possono più mormorare nei salotti che la Chiesa di Roma è obsoleta e retriva e non si confronta con gli ambienti giusti.

Quest’incursione in campo avverso ha sparso confusione in ogni schieramento. Immaginate gli Odifreddi e tutta la congrega degli atei agnostici razionalisti incrollabili e ostinati; il titolo di Repubblica parla di lettera del Papa “a chi non crede” promuovendo autonomamente Scalfari a rappresentante e vertice di tutti loro? E Mauro, come sta Ezio Mauro? Che dire poi delle fila amiche, gli intellettuali e i giornalisti cattolici? Non si sentiranno loro piuttosto – i direttori di Avvenire, di Radio Maria, del Centro Televisivo Vaticano e giù di lì – in credito di una lettera del Papa, di una sua telefonata, di un collegamento in presa diretta? Perché non ha scritto a Tempi? Perché Scalfari sì e noi no?

Per via del secondo piano, la forma ossia il dialogo col non credente. Gesù ha detto che il malato ha bisogno del medico, non il sano. L’ateo Scalfari aveva dunque bisogno della lettera del Papa più del Messaggero di Sant’Antonio, così come era più urgente che Leone Magno incontrasse Attila anziché Valentiniano sacro romano imperatore. La notizia non è tanto che il Papa abbia scelto l’inconsueta formula della lettera al quotidiano quanto che abbia unilateralmente deciso, per giocare in campo avverso, di seguire le regole altrui. Scalfari scrive sul giornale, Francesco scrive sul giornale: non tuona dal trono né rimbomba in un Angelus per mettere in chiaro, come da titolo di Repubblica, “le risposte che i due Papi non hanno ancora dato”, e a prima vista sembra fare il relativista divertito per meglio scardinare le resistenze intellettuali.

Queste due dirompenti novità hanno portato a credere istintivamente che la lettera costituisse una novità anche sul terzo piano, ossia nei contenuti, e che il Papa abbia approfittato della disponibilità del quotidiano progressista per poter finalmente esprimere concetti che il minaccioso potere oscuro del Vaticano aveva precluso ai suoi predecessori: cioè che (cito dai titoli) Dio perdona chi segue la propria coscienza, che la verità non è mai assoluta, che anche chi oggi non crede domani può sperare nel perdono di Dio. Altrettanto istintivamente si è dedotto che la lettera fosse un passo avanti verso un compromesso con le posizioni degli atei agnostici razionalisti pervicaci e barbuti.

Niente di tutto ciò. Nelle prime righe, mostrando come le radici del dialogo coi non credenti affondino per lo meno in Benedetto XVI e nel Concilio Vaticano II, Francesco spiega che la propria risposta non è e non vuole essere una novità nei contenuti, nonostante la forma inusitata. Dicendo subito che tale dialogo «non è un accessorio secondario dell’esistenza del credente» ma «un’espressione intima e indispensabile», Francesco implica che il proprio atteggiamento non ha alcuna eccezionalità, è ordinaria amministrazione secondo il programma primigenio. Se chi crede parla solo con chi crede non dà frutto, diventa sterile e, aggiungo io, si annoia mortalmente.

La strada della Lumen Fidei
Le lettere di Scalfari sono datate 7 luglio e 7 agosto; la Lumen Fidei è stata data a Roma il 29 giugno e tutta la risposta di Francesco ruota attorno a una frasettina che precede le domande di Repubblica e non può quindi esserne stata originata. La fede ci possiede, hanno scritto Francesco e Benedetto XVI nell’Enciclica; possiamo dedurne che il punto non è se noi crediamo in Dio ma che Dio crede in noi, per quante nefandezze possiamo pensare e dire e combinare. In questo senso l’autorità di Cristo non è tanto “auctoritas”, una tutela esercitata da chi è di più alto rango, quanto “exousìa”, qualcosa cioè che «proviene dall’essere ciò che si è», scrive il Papa, e che quindi ridimensiona, rimpicciolisce l’importanza di ciò che noi per spocchia o insipienza riteniamo che lui sia: è «qualcosa che emana da dentro e che si impone da sé» senza chiedere permesso. «Dio – continua Francesco – vuole che ogni uomo si scopra e viva anch’egli come suo vero figlio». Quindi, se deve scoprirsi figlio, evidentemente ogni uomo lo è già anche se di sé pensa il contrario. Se non l’ha capito, si potrebbe sottintendere, è perché le vicissitudini della vita l’hanno fatto tardo o presuntuoso. La porta è stretta ma sempre aperta; chi la scopre all’improvviso può passarci anche alla ventitreesima ora e chi è convinto di avere le chiavi in tasca potrebbe ritrovarsi incastrato fra gli stipiti.

Messa al riparo l’oggettività trascendente della redenzione, che non si cura dei nostri giochi di ruolo intellettuale, Francesco parte al contrattacco sulla dottrina. «Ha perciò ragione, egregio Dott. Scalfari, quando vede nell’incarnazione di Dio il cardine della fede cristiana». Sbaglio o questa è ironia chestertoniana sui fondamentali? Erano necessari diciotto secoli di teologia, da Tertulliano in poi, e l’apposita lettera di un Papa per rendersene conto? Per capire la fede dei semplici c’era bisogno di essere un egregio Dott.? Il Papa nel rispondere continua a riferirsi a «tutte le espressioni che sono descritte puntualmente nell’Enciclica». Lascia quasi intendere che Scalfari non abbia capito proprio benissimo la Lumen Fidei; a tratti sembra un bonario missionario gesuita che cerchi di spiegare il catechismo a un selvaggio del Paraguay che saltella di frasca in frasca.

In questo quadro di destrutturazione ironica, ma per nulla cattiva, dello scetticismo del destinatario il Papa insiste su ciò che Scalfari intende contestare, l’universalità del cristianesimo: «In Gesù tutti siamo chiamati a essere figli dell’unico padre e fratelli tra di noi». Che gli uomini debbano ricordarsi di essere tutti fratelli è lo slogan di maggior successo dell’Illuminismo; che Dio sia uno solo è un punto cardine dell’Illuminismo più luminoso, il quale ricusava tanto la superstizione delle beghine (tendente al politeismo) quanto il materialismo dell’Illuminismo radicale (tendente all’ateismo). Tutti siamo chiamati a questa fede e a questa fratellanza, scrive Francesco a Scalfari; tutti, certo, ma in Gesù. Altrimenti è come voler passare nella stanza accanto attraversando il muro. Anche la fratellanza con gli ebrei, già dovuta perché sono uomini e figli dell’unico Dio, è rafforzata in Cristo: «Il popolo ebreo è tuttora, per noi, la radice santa da cui è germinato Gesù». Addirittura la fede degli ebrei in Dio è vista come prova della fedeltà di Dio al patto con gli ebrei, e non viceversa, a riprova che il baricentro della nostra fede è nei cieli: «Siamo sempre in attesa», scrive; ai pendolari interessa che arrivi il treno anche se trascorrono ore sulla banchina. La fede in Dio è la dimostrazione della nostra esistenza.

Un ateo e la misericordia di Dio
È vero, a rileggere malevolmente i suoi due articoli si direbbe che Scalfari pensasse di aver scoperto le magagne di un’istituzione millenaria e intendesse sbugiardarla facendo l’ingenuo; a rileggerle benevolmente, le domande che pone suonano talvolta come espressione di convinzioni più che di effettivi dubbi. Come che sia, Francesco gli risponde che «dobbiamo essere aperti verso Dio e mai arroccarci in ciò che abbiamo già raggiunto». Però è splendido vedere il Papa ricordare a un ateo che «la misericordia di Dio non ha limiti se ci si rivolge a lui con cuore sincero e contrito». È consolante come la reazione del cardinal Federigo alla visita dell’Innominato: «Non è una fortuna per un vescovo, che a un tal uomo sia nata la volontà di venirlo a trovare? M’è un rimprovero che io mi sia lasciato prevenir da voi; quando, da tanto tempo, tante volte, avrei dovuto venir da voi io. Ma Dio sa fare Egli solo le meraviglie, e supplisce alla debolezza, alla lentezza de’ suoi poveri servi». Se un lettore è cattolico non sta a fare il micragnoso su quali parole il Papa debba rivolgere a chi, e se Scalfari le abbia meritate più di altri; deve piuttosto commuoverlo l’incontro tra due canizie che si confrontano avvicinandosi a una meta che non sanno ma che possono solo intuire chi con la fede, chi con la ragione.

Lo aveva detto Horacio Verbitsky, che a Buenos Aires aveva studiato Bergoglio per benino: sinistra globale, attenta, questo ti rivolta come un calzino perché ha l’umanità di Wojtyla, la dottrina di Ratzinger, la stoffa politica di entrambi sommati e va bene le scarpe comode, va bene la macchina a diesel, ma è gesuita, non francescano. Pubblicando la sua lettera anche Repubblica s’è accorta che a Santa Marta c’è un Papa che ha la grazia paradossale di Chesterton scatenato e il fiuto del goal di Messi, un teologo immarcabile che segna di tacco spiegando che l’assolutezza della fede sta proprio nella sua verità non assoluta, non «slegata, priva di ogni relazione»; la fede è il legame basato sulla consapevolezza che «la verità è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione!».

Questa relazione ha un termine concreto, Dio, grazie al quale la nostra fede è vera e la nostra esistenza sensata proprio perché custodiamo fra le dita questo filo che sentiamo tirare anche contro la nostra volontà, quando si pecca, quando «si va contro la coscienza». A Scalfari il Papa scrive che crede di detenere la verità assoluta non chi crede in Dio ma chi crede in Io e ha lasciato cadere il filo. È la sua verità a essere “variabile e soggettiva” per voluta parzialità; lo rimbrotta infatti: «Bisogna intendersi sui termini», «uscire dalle strettoie di una contrapposizione… assoluta». In conclusione, all’egregio Dott. Scalfari, il Papa ricorda che «Dio non dipende dal nostro pensiero», la sua oggettività non è scalfita dalle nostre facoltà intellettuali né da quello che deduciamo da ragionamenti più o meno faticosi.

Dunque, è il consiglio conclusivo, pensare di meno e aprire gli occhi per contemplare meglio «la realtà con la R maiuscola», che non è quella che campeggia sulla testata del quotidiano.

@AntonioGurrado

Tags: angelusateiateismoateoBenedetto XVIBuenos AireschestertonChiesaConcilio Vaticano IIcristodialogoebreieugenio scalfariezio maurofedeGiovanni Paolo IIhoracio verbitiskyilluminismolumen fideimessiPapa FrancescoPapa Wojtylapiergiorgio odifreddirelativismorepubblicatempi
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