

È vero, il settore industriale cinese ha registrato a luglio la peggior contrazione da 15 mesi; è vero, i profitti delle ditte industriali sono calati dello 0,3 per cento a giugno; è vero, nel 2007 la Cina cresceva ancora in doppia cifra (14 per cento) e ora spera in una «nuova normalità», con il governo comunista che fissa il suo obiettivo al 7 per cento.
CROLLO STORICO. Tutto questo, però, non giustifica il crollo della Borsa di Shanghai, che ieri ha fatto registrare il suo peggior risultato dal 2007, perdendo l’8,48 per cento in un giorno solo. Oltre 1.700 titoli hanno perso il 10 per cento, limite massimo fissato dal governo che fa scattare la sospensione del titolo. Per 12 mesi di fila, dal giugno 2014, il Toro aveva infranto un record dopo l’altro, salendo del 150 per cento. Poi, improvvisamente, tre settimane di picchiata inarrestabile hanno fatto perdere a 90 milioni di piccoli investitori cinesi e ai grandi scommettitori, incoraggiati dal governo a giocare in Borsa, il 30 per cento dei guadagni (oltre tre trilioni di dollari in tutto). Dopo l’intervento del regime, che ha fatto recuperare il 16 per cento a Shanghai, c’è stato il nuovo crollo di ieri.
MERCATO “CINESE”. Come si diceva, di per sé la caduta verticale non è giustificata. L’economia cinese sta rallentando molto, certo, ma il 7 per cento di crescita di oggi, con il Pil che vale oltre 10 mila miliardi, è molto superiore al 14 per cento di crescita del 2007, quando il Pil valeva solo 3.500 miliardi. Che cos’è che non funziona dunque e che porta il «mercato con caratteristiche cinesi» a crollare?
Secondo Willy Wo-Lap Lam, uno dei più importanti analisti cinesi, «la recente crisi dei mercati finanziari in Cina ha mostrato la fallacia dell’assunto del Partito comunista cinese, secondo cui è possibile promuovere sviluppo economico e riforme senza avviare al contempo cambiamenti politici». Lam, come riportato da AsiaNews, ha scritto su China Brief che è perfettamente inutile che il governo indaghi i «”perfidi” broker e gestori di fondi» e impedisca ai grandi investitori statali di vendere titoli, il problema al fondo non è economico.
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]ECONOMIA ETERODIRETTA. Se i mercati sono crollati è «in gran parte per colpa dello stesso apparato dello Stato», continua l’analista. Al di là di come il regime ha spinto i cinesi ad investire (il Giornale del Popolo scriveva spesso frasi del tipo: «L’indice dei titoli è l’àncora del “sogno cinese”»), il problema è che il mercato non è davvero «libero di fare del suo meglio», secondo la famosa dichiarazione del premier Li Keqiang, ma è eterodiretto per fare la fortuna delle imprese statali e del partito. Così, ad esempio, «il 4 luglio il Consiglio di Stato ha convocato l’amministratore delegato della più importante società di intermediazione del Paese per un incontro di emergenza a Pechino, durante il quale gli è stato detto di “comprare sempre e non vendere mai”». Chi possiede almeno il 5 per cento di una compagnia, inoltre, non potrà vendere titoli per almeno sei mesi.
«LIBERALIZZAZIONE POLITICA». Ma come sosteneva l’ex premier Wen Jiabao, le misure e le «riforme economiche non possono avere successo in mancanza di una liberalizzazione politica». Questa liberalizzazione «è congelata da 26 anni per colpa del Partito comunista», continua Lam, e «in assenza di quei pesi e contrappesi che possono essere garantiti da una riforma politica, le tanto decantate direttive di alto livello di Xi in materia di economia possono rivelarsi un disastro». Così come non sono servite le misure adottate dal partito per evitare il nuovo crollo della Borsa di ieri.
MALCONTENTO. È un fatto che «la mancanza di un forte rimbalzo dei prezzi, a dispetto degli enormi sforzi governativi di lanciare messaggi positivi indica che gli investitori ordinari hanno perso fiducia nei “mercati guidati dalla politica”. La borsa è così diventata una piattaforma indiretta per i gumin [piccoli investitori], per dimostrare il loro malcontento in merito all’efficacia d’azione dell’apparato retto dal partito unico».
CAPITALISMO ROSSO BOOMERANG. Il capitalismo sfrenato e senza regole benedetto dal partito comunista negli anni Ottanta potrebbe ora ritorcersi contro gli eredi di Mao? È troppo presto per dirlo ma, conclude Lam, «fra le persone comuni si è già sollevato più di un dubbio sul cosiddetto “socialismo con caratteristiche cinesi”. L’incapacità della leadership guidata da Xi di adottare adeguate contromisure per riportare la giustizia e l’integrità nel mercato dei titoli azionari potrebbe provocare come risposta una forte richiesta di riforme politiche, che finora il Partito comunista cinese ha sempre negato ai suoi componenti».
Foto Ansa/Ap
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