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Nel nome di quale pace sono caduti i soldati in Afghanistan?

Cosa resterà delle promesse al popolo e del sacrificio dei militari italiani all’indomani del ritiro delle truppe e della trattativa con i talebani?

Caterina Giojelli
31/01/2019 - 2:00
Interni
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«Ai morti non si manca di rispetto, soprattutto i “loro” morti, caduti per loro volere. Quindi vi richiedo: “Abbiamo davvero raggiunto la pace in Afghanistan?». Lo chiede alle istituzioni Anna Rita Lo Mastro, mamma di David Tobini, parà della Folgore morto in Afghanistan il 25 luglio 2011, lo chiede in una lettera pubblicata dal Giornale dopo aver sentito al tg che «nell’arco dell’anno saranno ritirati i militari italiani» e letto sui giornali che «L’Afghanistan vede la pace»: «La vorrei vedere questa pace, nel cui nome è morto mio figlio, insieme ad altri 53 soldati italiani».

LE BARE E I FUNERALI DIMENTICATI

Da anni Anna Rita scrive, scrive e scrive, di quel figlio, Medaglia argento al valor militare, caduto «esponendosi più volte incurante della sua incolumità, per coprire il fianco del dispositivo amico». Ha scritto all’allora premier Matteo Renzi, ha incontrato questa estate il ministro Matteo Salvini e dopo aver letto della bozza di accordo raggiunta tra gli Usa e i rappresentanti dei taleban si chiede ora: quale pace? Anna Rita ricorda le stragi di Natale e del novembre scorso a Kabul, il razzo sparato contro il blindato Lince italiano vicino a Herat la mattina del 2 gennaio, l’agguato di pochi giorni fa, il 21 gennaio, al viceministro per i disabili e i martiri ancora a Kabul, «dov’è questa pace?», continua a ripetere, «ci siamo dimenticati di quante bare e funerali hanno pesato su uno Stato che lo stesso giorno si è congedato dai propri doveri?».

VERITÀ, NON SPOT ELETTORALI

La madre di Tobini chiede il coraggio della verità, e non spot elettorali, su quella terra martoriata da cui il contingente italiano dovrebbe ritirarsi, quel coraggio che è mancato alle istituzioni nel momento in cui le riportarono un figlio morto. Se davvero è scoppiata la pace «come ci auguriamo per quella terra, allora ditelo a chiare lettere. Cosi i nostri figli non saranno morti invano. E noi saremo liberi di andare in Afghanistan e portare quel fiore lì dove i nostri figli se ne sono andati». 

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A PATTI COL NEMICO

La verità è che cosa resterà dell’Afghanistan e delle responsabilità assunte verso il suo popolo nel 2001,  all’indomani del ritiro delle truppe e della vittoria dei “nemici” con cui gli Stati Uniti non sarebbero mai scesi a patti nessuno lo sa. Come ha scritto Fulvio Scaglione su Avvenire, «dopo 18 anni di campagna, 120mila morti afghani (dei quali oltre 30mila civili), 3.500 soldati Nato caduti sul campo (tra i quali 54 italiani), 1.700 contractor uccisi, 300 cooperanti massacrati e 1.000 miliardi (dei quali 10 italiani) spesi per mantenere laggiù la presenza militare internazionale, il sogno di allontanare il Paese dalle follie del mullah Omar e dal sottosviluppo e avvicinarlo agli standard di una società più umana e moderna si spegne così. Per stanchezza». E che sarà del popolo afghano, ora che la trattativa con gli Usa ha nobilitato i taleban, elevandoli al rango di una forza militare, di un nemico ufficiale?

IL TRIONFO DEGLI OPPOSITORI

«Pagherà un prezzo altissimo. Nel silenzio dei media occidentali»: è la risposta di Paolo Mieli che sul Corriere ha firmato un duro editoriale su “La triste lezione di Kabul”. Non solo, ancor più che un’incoronazione dei talebani, l’esito di questo conflitto segnerà per Mieli «il trionfo di coloro che a quelle guerre si opposero fin dall’inizio. Ai quali, con scarso senso del ridicolo, si aggiungeranno quegli interventisti del 2001 che avvertiranno l’esigenza di dare spiegazioni su perché e per come sia stato giusto, da parte loro, cambiare opinione nell’arco dei successivi diciotto anni». Un coro di pentiti e di atti di contrizione che porterà a resistenze molto maggiori che in passato quando dovesse rendersi necessario anche il più ragionevole degli interventi armati. E se l’esito di tali interventi dev’essere necessariamente il ritiro senza aver costruito nulla, lasciando sul terreno migliaia di morti e popolazioni in balìa di terroristi in servizio permanente (come razzi e kamikaze dimostrano) e che «hanno già annunciato l’intenzione di inserire nella Costituzione un esplicito riferimento alla sharia al posto dell’attuale e blanda menzione della “legge islamica” quale fondamento per la legislazione civile» (sempre Avvenire), forse è da ripensare radicalmente la stessa idea «che ci siano situazioni in cui dover impugnare le armi».

I COSTI DELL’IMPRESA

Una guerra «la si vince solo quando si ha dopo un’idea di come costruire una pace. Anche per quel che riguarda i costi economici dell’impresa», scrive Mieli ricordando che in Afghanistan già nel 2016, dati Nyt, si fosse speso più del costo complessivo dell’intero Piano Marshall con cui gli Usa riedificarono l’Europa occidentale. Costi che oggi dovrebbero essere raddoppiati. Dei diciotto anni a Kabul dunque «dovremmo apprendere che l’unica modalità di intervento destinata al successo è quella (all’epoca peraltro assai criticata) di George Bush senior nella prima guerra del Golfo». Missione motivata da prove evidenti, limitata negli obiettivi e nel tempo, «qualsiasi intervento preveda che soldati stranieri restino per un lungo periodo nel Paese che si vuole “salvare” è da ritenersi di per sé potenzialmente dannoso».

L’ULTIMA LEZIONE AFGHANA

Ma c’è un’ultima lezione afghana: quando c’è da annunciare il ritiro da una guerra che ha prodotto decine di morti italiani, conclude Mieli, «sarebbe meglio che i ministri si mostrassero all’altezza della circostanza o quanto meno fingessero di aver concordato tempi e modi dell’annuncio. E sarebbe altresì sconsigliabile, nei giorni successivi a tale dichiarazione d’intenti, ricondurre tale iniziativa ad occasione per così dire “di confronto tra le diverse componenti del governo”. Dal momento che talvolta le modalità del ritiro possono rivelarsi più disonorevoli del ritiro stesso».

Foto Ansa

Tags: afghanistanpaolo mieli
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