«Creare qualcosa che rispecchi l’essere e l’amore assoluto è forse la cosa più straordinaria che esista. Ma si campa senza rendersene conto» (Karol Wojtyla, La bottega dell’orefice)
Il Sinodo straordinario sulla famiglia che si aprirà il 5 ottobre, nonostante sia stato preceduto da momenti di tifoseria quasi calcistica, non individuerà vincitori e vinti come in una partita di calcio. Soprattutto sul controverso tema dell’ammissione ai sacramenti per i divorziati risposati. Primo perché non è così che funziona la Chiesa, secondo perché lo stesso Papa ha disposto che l’imminente consesso sia uno dei momenti di una discussione più ampia, cominciata con il questionario distribuito oltre un anno fa ai fedeli e destinata a proseguire con un secondo Sinodo nell’ottobre 2015. Dopodiché sarà Bergoglio a decidere in che direzione dovrà muoversi la Chiesa.
Eppure, come scriveva qualche giorno fa l’Espresso nel numero con in copertina un volto del pontefice costituito da fotogrammi di corpi seminudi, baci omo, baci etero, pillole abortive e preservativi, «sono in molti a sperare che il Papa si liberi, in un anno, almeno di una parte della polvere bigotta che segna una così grande distanza tra la realtà e il Verbo». E buona parte di quella polvere, per proseguire a ragionare secondo i canoni del settimanale debenedettiano, sarebbe costituita proprio dalla scelta della Chiesa di non concedere l’eucarestia ai divorziati risposati. Seguono la morale sessuale e la disapprovazione dei matrimoni gay. Il misericordioso papa Francesco riuscirà ad avere ragione della reazionarietà dei suoi vescovi? I fedeli custodi della dottrina fermeranno le aperture del pontefice gesuita che “piace troppo” ai moderni?
A dar fuoco alle polveri, il primo marzo, è stata la pubblicazione sul Foglio del documento riservato con cui il cardinale tedesco Walter Kasper aprendo (su richiesta di Francesco) il concistoro invitava la Chiesa a scelte coraggiose nei confronti dei risposati, in grado di distinguere tra la dottrina (immutabile perché data da Dio) e la disciplina che invece la Chiesa ha il dovere di rivedere per venire incontro alle esigenze e alle difficoltà dei cristiani. «Una teologia in ginocchio», la definì papa Francesco ringraziando l’amico teologo. La fuoriuscita del documento ha fatto irritare non poco Kasper e ha dato il via a un balletto di interviste a porporati e commenti che in parte risponde al dialogo voluto esplicitamente da Francesco e iniziato al concistoro, in parte inficia inevitabilmente la natura di quello stesso dialogo e lascia disorientati, prima di tutto i fedeli.
Una fiera di scorribande giornalistiche dentro le diverse “correnti” tra gli alti prelati, dove ogni interlocutore viene accreditato a seconda della vicinanza al pontefice (se gli è vicino, sembra essere la logica, la penserà per forza come lui) e ogni visione dipinta come l’ultima occasione per non finire nell’abisso. Appena pochi giorni fa il Corriere della Sera presentava come reazione alle tesi di Kasper i testi di cinque eminenti cardinali, tra cui c’è uno scritto di Gerhard Ludwig Müller, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, che è sì contrario alle tesi del cardinale tedesco, ma redatto ben prima del concistoro, già pubblicato oltre un anno fa sull’Osservatore romano e solo per scelta editoriale della casa editrice Cantagalli inserito nel volume che uscirà alla vigilia del Sinodo.
D’altra parte non si può neanche ridurre a montatura giornalistica quella che è realmente una discussione accesa dentro la Chiesa, se non altro perché riguarda argomenti che non possono lasciare indifferenti. Il tema va a toccare infatti una dialettica tra verità e misericordia che non è appena riducibile alla lotta politica tra progressisti e tradizionalisti, ma che è un asse portante della Chiesa, cifra distintiva dell’esistenza stessa di un sacramento che promette un respiro divino a un atto umano. «Quando ci troviamo in presenza di un matrimonio valido – scrive Müller –, in nessun modo è possibile sciogliere quel vincolo: né il Papa né alcun altro vescovo hanno autorità per farlo, perché si tratta di una realtà che appartiene a Dio, non a loro».
«Il “principio della misericordia” – prosegue il cardinale nel libro-intervista La speranza della famiglia (Ares) – è molto debole quando si trasforma in unico argomento teologico-sacramentale valido. Tutto l’ordine sacramentale è precisamente opera della misericordia divina, ma non lo si può annullare revocando lo stesso principio che lo regge. Al contrario, un errato riferimento alla misericordia comporta il grave rischio di banalizzare l’immagine di Dio, secondo cui Dio non sarebbe libero, bensì sarebbe obbligato a perdonare. Dio non si stanca mai di offrirci la sua misericordia: il problema è che noi ci stanchiamo di chiederla, riconoscendo con umiltà il nostro peccato, come ha ricordato con insistenza papa Francesco nel primo anno e mezzo del suo pontificato».
Per comprendere la posta in gioco è utile leggere l’Instrumentum laboris, quasi una fotografia che la Chiesa ha voluto scattare servendosi del già citato questionario sottoposto alle Conferenze episcopali nel novembre 2013 e in cui emerge che questioni come la comunione ai divorziati o la scelta di persone conviventi come padrini per i propri figli fino all’interpretazione di che cosa significhi essere una coppia “aperta alla vita” siano intrinsecamente legate all’esperienza di fede che ciascuno vive. «L’insegnamento – si legge nel documento – è maggiormente accettato dove c’è un reale cammino di fede da parte dei fedeli, e non solo una curiosità estemporanea intorno a cosa pensi la Chiesa sulla morale sessuale».
Ciononostante, capita spesso che anche i cristiani che conoscono bene l’insegnamento della Chiesa su matrimonio e famiglia, fatichino a viverlo serenamente. «Alcune Conferenze episcopali – prosegue l’Instrumentum laboris – rilevano che il motivo di molta resistenza agli insegnamenti della Chiesa circa la morale familiare è la mancanza di un’autentica esperienza cristiana, di un incontro personale e comunitario con Cristo, che non può essere sostituito da alcuna presentazione, sia pur corretta, di una dottrina». Il documento parla di «mentalità contraccettiva», riprendendo un termine già presente nella Familiaris Consortio di Giovanni Paolo II e non per denunciare lo scarso successo dei metodi di regolazione naturale della fertilità (che pure esiste), quanto per stigmatizzare che «le persone si “costruiscono” solo in base ai propri desideri individuali. Ciò che si giudica sempre più divenire “naturale” è più che altro l’autoreferenzialità della gestione dei propri desideri ed aspirazioni».
Se tutti i matrimoni sono “gay”
La privatizzazione della famiglia e del matrimonio è anche al centro di alcuni dei contributi inseriti nella rivista Communio e dedicati al tema del Sinodo. Qui David. S. Crawford, professore associato di teologia e diritto di famiglia al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per gli studi sul matrimonio e la famiglia dell’Università cattolica d’America, analizza il rischio di “privatizzazione” del matrimonio legandolo alle rivendicazioni di nozze omosessuali. «Sembra – scrive Crawford – che il matrimonio civile sia semplicemente una creatura dello Stato, più che la codificazione di una relazione naturale e sacramentale inscritta nella condizione umana di maschio e femmina». Sotto accusa è la mentalità consumistica, dove ogni stile di vita prevede la scelta dei “prodotti” più adatti alle proprie esigenze.
C’è, prosegue Crawford, una diffusa mentalità secondo cui la «sessualità e conseguentemente il matrimonio non sono intrinsecamente legati alla messa al mondo e all’educazione dei figli, ma secondo cui i figli sono una sorta di opzione o di stile di vita per adulti». In un certo senso «la declinazione di bene comune operata dalla nostra cultura ha reso la concezione cattolica del matrimonio e della famiglia – o meglio ogni concezione tradizionale di questo tema – largamente incomprensibile e l’ha rimpiazzata con un paradigma sull’amore coniugale e sessuale che, per dirla in maniera provocatoria, è già “gay”».
Riecheggiano le parole di Paolo VI che nell’Humanae Vitae profetizzava una frattura profonda generata dalla facoltà di separare il momento unitivo da quello procreativo resa possibile dalla contraccezione. Un passaggio spiegato lucidamente dal cardinale Caffarra in una lunga intervista concessa al Foglio per contestare le tesi di Kasper: «Si è andata oscurandosi progressivamente la fondazione della procreazione umana sul terreno dell’amore coniugale, e si è gradualmente costruita l’ideologia che chiunque può avere un figlio. Il single uomo o donna, l’omosessuale, magari surrogando la maternità. Quindi coerentemente si è passati dall’idea del figlio atteso come un dono al figlio programmato come un diritto: si dice che esiste il diritto ad avere un figlio. (…) Questo è incredibile. Io ho il diritto ad avere delle cose, non le persone. Si è andati progressivamente costruendo un codice simbolico, sia etico sia giuridico, che relega ormai la famiglia e il matrimonio nella pura affettività privata, indifferente agli effetti sulla vita sociale».
«La domanda che bisogna porsi – prosegue il cardinale – non è se l’Humanae Vitae sia applicabile oggi e in che misura, o se invece è fonte di confusione. A mio giudizio, la vera domanda da fare è: l’Humanae Vitae dice la verità circa il bene insito nella relazione coniugale? Dice la verità circa il bene che è presente nell’unione delle persone dei due coniugi nell’atto sessuale?».
“Irregolari” non sono le persone
Nell’elenco delle situazioni pastorali difficili individuate dall’Instrumentum laboris ci sono sia quelle già oggetto della trattazione della Familiaris Consortio (1981), come la condizione dei divorziati risposati e dei conviventi, sia quelle più attuali, come quella degli omosessuali che rivendicano un matrimonio e la questione della evangelizzazione dei bambini nati da quelle unioni. In attesa della trattazione del Sinodo, il documento invita a ricordare che «irregolari sono le situazioni, mai le persone».
Accanto al numero «piuttosto consistente di coloro che considerano con noncuranza la propria situazione irregolare», si descrive la sofferenza causata dal non ricevere i sacramenti che è «presente con chiarezza nei battezzati che sono consapevoli della propria situazione». Di fronte alla sensazione di emarginazione e frustrazione si evidenzia la necessità di «opportuna formazione e informazione», senza dimenticare «anche il rischio di una mentalità rivendicativa nei confronti dei sacramenti. Inoltre assai preoccupante risulta essere l’incomprensione della disciplina della Chiesa quando nega l’accesso ai sacramenti in questi casi, come se si trattasse di una punizione».
Come si vede, nei documenti che precedono il Sinodo c’è un notevole sforzo per comprendere le situazioni più nuove e complesse in cui può venirsi a trovare la famiglia, ma nessuna traccia di quella sorta di rivoluzione libertina che in certi ambienti si attribuisce a papa Francesco. Non per niente l’Instrumentum laboris è giudicato deludente da teologi come Vito Mancuso secondo il quale «se il sinodo si attesterà su questo, allora non cambierà nulla. Ma se i vescovi vogliono servire la verità vera allora dovranno accettare il fatto che dalla rivelazione cristiana non discendono necessariamente una serie di no. E da quel che accadrà capiremo anche cosa vuole fare Bergoglio».
A una lettura fondamentalmente mondana (che non risparmia i cattolici) il Sinodo appare come l’occasione per capire se davvero ci si possa fidare di papa Francesco. Tra chi si domanda se darà seguito alle aperture progressiste cui sembra incline e chi vuole verificare che il gesuita arrivato dalla fine del mondo offra sufficienti garanzie in termini di dottrina. Eppure l’unica cosa davvero prevedibile è che nella Chiesa sbaglia solo chi pensa di aver già capito come andranno le cose confidando nella propria personale diagnosi. «L’incontro con Cristo – scrive lo stesso Francesco nella Lumen fidei –, il lasciarsi afferrare e guidare dal suo amore allarga l’orizzonte dell’esistenza, le dona una speranza solida che non delude. La fede non è un rifugio per gente senza coraggio, ma la dilatazione della vita. Essa fa scoprire una grande chiamata, la vocazione all’amore, e assicura che quest’amore è affidabile, che vale la pena di consegnarsi ad esso, perché il suo fondamento si trova nella fedeltà di Dio, più forte di ogni nostra fragilità». In fondo il dualismo tra misericordia e giustizia si risolve solo nella persona di Gesù Cristo e per questo il bagaglio dell’Anno della fede appena trascorso è il corredo migliore con cui arrivare al Sinodo.