In morte della prescrizione

Di Danilo Cilia
14 Aprile 2017
Le nuove norme non ci daranno processi più giusti, ma solo più lunghi e farseschi. Vademecum di una furbata statale per cittadini rispettabili (e non)
Una toga da magistrato in tribunale

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Diciamocelo onestamente: la stragrande maggioranza dei cittadini detesta l’idea della prescrizione. La possibilità che qualcuno, accusato di aver commesso un reato, possa farla franca per il sol fatto che non si faccia a tempo a condannarlo, generalmente indigna le persone perbene.

Starà dunque riscuotendo consensi la proposta, già approvata dal Senato ed ora all’esame della Camera, di modificare radicalmente questo vecchio istituto del codice penale, secondo una linea riformatrice che suona un po’ così: allunghiamo i tempi di prescrizione dei reati, così da avere più tempo per arrivare alla sentenza definitiva e poter meglio “fare giustizia”.

È la scelta giusta? O perlomeno, è la scelta di un paese civile? La prescrizione è davvero quel meccanismo diabolico, manipolabile a piacimento da avvocati senza scrupoli fino al punto da rovinare un processo e da renderlo ingiusto?

La risposta a queste domande passa per un fondamentale distinguo: quello tra “prescrizione” come strumento di garantismo processuale, e “prescrizione” come fenomeno più o meno patologico, riscontrabile nella quotidiana prassi dei tribunali.

[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Cos’è la “prescrizione” e perché dilaga la “prescrizione”
Se probabilmente in tanti intuiscono il funzionamento della Prescrizione (l’estinzione dei reati per mancato esercizio, entro un certo termine, del potere statale di accertarli), sicuramente in pochi ne comprendono le reali funzioni:

  1. garantire processi brevi dunque attendibili (quale testimone potrà mai ricordare i particolari di un volto, di un luogo o di un’auto a distanza, ad esempio, di dieci anni dal fatto?);
  2. rendere meno lunga, dunque più civile, l’attesa dei cittadini (che è attesa di riparazione, nel caso delle vittime, ed è diritto a non essere tormentati in eterno, nel caso degli imputati – innocenti o colpevoli che siano);
  3. assicurare alle pene inflitte esecuzioni tempestive dunque efficaci (ha senso punire qualcuno vent’anni dopo aver commesso un reato?).

Certamente quasi nessuno, d’altra parte, conosce i motivi del dilagare nei tribunali dei provvedimenti di “prescrizione”. Ed è proprio sulla base di questa ignoranza diffusa che nascono le erronee convinzioni su di essa: una fra tutte, la leggenda secondo cui i reati si prescriverebbero grazie ai trucchi ed ai rinvii degli imputati e dei loro avvocati.

La prassi italiana ci dice, al contrario, che la prescrizione dei delitti (per legge mai inferiore a sei anni) matura, nel 70 per cento dei casi, già durante le indagini preliminari (che per legge dovrebbero durare solo sei mesi): in una fase, cioè, gestita interamente da un magistrato, e che può durare anche cinque, sei o sette anni in luogo dei canonici sei mesi.

L’esperienza ci dice ancora che in questa fase (indagini preliminari) è spesso proprio l’indagine a mancare, e la prescrizione di conseguenza a dilagare. È la cosiddetta “obbligata discrezionalità dell’azione penale”: con tanti reati da perseguire, pochi soldi da spendere e poca meritocrazia negli uffici, i magistrati finiscono per dedicarsi ai reati più gravi o più “seri”, a scapito di quelli “minori”, che finiscono così per prescriversi.

Infine, le leggi e i processi ci dicono che sulla prescrizione non incidono quelle losche manovre difensive e dilatorie che valgono a rendere generalmente detestabile l’istituto. Tutt’altro: ogni volta che l’imputato o il suo difensore ottengono un rinvio dell’udienza per ragioni proprie (malattia, impegni personali o professionali, ecc.) la prescrizione si sospende, e il tempo così “perso” non si computa nel calcolo complessivo della stessa.

Ma allora, perché sono così frequenti i provvedimenti di prescrizione?

Per ragioni squisitamente burocratiche: carenze di mezzi tecnici e umani, inefficienze organizzative, omissioni e ritardi nella gestione del processo (difetti di notifica, erronee traduzioni dei detenuti, assenze dei testimoni, ritmi di lavoro dei pubblici funzionari a dir poco compassati). È dunque lo Stato, attraverso i suoi funzionari (e non il cittadino, tramite i suoi avvocati), ad avere il potere di allungare o abbreviare un processo.

Come dovrebbe cambiare la “prescrizione”
Il bello, adesso, è che lo Stato vuole modificare la “Prescrizione” come istituto, senza però rimuovere quei fattori che generano “prescrizione” nella prassi quotidiana.

La ricetta è banale: a fronte di un eccessivo numero di reati prescritti (cioè estinti per inutile decorso del tempo), lo Stato decide, semplicemente, di “auto-assegnarsi” un tot di tempo in più per chiudere i processi. Si prevede infatti, nella proposta recentemente approvata dal Senato: la sospensione dei termini di prescrizione in caso di condanna (due anni dopo la sentenza di primo grado, un anno dopo quella d’appello); la sospensione dei termini stessi in caso di situazioni processuali molto “dispendiose” (perizie, rogatorie internazionali, ecc.); il loro aumento nei casi di corruzione.

Ecco: chi riteneva che civilizzare un processo significasse abbreviarlo, rimarrà deluso. Qui al contrario lo si vuole allungare, intervenendo sui termini legali di prescrizione anziché sulle cause empiriche del suo dilagare: il tutto, ovviamente, “senza oneri aggiuntivi per lo Stato”. Ma non stava scritto in Costituzione che un processo è giusto solo se breve, che una pena è rieducativa solo se tempestiva, e che compete proprio allo Stato rendere il processo più breve dunque più giusto? E che dire dell’allungamento dei termini in caso di corruzione, la cui pena massima, solo recentemente inasprita, implica già oggi un termine prescrizionale prolungabile a dismisura (addirittura fino a venticinque anni per la corruzione giudiziaria aggravata)?

Un cancelliere impiega due anni a trasmettere un atto d’appello alla Corte: tranquilli, è gratis, c’è la sospensione della prescrizione. E perché mai? È forse giusto che questo tempo venga fatto pesare al cittadino (in termini economici, logistici, emotivi, esistenziali) anziché allo Stato che, della gestione di quel tempo, è in fin dei conti il vero responsabile? Bella furbata: anziché eliminare le inefficienze pubbliche che causano le numerose dichiarazioni di prescrizione, lo Stato – primo responsabile delle stesse – preferisce ovviamente rigirare la frittata.

La verità è che la prescrizione sottrae, impietosa, ogni possibile alibi ai ritardi pubblici. Da qui l’interesse a screditarla, come fondamento di convivenza civile prima ancora che come patologico fenomeno empirico. Un’azione che rischia di avere conseguenze gravi, prima tra tutte la creazione di un alibi di Stato proprio per i responsabili dei ritardi che generano prescrizione diffusa. Un modo di rendere i processi non più giusti, ma ancora più lunghi e farseschi di quanto non siano già.

Altri scenari
Alternative alle attuali proposte di modifica esisterebbero, eccome: presenza obbligatoria in ufficio per tutti i funzionari pubblici, magistrati compresi (oggi non è così, se non nei giorni di udienza); bonus economici a magistrati e cancellieri, calibrati almeno in parte sul numero di processi istruiti o archiviati entro i termini di legge; discrezionalità dell’azione penale (già operativa nella prassi); responsabilità disciplinare e civile dei funzionari pubblici resisi colpevoli di ritardi processuali.

In questo modo il problema non graverebbe più sull’incolpevole cittadino-imputato o sull’incolpevole cittadino-persona offesa (in termini di artificioso allungamento del processo), né sulla generalità dei consociati (in termini di mancata difesa sociale, conseguente al dilagare patologico della prescrizione); bensì solo sui diretti responsabili.

Ma questa, probabilmente, è tutta un’altra storia.

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