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In Italia aprire una birreria può diventare un’impresa. Specie quando devi pagare 50 mila euro di Tares

Intervista a Stefano Papini, presidente di Confesercenti Torino. Oggi sarà in Piazza del Popolo a Roma, alla mobilitazione generale "Senza impresa non c'è Italia, riprendiamoci il futuro"

Matteo Rigamonti
18/02/2014 - 2:00
Economia
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Fare impresa in Italia è davvero un’impresa: tra tasse e burocrazia anche aprire una birreria può diventare un inferno. Se n’è accorto sulla sua pelle Stefano Papini, classe 1975, da poco presidente di Confesercenti Torino nonché fondatore della Compagnia della Birra, la società titolare dei locali sul territorio piemontese a marchio BEFeD, un franchising di ristopub originario di Aviano (Pn) in Friuli-Venezia Giulia, che sta avendo successo in tutto il Nord Italia, dove si mangia il galletto cotto su brace e si beve birra artigianale.
Papini, quando ha voluto aprire il suo secondo locale, pensando che, come a Torino, si potesse far valere una semplice autocertificazione (la Scia, acronimo di Segnalazione certificata di inizio attività) che consente di avviare il proprio esercizio in un giorno, ha invece scoperto che non poteva. Nonostante, infatti, una legge nazionale preveda dal 2012 la possibilità di ricorrere alla procedura di autocertificazione, in Piemonte per avviare un nuovo locale è ancora in vigore una legge regionale del 2006 che stabilisce il ricorso della Dia, la Dichiarazione di inizio attività, che ha tempi di attesa più lunghi, che possono spingersi fino a 90 giorni. Una bella differenza, che potrebbe decidere anche della sopravvivenza o meno di quel bar o birreria. Ed è proprio per chiedere un cambio di passo al governo nella soluzione degli annosi problemi che ostacolano la possibilità di fare impresa in Italia – di cui questo non è che un solo esempio – che Confesercenti, insieme a tutta Rete Imprese Italia, ha deciso di scendere oggi in Piazza del Popolo a Roma, dove alla mobilitazione generale “Senza impresa non c’è Italia, riprendiamoci il futuro” sono attesi più di 30 mila imprenditori.

Pmi, 50 mila a Roma: «Basta tasse»
Se non erano sessantamila, come dicono loro, poco ci manca (50 mila secondo la questura). Moltissimi piccoli imprenditori provenienti da tutta Italia, soprattutto dal Nord, hanno sfilato pacificamente oggi a piazza del Popolo a Roma. Non erano né Black bloc né Forconi, ma tanti lavoratori che non ne possono più di tasse e burocrazia che soffocano le imprese. E c'è stato anche un messaggio al nuovo presidente del consiglio incaricato: «Matteo stai preoccupato. Non ci faremo più portare via il nostro futuro». Tra le sigle della manifestazione, hanno partecipato quelle di Rete Imprese Italia, Confesercenti, Casartigiani, Cna, Confartigianato e Confcommercio.
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Papini, la vostra non è solo una protesta contro le tasse. Cosa chiedete al governo?
Parlare soltanto del carico fiscale, che pure in Italia è tra i più elevati in Europa, sarebbe riduttivo. E glielo dice uno che quest’anno su due locali in provincia di Torino ha pagato 50 mila euro di Tares, la tassa sui rifiuti. Diecimila in più dell’anno scorso. Con tutti quei soldi avrei potuto assumere almeno un paio di persone, ma così non è stato. La prima vera difficoltà, però, per noi piccoli imprenditori e commercianti non sono le tasse: è l’incertezza. È ancora più difficile e costoso, infatti, lavorare in un contesto in cui non sono mai certe le regole del gioco.

A cosa si riferisce?
Mi riferisco al fatto che in Italia le leggi cambiano ogni sei mesi senza preavviso e spesso hanno anche valore retroattivo. Mi riferisco al fatto che l’Agenzia delle entrate, quando fa un controllo a un’impresa, presume sempre la sua colpevolezza e l’onere della prova è a carico dell’imprenditore (insieme ai costi del processo); la giustizia, poi, in Italia è diventata una palude in cui, se ci finisci dentro, non sai mai come e quando ne verrai fuori. Mi riferisco alle normative sul lavoro, che sono troppo rigide e complesse – specialmente in caso di contenzioso – e per questo non incontrano il favore né di chi assume né di chi è assunto. Per non parlare delle tipologie di contratto di lavoro, che fanno parte di un mondo che ormai non esiste più e che la riforma Fornero ha reso più complicato rispetto a quanto previsto dalla Legge Biagi.

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Stefano-Papini-befedLa burocrazia vi ha impedito di aprire un locale in un giorno: è stato un duro colpo?
Sì, non capisco perché in Italia, se c’è una legge nazionale che recepisce una direttiva europea che consente di aprire un locale in un giorno facendo ricorso all’autocertificazione, io non possa farlo semplicemente perché la mia Regione non ha ancora recepito quella legge. Ma questo non è che un problema dei tanti con cui la burocrazia ci costringe a fare i conti ogni giorno, quando dobbiamo rapportarci con una miriade di enti, uffici e ispettorati dove le normative nazionali sono recepite una volta in un modo e un’altra in un altro, secondo le interpretazioni più varie, e in modo diverso da regione a regione.

Cosa proponete di fare?
Siamo ormai arrivati a un punto in cui l’Italia deve per forza sapersi reinventare, come Torino, che, sparita la Fiat e la grande industria, è costretta a cercare un futuro altrove, per esempio nella ristorazione e nel turismo. È un sfida che non possiamo permetterci di perdere. Ma per poterla affrontare servono chiarezza, certezza ed efficienza. Chiarezza, perché non è possibile che ogni volta che esce una legge ci vogliano sei mesi prima di capire cosa c’è scritto; certezza, perché non è giusto che le leggi cambino così frequentemente; efficienza, perché dalle pubbliche amministrazioni è lecito aspettarsi il meglio, proprio come noi imprenditori cerchiamo di fare ogni giorno.

@rigaz1

Tags: agenzia delle entratebirrafare impresa in Italiafiscofisco e burocrazialegge biagiPmirete imprese italiariforma Fornerotares
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