In Italia aprire una birreria può diventare un’impresa. Specie quando devi pagare 50 mila euro di Tares
Fare impresa in Italia è davvero un’impresa: tra tasse e burocrazia anche aprire una birreria può diventare un inferno. Se n’è accorto sulla sua pelle Stefano Papini, classe 1975, da poco presidente di Confesercenti Torino nonché fondatore della Compagnia della Birra, la società titolare dei locali sul territorio piemontese a marchio BEFeD, un franchising di ristopub originario di Aviano (Pn) in Friuli-Venezia Giulia, che sta avendo successo in tutto il Nord Italia, dove si mangia il galletto cotto su brace e si beve birra artigianale.
Papini, quando ha voluto aprire il suo secondo locale, pensando che, come a Torino, si potesse far valere una semplice autocertificazione (la Scia, acronimo di Segnalazione certificata di inizio attività) che consente di avviare il proprio esercizio in un giorno, ha invece scoperto che non poteva. Nonostante, infatti, una legge nazionale preveda dal 2012 la possibilità di ricorrere alla procedura di autocertificazione, in Piemonte per avviare un nuovo locale è ancora in vigore una legge regionale del 2006 che stabilisce il ricorso della Dia, la Dichiarazione di inizio attività, che ha tempi di attesa più lunghi, che possono spingersi fino a 90 giorni. Una bella differenza, che potrebbe decidere anche della sopravvivenza o meno di quel bar o birreria. Ed è proprio per chiedere un cambio di passo al governo nella soluzione degli annosi problemi che ostacolano la possibilità di fare impresa in Italia – di cui questo non è che un solo esempio – che Confesercenti, insieme a tutta Rete Imprese Italia, ha deciso di scendere oggi in Piazza del Popolo a Roma, dove alla mobilitazione generale “Senza impresa non c’è Italia, riprendiamoci il futuro” sono attesi più di 30 mila imprenditori.
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Papini, la vostra non è solo una protesta contro le tasse. Cosa chiedete al governo?
Parlare soltanto del carico fiscale, che pure in Italia è tra i più elevati in Europa, sarebbe riduttivo. E glielo dice uno che quest’anno su due locali in provincia di Torino ha pagato 50 mila euro di Tares, la tassa sui rifiuti. Diecimila in più dell’anno scorso. Con tutti quei soldi avrei potuto assumere almeno un paio di persone, ma così non è stato. La prima vera difficoltà, però, per noi piccoli imprenditori e commercianti non sono le tasse: è l’incertezza. È ancora più difficile e costoso, infatti, lavorare in un contesto in cui non sono mai certe le regole del gioco.
A cosa si riferisce?
Mi riferisco al fatto che in Italia le leggi cambiano ogni sei mesi senza preavviso e spesso hanno anche valore retroattivo. Mi riferisco al fatto che l’Agenzia delle entrate, quando fa un controllo a un’impresa, presume sempre la sua colpevolezza e l’onere della prova è a carico dell’imprenditore (insieme ai costi del processo); la giustizia, poi, in Italia è diventata una palude in cui, se ci finisci dentro, non sai mai come e quando ne verrai fuori. Mi riferisco alle normative sul lavoro, che sono troppo rigide e complesse – specialmente in caso di contenzioso – e per questo non incontrano il favore né di chi assume né di chi è assunto. Per non parlare delle tipologie di contratto di lavoro, che fanno parte di un mondo che ormai non esiste più e che la riforma Fornero ha reso più complicato rispetto a quanto previsto dalla Legge Biagi.
Sì, non capisco perché in Italia, se c’è una legge nazionale che recepisce una direttiva europea che consente di aprire un locale in un giorno facendo ricorso all’autocertificazione, io non possa farlo semplicemente perché la mia Regione non ha ancora recepito quella legge. Ma questo non è che un problema dei tanti con cui la burocrazia ci costringe a fare i conti ogni giorno, quando dobbiamo rapportarci con una miriade di enti, uffici e ispettorati dove le normative nazionali sono recepite una volta in un modo e un’altra in un altro, secondo le interpretazioni più varie, e in modo diverso da regione a regione.
Cosa proponete di fare?
Siamo ormai arrivati a un punto in cui l’Italia deve per forza sapersi reinventare, come Torino, che, sparita la Fiat e la grande industria, è costretta a cercare un futuro altrove, per esempio nella ristorazione e nel turismo. È un sfida che non possiamo permetterci di perdere. Ma per poterla affrontare servono chiarezza, certezza ed efficienza. Chiarezza, perché non è possibile che ogni volta che esce una legge ci vogliano sei mesi prima di capire cosa c’è scritto; certezza, perché non è giusto che le leggi cambino così frequentemente; efficienza, perché dalle pubbliche amministrazioni è lecito aspettarsi il meglio, proprio come noi imprenditori cerchiamo di fare ogni giorno.
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6 commenti
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Peccato che una campagna giusta – il poter fare impresa con regole chiare, certe e veloci – sia portata avanti proprio per un fine sbagliato: aprire un’altra birreria…
Non lo sa nessuno che l’alcol e’ la peggiore delle droghe, che fa piu’ morti di qualunque altra e che distrugge famiglie e societa’? Che proprio la birra e’ il veicolo principale che conduce i giovani nell’inferno dell’alcolismo ( con quanto ne consegue sul piano sociale) e produce un numero molto alto di morti nelle strade?…
Venite a ottobre qui in Baviera, da cui scrivo, e fate una capatina a Monaco, al piu’ grande raduno mondiale di avvinazzati (esiste il corrispettivo per la birra – bevanda peraltro estranea alla cultura latina e che toglie clienti alle produzioni nazionali del vino?…); e date un’occhiata agli aspetti meno ‘nobili’ e non certo reclamizzati di quest’indecente manifestazione, che frantuma la salute e la morale a un popolo che potrebbe dare molto di piu’. Venite per vedere tutto con freddezza, non attratti dall’idiozia e dal consumismo, ma con senso critico: quanto ho appena accennato qui vi sembrera’ persino poco!…
“In Italia aprire una birreria può diventare un’impresa”.
E aprire un’impresa può diventare una birreria?
(Scusate, ma la tentazione della battuta facile era troppo forte!)
il fatto che la stessa legge è recepita con modi e tempi diversi in tutta italia è anche (e non solo) figlia di ogni territorio italiano che si crede stato a sè invece che parte integrante di qualcosa di più grande che si chiama popolo e nazione. è un problema di classe dirigente,etica e d’identità.
Taddei, e la sovranità dove la mettiamo? Non è che si può gridare al complotto europeista rivendicando la sovranità nazionale e poi impedire l’autonomia regionale (pseudo-federalismo). Ci sono molte più affinità culturali tra un piemontese e un francese che tra un piemontese e un pugliese. Cosa fa una nazione? Non basta lo stato, anzi spesso e lo stato “sovrano” a essere giacobino e soffocare le libertà personali.
uno stato federale presuppone diversi livelli per diverse competenze, non una piramide dove se si inceppa un livello ne risentono tutti gli altri. vuoi l’autonomia regionale? tieniti i ritardi della regione e vai fallito. io non parlo di complotto ma di organizzazione dello stato.