Meno tasse sul lavoro, flessibilità in uscita e semplificazione della normativa. È la ricetta di Antonio Bonardo, direttore dei rapporti istituzionali di Gi Group, per sbloccare un mercato del lavoro che è fermo da troppo tempo, schiacciato com’è tra il totem dell’articolo 18 e lo spreco di risorse pubbliche secondo logiche assistenzialistiche ormai superate. Una ricetta di cui fortunatamente si può riscontrare qualche traccia anche nelle proposte sul lavoro di Renzi, Nuovo centrodestra e Scelta civica.
Cosa ne pensa delle proposte sul lavoro finora presentate?
Tutte hanno il merito di aver individuato come sempre più urgente e indispensabile l’ammodernamento del vecchio contratto a tempo indeterminato, che dovrà essere reso meno costoso e più flessibile se si vuole rimetterlo al centro del mercato del lavoro. Anche se, a dire il vero, quelle del Nuovo centrodestra e di Scelta Civica sono le uniche due che, finora, si sono tradotte compiutamente in una proposta di legge precisa e formulata per articoli. Quanto al Job Act di Renzi, invece, si tratta solo di annunci, di “tweet” per cui, prima di poterlo giudicare nel merito, occorre attendere che vengano formalizzate proposte più precise.
Perché è così importante ammodernare il vecchio contratto a tempo indeterminato?
Il contratto a tempo indeterminato non deve essere abbandonato, bensì aggiornato coerentemente alle esigenze di maggiore flessibilità in uscita tipiche di un’economia moderna, che sono diverse da quelle che conoscevamo in passato. In particolare, occorre superare quelle storture e incrostazioni, come l’articolo 18, che rendono sempre più difficile utilizzare il tempo indeterminato a vantaggio di forme meno stabili e sicure. È per questo motivo, infatti, che il 70 per cento delle nuove assunzioni avviene con forme contrattuali diverse. Oggi, purtroppo, “tempo indeterminato” è diventato sinonimo di “posto fisso”, “inamovibile”. Mentre inizialmente non era altro che una locuzione volta a indicare che non si poteva prevedere la durata del contratto.
È possibile che il contratto a tempo indeterminato abbia fatto il suo tempo?
Senza un patto di medio/lungo termine tra impresa e lavoratore è difficile che si possa tornare a crescere. Il tempo indeterminato deve tornare al centro delle relazioni di lavoro. Ma così come oggi è impostato ha l’effetto di deprimere gli investitori interni e scoraggiare quelli esteri, che chiedono di sapere quanto costa licenziare al venire meno di determinate condizioni. Non è certo un caso, infatti, se il nostro Paese è messo così male nelle classifiche di chi attrae capitali dall’estero. Certamente non è solo colpa dell’articolo 18, sia chiaro, ci sono anche i ritardi della burocrazia, delle infrastrutture e l’elevato costo dell’energia, ma l’articolo 18 pesa eccome.
Perché allora Renzi propone un contratto unico di inserimento fuori dalla cornice dell’articolo 18 solamente per i primi tre anni?
Probabilmente l’ha dovuto fare per raccogliere l’endorsement di Fiom e Cgil che non vogliono il superamento dell’articolo 18. Ma non possiamo restare legati a modelli economici di epoche passate.
Meglio l’abrogazione definitiva, eccetto che nei casi di licenziamento discriminatorio, come propone l’Ncd?
Sì, anche se affidare i disoccupati esclusivamente a un modello di voucher per la formazione sull’esempio della Dote unica lavoro della Lombardia mi sembra un po’ estremo.
Cosa suggerisce?
Meglio sarebbe distinguere tra il risarcimento del danno che spetta all’impresa, da un lato, e un servizio di ricollocazione che potrebbe essere affidato alle agenzie per il lavoro, dall’altro. Salvo, s’intende, mantenere l’intervento pubblico nel caso di licenziamenti imputabili a fallimenti o liquidazioni aziendali. Le agenzie per il lavoro, infatti, hanno il vantaggio di conoscere il mercato e possono aiutare il lavoratore a riqualificarsi e ricollocarsi in tempo utile a ritrovare un posto. Il rischio, altrimenti, è che i fondi pubblici spesi servano più ai formatori che a chi ha bisogno di essere formato.
In definitiva, di cosa ha bisogno il mercato del lavoro italiano per sbloccarsi?
Che venga ammorbidita la rigidità in uscita e siano abbassate le tasse sul lavoro. Il costo del lavoro, infatti, oggi è troppo elevato e c’è bisogno che la gente torni a spendere perché ripartano i consumi interni. Non tutti poi possono fare affidamento sull’export, che è l’unico mercato in crescita. Per tutto ciò, invece, che rientra nel campo della flessibilità, e quindi opportunità lavorative della durata massima di tre mesi, si dovrebbe puntare esclusivamente sulla somministrazione, che garantisce continuità, formazione e welfare integrativo.
Sia Renzi sia Sacconi chiedono di semplificare le norme sul lavoro. Come mai?
È un auspicio condivisibile, anche se non è vero, come sostiene Renzi, che in Italia ci sono 40 tipologie contrattuali. La riforma Fornero, infatti, ce ne ha consegnate 15 al massimo e non servono ulteriori abrogazioni. Va detto, però, che nemmeno è possibile abrogare la riforma Fornero per tornare alla legge Biagi, come chiede il Nuovo centrodestra per le tipologie contrattuali diverse dal tempo indeterminato. Sembra una rivendicazione più politica che tecnica.
Perché è importante semplificare le norme sul lavoro?
A chiedere norme più semplici sono i 22 milioni di lavoratori e i 4 milioni di imprenditori che ogni giorno operano in Italia. Mi sembra un motivo più che valido. Ma non basta. Le nuove norme dovranno anche essere scritte meglio di quanto non lo siano oggi. Altrimenti ci sarà sempre bisogno di ricorrere ai consulenti del lavoro o a un avvocato per poterle interpretare correttamente.
È così complesso il diritto del lavoro italiano?
Non sempre le norme sono facilmente interpretabili da chiunque. Ma quel che che è peggio è che spesso si è costretti a vivere nell’incertezza del diritto, per cui, per ogni norma poco chiara, non si può far altro che attendere il contenzioso e la decisione del giudice di turno. Poi c’è bisogno anche di più rigore nei controlli, perché si possono stabilire tutti gli obblighi di legge che si vuole, ma se non si fanno rispettare non servono a nulla.
L’apprendistato targato Fornero non sembra essere andato poi così bene. Le risulta?
È vero, stando ai numeri, non è andato bene. Siamo favorevoli a una sua revisione e ulteriore semplificazione, specialmente per quanto riguarda gli obblighi formativi, se finalizzata a renderlo più fruibile.
Come?
Si potrebbe fare come in Germania, dove la retribuzione all’ingresso in azienda è il 30 per cento di quella definitiva, salvo poi crescere nei quattro anni successivi. Soltanto che, in Germania, la formazione è garantita sul serio, non come in Italia. Certo, poi, bisognerebbe controllare che così avvenga.