Terra di nessuno

Il santuario di Caravaggio. Pellegrini alla fonte

Pubblicato su Tempi, n. 2 / 2012, gennaio.

Milano. Una mattina alzarsi all’alba e andare a Caravaggio. Erano mesi che l’avevo promesso. Una mattina all’alba andare a Caravaggio, pellegrini.

È notte ancora, ma già sul viale che corre verso Linate albeggia. E verso est, sulla Rivoltana deserta in questo Santo Stefano, l’orizzonte si allarga davanti chiaro e rosa, nel cielo di una limpidissima mattina. Sulla sinistra, lontane ma nette, le montagne. Proprio nessuno in giro, ti ripeti stupita dal nastro d’asfalto che ti si srotola davanti, vuoto. Nel grande parco di villa Invernizzi i daini se ne stanno immobili come fossero dipinti. Dalle rogge di alza un vapore bianco che subito si dissolve. Ora è rosso il cielo, mentre il disco del sole spunta fiammeggiando all’orizzonte.

È bello andare verso est nell’ora dell’alba, correre incontro al sole. Tre gradi sotto zero, segna il termometro sul cruscotto; nell’aria fredda si staglia più netto il profilo degli alberi spogli, e questo cielo sembra duro e fragile come vetro. (Come sorge intonsa ogni mattina, ti viene da pensare; come, a ogni alba, il tempo di una giornata ci è dato nuovo, vergine). E vai avanti ancora e passi l’Adda con le sue acque pacifiche. Ti viene in mente l’andare per i boschi di Renzo; è questo, il cielo di Lombardia, «così splendido, così in pace».

Già da lontano la cupola tonda del Santuario sembra aspettarci – avendo noi promesso di tornare. Scendi dall’auto e l’aria ha una fragranza del tutto differente. Annusi: che cos’ha dentro? Polvere di brina, eco di stalle tiepide, e un’ombra di nebbia dissolta che ti si insinua dallo scollo del cappotto. Nel bar, l’aria invece è già calda e densa di profumo di caffè. Passi affrettati di una piccola folla sparsa, accorsa da chissà dove ma qui insieme, puntuale, per la Messa. I nostri fiati che evaporano dalle bocche, le mani conficcate in tasca, a scaldarsi. Dentro, nel Santuario, è tiepido come in una casa in cui il fuoco sia rimasto acceso nella notte.

Ci si siede vicini sulle panche scure. Molti hanno lo sguardo fisso alla Madonna, intento. Chissà cosa domandano, quali dolori invisibilmente si trascinano dietro, questi uomini e donne venuti qui in un’alba del giorno dopo Natale. Cantano, nella Messa, «adeste fideles»; la dolcezza di questo canto antico è indicibile, mentre fuori sulla pianura un sole chiaro attacca e scioglie la brina.

Andiamo alla fonte. Mi piace sempre, nella penombra sotterranea, questo rumore di acqua sorgiva. Rimarrei qui solo per ascoltare questo ruscellìo generoso, inestinguibile. È come, come se mi ricordasse misteriosamente qualcosa.

Rimarrei qui a guardare, esposta come un ex voto in una nicchia, la lama atroce della ghigliottina che si arrestò, e ne ebbe salva la vita il condannato, in un giorno di maggio, tanto tempo fa. Rimarrei qui a fissare quella macchina di morte inceppata, e ad ascoltare questo scorrere carezzevole di acqua di miracoli, questa sorgente generosa e infinita.

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