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Il comune di Roma abbandona i disabili in ospedale

L’amministrazione Raggi ritocca la convenzione con le case famiglia. «Perché abbandona i più fragili?». Intervista a Luigi Vittorio Berliri

Caterina Giojelli
03/07/2019 - 2:00
Società
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«”Via tutti, via tutti, resta solo il paziente”, ci hanno detto i medici trascinandosi Marco arso vivo dalla febbre oltre le porte della sala d’attesa. Neanche il tempo di finire il conto alla rovescia – tre, due, uno… – che la soglia si era riaperta: “Scusate, come non detto, non è che qualcuno viene a darci una mano?”».

C’è tutto in questi tre secondi raccontati a tempi.it da Luigi Vittorio Berliri, presidente della cooperativa Spes contra Spem e di Casa al Plurale che operano a Roma e nel Lazio a sostegno delle persone con disabilità: c’è Marco, che ha 50 anni, una disabilità gravissima e 39 di febbre, ci sono i medici dell’ospedale che non riescono nemmeno a capire «dove ti fa male?», e ci sono i membri della sua famiglia, cioè gli operatori sociali della casa famiglia dove Marco vive e che di Marco sanno tutto, sanno decifrare ogni strizzata d’occhi, i gesti, i suoni smozzicati, sanno che c’è bisogno di loro ogni tre secondi.

CHI LASCEREBBE UN BIMBO DA SOLO IN OSPEDALE?

“Ci sono”: perché è questo il loro lavoro, esserci. Marco è orfano di madre e padre, non parla, sorride, gli esperti dicono che la sua età intellettiva è pari a quella di un bambino di tre anni e come tale ha bisogno di tutto. Soprattutto di qualcuno che sappia rispondere al suo bisogno. Gli operatori lo hanno portato in ospedale appena si è alzata la febbre capendo che era in corso un’infezione, e lì sono rimasti ogni singolo del ricovero necessario a Marco per accertamenti, flebo, cure, secondi che sono diventati molte notti e molti giorni, mano nella mano. Perché a chi verrebbe in mente di lasciare un bambino da solo in ospedale?
Ve lo diciamo noi: al Comune di Roma.

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«FIRMATE ENTRO 24 ORE»

«Settimana scorsa riceviamo una pec», spiega Berliri, riferendosi alla comunicazione inviata dall’amministrazione capitolina per il rinnovo delle convenzioni (dieci pagine fitte fitte, scritte a caratteri minuscoli che da cinque anni a questa parte vengono inviate ogni due mesi a tutte le realtà che si occupano di dare casa e famiglia ai disabili), ma questa volta ci sono tre righe in più: «In caso di malattia – scrive il comune – e/o ospedalizzazione, verrà corrisposta una retta pari all’80 per cento per un’assenza fino a 7 giorni, al 50 per cento se l’assenza si protrae fino a 30 giorni, nel caso in cui l’assenza superi i 30 giorni non verrà corrisposta alcuna retta». Ventiquattr’ore per firmarla, pena la sospensione della convenzione.

CON MARCO IN OSPEDALE LE SPESE LIEVITANO

«Tradotto: abbandonate il paziente fragile in ospedale. Andate contro al buonsenso, alle linee guida, alla carta dei diritti delle persone con disabilità in ospedale, lasciatelo da solo. Perché chi lo spiega al sindaco Raggi che nel periodo di ospedalizzazione di Marco, le spese invece di diminuire sono aumentate?». Casa al Plurale, Federsolidarietà, Agci Solidarietà, Legacoopsociali e Forum Terzo Settore che operano nel Lazio ci hanno provato, a spiegare con una lettera aperta indirizzata al sindaco di Roma e all’assessore alle Politiche sociali Laura Baldassarre, cosa succede quando un ospite di una casa famiglia viene ricoverato: risparmiati a malapena i 3 euro per il pasto, il numero di operatori in turno nella casa famiglia rimane lo stesso, «mica il comune dà i soldi per mettere un operatore per ogni persona con disabilità! (magari fosse!) Ce ne sono tre in tutto! (e ne viene pagato meno di uno e questa è una altra storia!). Non si poteva mica prendere una sciabola e dividere un quarto di operatore e mandarne una parte in ospedale e una altra parte in casa. No – denunciano le associazioni – in questi, tanti, giorni, ogni giorno a fianco a Marco c’era un operatore in più rispetto a quelli necessari in casa! E lo sa, Sindaca, quanto costa tutto questo? Costa esattamente quattro volte l’importo di una singola retta».

TIZIANA È MORTA SOLA E INASCOLTATA

Ci si chiede se chi ha scritto quelle tre righe sia mai stato in ospedale con un bambino, o abbia mai pensato di riconoscere diritti simili alle persone con disabilità in ospedale, per le quali affrontare la quotidianità di una struttura ospedaliera (l’attesa in un pronto soccorso, un esame invasivo, la degenza) può rappresentare un’esperienza drammatica e devastante. Esistono buone prassi, redatte da un comitato scientifico (composto dai medici più esperti di tutta Italia) che hanno scritto una carta (la “carta dei diritti delle persone con disabilità in ospedale”), adottata in tante regioni di Italia. Sono state definiti “passi avanti di civiltà”. Poi è arrivato il comune di Roma, che senza prendersi la briga di ascoltare nessun addetto ai lavori e in piena autonomia ha deciso di fare uno scandaloso passo indietro: niente soldi, se un disabile si ammala non è affare nostro. «È inaccettabile, un servizio sociale ha l’obbligo della presa in carico di una persona: per noi significa dall’unghia incarnita al taglio di capelli fino al tenerle la mano nell’ultimo istante della sua vita. Lo sa come è nata la “carta dei diritti delle persone con disabilità in ospedale”? Dal caso di Tiziana. Viveva in casa famiglia, è stata ricoverata per una banale influenza. Le persone che per anni si sono prese cura di lei e sapevano capirla, decifrare i suoi bisogni, venivano ammesse solo negli orari di visita. Incapace di comunicare con i medici, spiegare loro anche se solo banalmente sentisse freddo con la finestra aperta Tiziana contrae la polmonite in ospedale. E muore, da sola e inascoltata». La carta, adottata oggi in numerose regioni italiane, nasce così.

EMILIA, CIECA, E IL SUO CUCCHIAINO

Marco ha la sindrome di down, è autistico, ha un ritardo cognitivo grave. Con lui vivono altre cinque persone, come Alessandro, che scrive poesie, ha la mente lucidissima ma il corpo incapace del più piccolo gesto, e come Emilia: «Emilia ha quasi 60 anni, vive in carrozzina ed è cieca, ma può riconoscere e distinguere i tuoi passi da quelli di qualunque altro appena entri in casa, ed è innamorata di Stefano (anche lui in carrozzina e ha un importante ritardo mentale, ndr). Emilia ha bisogno di quasi tutto, le abbiamo insegnato a mangiare con un piatto speciale e un cucchiaio concavo con cui percepisce il peso del cibo che porta alla bocca, ma è necessaria la presenza di qualcuno accanto che le serva il cibo, le dica, “Emilia, non hai finito, c’è ancora da mangiare nel piatto”. Sono sei ospiti in tutto, anche il più “indipendente” dipende da qualcuno che gli regoli o spenga l’acqua della doccia, e da un rapporto con qualcuno che sappia leggere negli occhi, capire i gesti, impiegare mezz’ora di pazienza per somministrare un farmaco».

DI CHI È LA RESPONSABILITÀ DI MARCO?

Le case famiglia ospitano adulti dai 18 ai 100 anni, in media gli ospiti di Roma e dintorni ne hanno 45-50. Anche se seguiti e monitorati 24 ore su 24 molti disabili vivono situazioni fisiche delicatissime e la possibilità di andare in ospedale non è affatto remota: «Di chi è la responsabilità della vita di disabile come Marco, un adulto ma con bisogni primari di un bimbo piccolissimo? Di tutta la comunità. E non solo perché Marco è orfano: la stessa responsabilità verso la vita, il benessere, la possibilità di mettere al mondo figli, crescerli ed essere aiutati a stare accanto alle loro disabilità e malattie, senza scartarli, dovrebbe essere data a tutte le famiglie da una comunità che voglia dirsi tale. Da una città, cioè da una politica: cosa dobbiamo pensare dell’idea di uomo, individuo e vita di chi ha scritto quelle tre righe nella convenzione? Ma che razza di società è una società che non accetta di farsi carico dei suoi figli più fragili e nemmeno di aiutare chi vuole prendersene cura?».

FARSI BEFFE DI OPERATORI E DISABILI

Oggi la retta del Comune copre la metà esatta del fabbisogno di una casa come quella che ospita Marco. L’80 per cento della cifra riconosciuta per una disabilità lieve (105 euro) o complessa (141 euro) viene assorbita dallo stipendio degli operatori, il resto è la gestione ordinaria di una casa: vitto, alloggio, affitto, spese, assistenza. E in casa di Marco grazie alla generosità di privati e volontari non è mai mancato nulla. Negli ultimi cinque anni il rinnovo delle convenzioni è avvenuto ogni due mesi: il bilancio del comune è quello che è e nessuno si prende la briga di assicurare le tariffe per un periodo più lungo. Questa volta invece la convenzione ha scadenza dicembre 2020, un anno e mezzo per respirare ma con quelle tre righe che sembrano ricordare ancora una volta chi ha il coltello dalla parte del manico. «Nessuno ci ha chiesto nulla, nessuno ha sentito il bisogno di chiedere a chi ha esperienza sul campo. Poi un amministratore sceglie, anche in libertà, ci mancherebbe». Ma come si fa a farsi beffe del ruolo insostituibile della famiglia (è questo che è per Marco la sua casa famiglia) nel supportare i medici a comunicare, fornire loro informazioni, costruire la relazione con i pazienti? E soprattutto, come si fa a farsi beffe di Marco?

Foto Creativa Images/Shutterstock

Tags: Virginia Raggi
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