Il bar delle grandi speranze è vuoto. E se fossero vuote le speranze che conteneva?

Di Marco Cobianchi
16 Maggio 2020
Pensare che lì, dove ho lavorato, bevuto, mangiato non c’è nessuno, non mi rende triste, mi impaurisce. Mi sono chiesto perché

Articolo tratto dal numero di maggio 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

Il bar delle grandi speranze è chiuso. Ci passo davanti tutti i giorni in motorino. Cerco di non buttare l’occhio verso il cancello chiuso, proprio perché so che è chiuso, ma ogni tanto mi scappa e mi si stringe il cuore. Sì, a me il vuoto fa paura e pensare che lì, dove ho lavorato, bevuto, mangiato non c’è nessuno, non mi rende triste, mi impaurisce. Mi sono chiesto perché. 

Secondo me (ma è un’ipotesi, non mi conosco così bene da sapere perché ho certi sentimenti. Però ci sto lavorando) è perché ho paura che insieme al bar siano vuote anche le speranze che conteneva. Cioè: mi fa paura che quegli adorabili coglioni di studenti universitari che lì venivano a studiare e broccolare si siano portati via la loro «illogica allegria» (Gaber) e che non torni più. I nostri desideri sono così fragili, così deboli, così… (non mi viene la parola) che basta un niente per farceli dimenticare. Tipo: quando desideri una ragazza, e ti sembra di desiderarla davvero, ma proprio con tutte le tue forze, ma proprio che non stai nella pelle, basta il suo primo “no” per smettere di corteggiarla. Di fronte al primo “no” di una ragazza si passa alla ragazza successiva dimenticandosi del desiderio di lei, convincendosi che non era quella giusta mentre invece era il desiderio che non era quello giusto. 

Non so se mi spiego. Siamo tutti Fedor Pavlovic, il padre dei fratelli Karamazov che chiede al figlio Ivan: «Esiste l’immortalità?». E Ivan risponde: «No». E lui: «Neanche una piccola piccola?». Anche quei simpatici universitari che affollavano il bar delle grandi speranze con i loro computer sono così. Desiderano l’impossibile e si accontentano di passare l’esame senza rendersi conto che possono fare tutte e due le cose contemporaneamente e che è il desiderio che ti fa passare l’esame, non è l’esame passato che ti permette il desiderio. Ecco: a me non fa paura che il bar sia chiuso, mi fanno paura, anzi, mi fanno proprio schifo, i desideri “piccoli piccoli”, come quelli di Fedor Pavlovic Karamazov. 

Poi scendo dal motorino, mi volto a guardare il portone sbarrato del bar e penso che i bar possono anche chiudere, le grandi speranze mai. E che non vedo l’ora di dirglielo in faccia a quegli adorabili, stupendi, meravigliosi coglioni.

Foto Ansa

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